Raffaella Arrobbio è l’autrice del volume Fratelli spirituali. Gotama il Buddha, Gesù il Cristo. Due voci, un’unica esperienza spirituale (Gabrielli editori, 2023). Laureata in Filosofia e in Psicologia, ha svolto attività di psicoterapeuta, lavorando nell’ambito della psicoterapia cognitiva coadiuvata da Training Autogeno, floriterapia di E. Bach, e visione della logoterapia di V. Frankl. Studiosa del Buddhadharma da molti anni, ne ha intrapreso anche la pratica, con la guida personale di un maestro tibetano, di scuola Kagyupa del buddhismo Vajrayana. Nel tempo si è accresciuto il suo interesse per il dialogo tra il Buddhismo e il Cristianesimo, nell’approfondimento dei testi. L’intervista è stata curata da Giordano Cavallari.
- Raffaella, nel suo libro, lei ravvisa analogie tra le vite di Gotama il Buddha e di Gesù il Cristo: quali?
La prima analogia che salta subito in evidenza riguarda le ‘tentazioni’, un momento che è presente in entrambe le vite. Satana per Gesù nel deserto, Māra per Gotama seduto sotto l’albero dell’Illuminazione: entrambi i démoni alla fine, vinti, si allontanano. La similitudine tra i due racconti ha il sapore di un mito archetipale, che ci parla della lotta interiore che in ogni essere umano avviene tra le tendenze egoiche e appropriative e la rinuncia ad esse, rinuncia che apre alla dimensione di coscienza detta ‘risvegliata’ in linguaggio buddhista, l’evangelico Regno dei Cieli.
Altre analogie che riscontriamo nei racconti delle due vite riguardano l’infanzia: concepimento miracoloso, nascita da una madre che eccelle per virtù, persino il fatto che entrambi nascono mentre la madre è in viaggio. Episodi sovrapponibili sono anche quelli dei saggi e sapienti che riconoscono l’eccezionalità del bimbo che é nato. Questi racconti li troviamo, per Gesù, nei Vangeli canonici (e non); per Gotama sono narrati ad esempio nel Buddhacarita di Aśvagosha. Un’altra analogia importante riguarda la vita itinerante, l’insegnamento continuo ad ogni tipo di persona, senza limitazioni da regole e pregiudizi.
- Ritiene che possa darsi qualche influenza storica tra le due figure?
Conosciamo l’esistenza di contatti tra la cultura ellenistica e il buddhismo, in particolare nel Gandhāra, affascinante cultura sorta nella zona tra gli attuali Pakistan settentrionale e Afghanistan orientale. Di ciò esistono reperti sia artistici sia testuali.
Tuttavia, non mi risulta che esistano prove archeologiche o scritturali che evidenzino un contatto tra monaci buddhisti e la Palestina dei tempi di Gesù; e nemmeno mi sembra attendibile l’ipotesi che Gesù stesso sia stato in India o in altre località del Medio Oriente ad apprendere l’insegnamento del Buddhadharma.
L’insegnamento di Gesù, in tutta evidenza, sorge dall’humus della fede ebraica, penetrando il senso interiore dell’osservanza della Legge e donandoci così un insegnamento di validità universale.
Non è, secondo me, necessario ipotizzare contatti diretti tra i due mondi, per spiegare l’affinità di insegnamento tra Gesù di Nazareth e Gotama il Buddha.
A un livello più profondo, interiore, il motivo può essere trovato nell’affinità di esperienza trasformatrice che entrambi hanno fatto, conoscendo quella dimensione oltre la coscienza ordinaria, caratterizzata da pace e amore che, entrambi, si sono adoperati ad indicare ad altri.
Sotto qualunque cielo e in qualunque tempo storico, chi entra nella dimensione ‘al di là’ dell’ordinario, fa la medesima esperienza, e questo perché la possibilità di questa esperienza risiede nell’interiorità umana, in qualunque tempo e luogo.
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- Lei li ritiene, dunque, “maestri archetipi”: quale l’archetipo spirituale?
Essi sono – per usare le parole del filosofo Karl Jaspers – ‘personalità paradigmatiche’: esempi e modelli della massima potenzialità umana. Mostrano a tutti che è possibile un’umanità caratterizzata da amore, non violenza, compassione, equanimità, se soltanto si abbandona quel – purtroppo ancora abituale – piccolo e miope sguardo sulla realtà e si lascia agire la nostra autentica essenza umana: ciò che davvero siamo in essenza.
La fiducia certa che nell’umano esista una possibilità, che può essere realizzata, di trasformazione ed evoluzione: questa a me sembra la base comune delle due figure e dei due insegnamenti di cui parla.
- Gotama il Buddha e Gesù il Cristo, come lei sostiene, non avrebbero trasmesso dottrine – intese quali filosofie o teologie organiche – bensì esperienze molto simili. Può spiegare?
L’esperienza dell’Essere, l’esperienza della Realtà che si vela e si nasconde nel superficiale divenire, l’esperienza di una conoscenza che è spontaneamente amore universale: è l’esperienza del Regno dei Cieli in termini evangelici, e l’esperienza del ‘non nato e del non divenuto’ in termini di Canone buddhista. È l’esperienza, quindi, di ciò che in India si denomina il Risveglio: letteralmente uno svelare ciò che copre il ‘tesoro nascosto’ in tutti noi.
- Nella interiorità di ogni essere umano sussisterebbe, dunque, una ‘essenza trascendente’. Da quali passi canonici lei lo desume, nelle due vie?
Il ‘tesoro nascosto’ è un’immagine che ricorre in entrambe le Vie, ad indicare la potenzialità di radicale trasformazione a cui ho accennato: una potenzialità presente in ogni essere umano.
Questa potenzialità inerisce l’interiorità stessa, non è al di fuori di noi. Troviamo in entrambe le Vie anche l’esempio del seme che, per piccolo che sia, una volta seminato cresce e diventa un grande albero: sono esempi questi, di quella condizione – il Regno dei Cieli, il Nirvāna ovvero lo Stato di Buddha – in cui l’essere umano diventa ciò che è, ossia la realizzazione della potenzialità da sempre inerente all’umano, anche quando non vista.
- Felicità e infelicità – o sofferenza – nel vissuto dell’esistenza da cosa dipenderebbero, secondo i Maestri? Come è possibile uscire dalla infelicità?
Nell’enunciazione buddhista delle 4 Nobili Verità è affermato molto chiaramente che l’origine del dolore è la brama, quella sete inesausta paragonata, ad esempio, allo spasimo di ‘pesci in un torrente quasi all’asciutto’. A causa di questa sete incessante di avere, possedere, trattenere, gli individui compiono azioni che generano sofferenza ulteriore, in un perverso circolo vizioso: il samsāra, appunto.
Nei vangeli troviamo esortazioni a non perseguire comportamenti di avidità, di appropriazione, di attaccamento al posseduto, poiché l’importante non è questo, bensì ‘cercare il Regno dei Cieli’. Dunque, in entrambi i casi, sembra che l’indicazione sia: l’insoddisfazione radicale intrecciata all’esistenza e le sofferenze di ogni genere che tutti conosciamo, dipendono da attaccamento e desiderio incessante, da atteggiamenti di appropriazione e avidità. In ultima analisi la sofferenza dipende da un unico regista: l’ego le cui modalità relazionali sono prevalentemente il desiderio di appropriazione, l’attaccamento e, per ciò, l’aggressività.
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- Il Nirvana indicato dal Buddha e il Regno di Dio indicato dal Cristo sono, dunque, un po’ la stessa cosa: raggiungimenti dell’esistenza?
A me così sembra. Sono espressioni – culturalmente determinate dalle due diverse realtà storiche, sociali, religiose – che indicano quella stessa Realtà che di per sé è indicibile, che è al di là di ogni tentativo di spiegazione, conoscibile soltanto nell’esperienza interiore dello svelamento di quel ‘tesoro sepolto’ di cui ho detto.
- Lei distingue tra “raggiungimento” e “percorso”: quale sarebbe il comune percorso, cristiano e buddista?
L’abbandono dell’io: “Chi vuol essere mio discepolo, rinunci a sé stesso” (Lc 9,23) e “Recidi l’amore verso te stesso” (Dhammapada, XX, 285). Identica è la prescrizione di un percorso che è di abbandono: lasciare, rinunciare alla modalità egoica di vita e relazione.
- Ci parli, ancor più, del “distacco da sé”: cos’è? Come si consegue?
Il distacco è un’esperienza, non è una conoscenza intellettuale. È l’esperienza interiore che sorge dall’abbandono della modalità dell’ego. “Colui che ha attaccamento, non è libero”, recita un testo buddhista (Samyutta Nikāya, 3.1.6.1).
Distacco è liberazione pure da ciò che si detesta, nel senso di non voler reagire con l’aggressività e la creazione di conflitti a ciò che ci appare come negativo, o nemmeno a ciò che è, di per sé, davvero negativo.
Come conseguire il distacco? Io penso si possa dire che non avviene una volta per tutte, ma in ogni istante, nel quotidiano, passo dopo passo: “Vigila su di te, e non appena trovi te stesso, rinuncia al tuo io”, ci spiega Meister Eckhart.
- Cos’è, allora, la meditazione e cos’è la preghiera? Sono la stessa cosa?
Il vocabolo (bhavāna) che noi traduciamo con ‘meditazione’, nel suo senso originario significa ‘coltivazione’ della mente. Coltivare il giusto atteggiamento mentale per realizzare il distacco richiede una continua attenzione, una vigilanza continua per cogliere gli stati mentali ed emotivi che si affacciano alla mente e abbandonare quelli ‘non salutari’, coltivando e facendo crescere gli stati cognitivi ed emotivi ‘salutari’.
“State attenti a voi stessi” (Lc 17,3) esorta Gesù; lo stesso consiglio pervade tutto l’insegnamento del Buddha. Entrambi conferiscono un’estrema importanza al ‘restare svegli’, al non cadere nel sonno dell’inconsapevolezza.
Su questo punto troviamo parole simili, ad esempio: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non cadere in tentazione” (Lc 22,46) e “Levatevi! Alzatevi! A che scopo continuare a dormire?” (Sn 332). Quindi, c’è necessità di un’attenzione continua per tagliare alla radice la tendenza ad afferrarsi all’io e al ‘mio’: questa è in effetti la pratica del ‘distacco’.
Per quanto riguarda la preghiera, essa non sembra – per come è presentata nei Vangeli – così lontana da un atteggiamento meditativo tipico della pratica che troviamo nel buddhismo: se leggiamo quel passo in cui Gesù consiglia a chi vuol pregare – “ritirati nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è presente nel segreto” (Mt 6,6) – a me sembra un’indicazione di atteggiamento meditativo. Poi è chiaro che nel Buddhadharma esistono molti più dettagli riguardo il come condurre una pratica formale di meditazione di consapevolezza. Tuttavia, non è la pratica formale sufficiente a conseguire la meta: la consapevolezza – allenata nella meditazione formale – deve intrecciarsi alla vita quotidiana, sempre.
Nelle due Vie, quindi, è ugualmente centrale l’importanza ‘salvifica’ della consapevolezza attenta, ben esemplificata nella parabola evangelica delle vergini sagge e di quelle stolte: le ultime, a causa dell’inconsapevolezza o distrazione, perdono la possibilità di entrare nel Regno dei Cieli (Mt 25, 1-13).
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- Le emozioni, i sentimenti, i desideri terreni, sono tutti da estinguere? Causano sofferenza?
Se siano motivo di sofferenza o meno dipende essenzialmente dalla presenza o meno del distacco dall’egoità. Non si tratta di non provare alcun sentimento o emozione, bensì di provarli senza modalità appropriativa: l’io e il mio sono la causa della sofferenza, non certo un sentimento in sé.
- Cosa resta, secondo lei, del concetto di Dio, di ciò che è sacro, del fine ultimo della esistenza e della storia?
Penso si possa dire che tutto questo mio discorso sia un discorso sul Sacro: sulla possibilità che -seguendo questi insegnamenti – il quotidiano ordinario si trasformi in Sacro; la vita ordinaria diventa epifanica.
- Quali sarebbero gli effetti etici sulle persone e sui popoli per queste vie spirituali?
La regola d’oro generale – “non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te” – che nell’insegnamento evangelico troviamo ampliata nel “fate agli altri quello che volete sia fatto a voi” (Mt 7,12 e Lc 6,14), è presente in entrambe le Vie. Ciò apre alla autentica possibilità di relazioni fondate su condivisione, amore, equanimità, non violenza.
- Quale affinità di compassione, amore-carità e libertà tra buddismo e cristianesimo?
L’amore per il prossimo, senza attaccamento a sé e alla propria vita, è la fondamentale, unanime, indicazione in entrambi gli insegnamenti. Identificando sé agli altri, ‘si coltivi una mente di sconfinata amorevolezza’ verso tutte le creature: così consiglia il Buddha (Sn 149-150), esattamente come Gesù in “ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,39).
La chiave di volta è, di nuovo, l’abbandono dell’attaccamento all’egoità: dall’abbandono discende – spontaneamente – l’amore incondizionato, la compassione incondizionata, la libertà dai legami opprimenti e divisivi.
- Ciò dovrebbe produrre un mondo migliore, ad esempio, radicalmente non violento?
Certamente. “Mai si placa l’odio con l’odiare: con il non-odiare si placa” (Dh, I,5) e “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano” (Lc 6,27-28).
Dobbiamo tener presente che la motivazione altruista è alla base di tutto il percorso nella Via buddhista: il praticante è fin dall’inizio sollecitato a rivolgere al bene di tutti gli esseri, nessuno escluso, il proprio desiderio di conseguire il Risveglio: non per sé, ma per tutti. Da ciò possono discendere soltanto azioni rivolte al bene altrui e attente a non creare sofferenza agli altri.
La stessa attenzione a non creare sofferenza agli altri ma, al contrario, agire per il bene altrui dovrebbe essere anche proprio dell’atteggiamento di chi segue il dettame evangelico. Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che nel 1943 è stato messo a morte per essersi rifiutato di combattere a causa del suo credo cristiano, e beatificato nel 2007, è un esempio di ciò che sto dicendo.
Dobbiamo sperare che un giorno o l’altro non avremo più soltanto casi isolati, e le precise istruzioni dateci dai due Maestri verranno prese più sul serio da tutti noi. In queste istruzioni è racchiusa la possibilità di un mondo davvero incommensurabilmente diverso e migliore dell’attuale.
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- Quali sono, secondo lei, i caratteri del nostro tempo che – forse senza voce – invocano questi insegnamenti?
Non è difficile rendersi conto di quanto il nostro mondo stia purtroppo andando in direzione opposta rispetto a questi insegnamenti, con i risultati catastrofici che stiamo vedendo, ogni giorno.
Secondo me, sarebbe utile e prezioso rivedere l’idea di essere umano che abbiamo costruito: chi siamo noi veramente? Siamo soltanto un corpo e una mente condizionati da fattori materiali di ogni genere, oppure siamo anche e soprattutto qualcos’altro?
Ascoltiamo quanto hanno da dirci questi due Maestri, le cui parole sono ancora ben vive, per comprendere che è possibile un salto evolutivo che disancori la nostra coscienza dalla visione ristretta in cui ci siamo chiusi, soffrendo e generando sofferenza. Possiamo ancora scommettere che quel ‘tesoro nascosto’ di cui ci parlano i nostri Maestri sublimi esista veramente, decidere di cercarlo, per il nostro e l’altrui bene.
- Nel suo libro scrive che il “Buddha illumina l’insegnamento evangelico”. È così per lei? E può essere per molti?
Così è stato per me. È stato davvero illuminante scoprire il senso delle parole di Gesù grazie a quelle del Buddha. Forse una conoscenza reciproca dei due insegnamenti – a partire dalla conoscenza dei loro testi base – potrebbe essere molto utile a molte persone che non sono soddisfatte, nel loro anelito di spiritualità – dalle ‘solite prediche’.
Nel novembre scorso si è svolto a Bangkok un incontro cristiano- buddhista sul tema ‘Karuna (compassione) e Agape (carità) in dialogo per la guarigione di un’umanità e di una terra ferite’. Tra i temi, anche lo studio dei rispettivi testi per una maggiore conoscenza reciproca e soprattutto per indicare ‘vie di guarigione’ all’umanità contemporanea.
- Lei auspica una conoscenza e una pratica del buddhismo nel cristianesimo e nella stessa Chiesa cattolica?
Certamente non è utile proporre corsi di ‘meditazione’ o di ‘mindfulness’ nelle scuole o nelle parrocchie! Questa strada, che alcuni intraprendono, non cambia granché nella persona e nella società. In un mio libro di un paio di anni fa – La meditazione tra essere e benessere – ho mostrato come sia inutile e spesso controproducente praticare la meditazione in modo del tutto avulso da un contesto etico di base e dalla coltivazione di attitudini mentali positive e altruiste.
Ritengo sia molto utile invece una proposta di educazione ‘emotiva’ centrata sullo sviluppo di empatia, compassione, comprensione dell’altro, tolleranza, risposta non violenta alle provocazioni. E questo, di nuovo, farebbe incontrare l’insegnamento cristiano con quello buddhista, a specchio l’uno dell’altro, nella fondamentale indicazione dell’amore quale via della relazione umana.
Ho letto con grande interesse questo articolo trovandolo ben scritto e ricco di contenuti. Ho appena iniziato il mio viaggio nella filosofia orientale e sono “affamata” di ogni tipo di lettura che riguarda questo meraviglioso mondo. Andrò sicuramente a leggere altri articoli presenti su questo sito e ringrazio l’autore per averli messi a disposizione di tutti!
Consiglio di leggere un bellissimo libriccino di Jorge Borges, scrittore conterraneo di papà Francesco ,che si intitola ” Cosa e’ il buddismo”. Borges ha ben capito che il buddismo e’ un ateismo : Budda infatti non e’ credente ed illuminato da alcun Dio e ha solo trovato la suprema ) secondo lui) sapienza : che tutto e’ nulla, che la realta’ e’ illusione, e che per non soffrire e trovare la pace bisogna incamminarsi sulla strada della rinuncia all’ egoita’ ,alle passioni. Gesu’ ,aldi la’ che si creda o no il Lui come Figlio di Dio e Nostro Salvatore, e’ un ebreo e come tale aveva una altissima fede in un Dio Padre e creatore . Gesu’ pregava Padre Nostro che sei nei cieli, Bussa non credeva esistesse nessun Dio e nessun cielo. Paragonare Budda e Cristo e’ assurdo, infatti i buddisti non ci pensano neppure a Gesu’ .
Buddha ha critica la religione vedica dei suoi tempi in vari aspetti, ma ne accettava la realtà cosmogonica, e quindi l’esistenza di dei. I buddhisti atei sono un fenomeno limitato e in gran parte occidentale: i buddhisti hanno i loro riti, le loro reliquie, i loro monaci etc
Bisogna trarre le conseguenze dalle premesse altrimenti si diventa illogici.
Se il cristianesimo è un costrutto umano come il buddismo allora essere cristiani è inutile.
Ancora più stupido essere cattolici.
Sommamente insensato farsi prete.
Si parla di cristianesimo paolino infatti … per dire che probabilmente il cristianesimo che oggi viviamo e vediamo in decadenza trova in lui il costruttore. Si dice infatti che il cristianesimo paolino ha esaurito la sua spinta e che serve un nuovo modi di elaborare il messaggio cristiano. Detto questo ricordo il cristianesimo già nel nome presenta una elaborazione interessante. Infatti si chiama cristianesimo e non Gesuesimo come forse sarebbe stato più corretto, essendo Gesù il nome del fondatore. Si è deciso di inserire un nome più elaborato tra l’altro ma solo nel II sec. d.C. con Ignazio di Antiochia che lo usa per la prima volta.
Va bene.
Ci siamo capiti.
Qui è chiaro chi è cattolico e chi no.
Ognuno rimane delle proprie opinioni ma, per favore, chiamiamo le cose col loro nome.
Il parlar chiaro e per gli amici e, soprattutto, prescritto da Cristo.
Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.
Atti degli Apostoli 11,26
E comunque voglio ripetermi. I preti che vanno dicendo in giro che il cristianesimo è un costrutto umano hanno un atteggiamento contraddittorio. Fondano la propria vita su ciò che loro ritengono un’impostura. È incomprensibile.
Ma è anche un costrutto umano… Non siamo l’islam dove il Corano è stato dettato da Allah e quindi è intoccabile e di origine divina.
Noi collaboriamo al progetto di Dio con idee e opere non sempre ben fatte e non sempre ben pensate. È così difficile da capire?
Forse è lei che non sa spiegarmi la verità.
Su questa tematica IO HO MOLTO apprezzato il libro di Vito Mancuso “i 4 maestri” dove si può leggere un dotto confronto fra quelli che Mancuso ritiene i 4 più grandi maestri nella storia dell’umanità: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù. Interessante l’idea che ne emerge ovvero che nessuna di queste 4 grandi esperienze affronta tutti gli ambiti della vita in modo esauriente e della morte in modo esauriente ma che tutte aggiungono un elemento chiarificatore ad una sorta di grande mosaico che è l’esistenza umana. Emerge una sorta di complementarietà che rivedo anche in questa intervista molto interessante.