Juri Camisasca, scrittore di icone, musicista autore di musica spirituale e sacra – di cui l’ultimo album CristoGenesi (cf. qui su SettimanaNews) – sarà ospite mercoledì 28 febbraio della Pontificia Università Gregoriana, per una lezione pubblica interdisciplinare dal titolo Musica ed esperienza del sacro. Gli abbiamo posto alcune domande sulla sua vocazione eremitica, sull’arte, sulla sua amicizia con Franco Battiato e sulla prossima lezione in Gregoriana.
- Caro Juri, in alcune interviste televisive hai parlato della tua conversione: vuoi parlarcene?
La conversione – ovvero la percezione della chiamata di Dio – è una realtà straordinaria. Dai grandi racconti, comprendiamo come possa accadere in tanti modi e in circostanze assai diverse. A San Paolo è capitato «mentre si avvicinava a Damasco» (Atti 9), a San Francesco leggendo un versetto del vangelo di Matteo (Leggenda maggiore). Ma questi racconti non descrivono – perché non possono descrivere – ciò che appartiene alla sfera del divino. Neppure io so dire più di tanto di me stesso, se non che si è trattato di una esperienza inattesa, sorprendente.
L’idea di Dio era, allora, al di fuori dei miei pensieri. Non mi ero mai, peraltro, posto la domanda su una vita oltre questa vita, che ritenevo soltanto mia. Vivevo una esistenza piuttosto sconsiderata, nel senso di priva o povera di autentiche considerazioni sul senso del vivere. Ma ero insoddisfatto e, in fondo, ero alla ricerca di qualcosa: solo non sapevo, affatto, di cosa. Cercavo solo di darmi un contenuto nella realizzazione artistica, specie musicale, giacché, sin da bambino, ho nutrito la velleità di essere un artista.
Di punto in bianco o quasi, in maniera totalmente gratuita, senza che io facessi nulla, sono stato travolto da una “ondata di beatitudine”, di bene, di gioia: ma dico così perché non so quali altre parole usare. Penso che non ve ne siano. Averle vissute è altra cosa.
Ma, con sicurezza, posso dire che non si è trattato della sensazione di un momento, passeggera, per quanto intensa. È durata anni, senza che riuscissi a darmene una spiegazione. Dio non era, ancora, la spiegazione. Vero è che, quando passavo davanti ad una chiesa – vivevo a Milano vicino a Porta Ticinese – sentivo il bisogno fisico di entrarvi, come attratto da un magnete. Penso di aver visitato tutte le chiese della città in quel periodo. E, una volta dentro, ogni volta, si verificava in me un fenomeno di elevazione: ma anche questa è solo una parola, molto inadeguata.
Un giorno, è accaduto che mi trovassi in Duomo mentre si stava celebrando una Messa e che, senza alcuna premeditazione o preparazione, avvertissi l’esigenza di fare la Comunione. Durante quella Messa ho risposto con le formule, secondo i canoni della liturgia, senza che le avessi mai studiate o recitate prima.
Da quel momento, ciò che era stata la mia vita precedente ha cessato di interesse: non mi interessava più l’affermazione artistica, non mi interessava più il mondo di prima. Solo la dimensione spirituale aveva per me interesse. Ho smesso di frequentare certi ambienti. Stavo a lungo in casa, da solo.
Ricordo che, all’epoca, possedevo un armonium e lo suonavo a lungo, producendo, in me stesso, uno stato meditativo. Quel suono aveva per me qualcosa di celestiale, come se non fosse prodotto dalle mie mani, ma scendesse direttamente dall’alto: viaggiavo nelle note e le note viaggiavano dentro di me.
Poi mi misi alla ricerca di un monastero in cui entrare. Eravamo alla fine degli anni Settanta. Non avevo ancora trent’anni.
Ecco: per concludere su questa prima domanda, dico che è sempre Dio a chiamare e ad operare la conversione. A noi sta solamente rispondere. Si può dire no? Secondo la mia esperienza, è impossibile. Perché sarebbe come rinunciare ad entrare in un giardino luminoso e profumato da un vicolo buio e maleodorante. Chi ci rinuncerebbe? Mi sembra, quindi, di poter dire che ho semplicemente scelto di respirare il profumo di Dio, alla luce.
- Come sei entrato in un monastero benedettino?
Naturalmente, non conoscevo i monasteri d’Italia. La cosa ha del grottesco: mi misi a cercare sulle pagine gialle dove fossero i monasteri. Poi ho preso a girarli dal nord al sud.
Sono stato dapprima in monasteri francescani, ma mi è parso di respirare un clima sin troppo gioioso, un po’ troppo spensierato, mentre io avevo bisogno, per me stesso, di qualcosa di più “severo”. Rimasi affascinato quando, per la prima volta, entrai in un monastero benedettino. C’era tanto silenzio e venni colpito dal fatto che, durante i pasti, i monaci non parlassero ma ascoltassero le letture dalla Scrittura. Mi ha preso il verso estetico di quel tipo di spiritualità e di vita monastica claustrale.
Sono stato un anno e mezzo nel monastero di Fonte Avellana, non ancora monaco, prima di fermarmi in pianta stabile – dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta – nel monastero di San Silvestro di Fabriano, sempre nelle Marche.
Ho fatto la scelta benedettina anche se, in quello stesso periodo, leggevo molti testi spirituali carmelitani. Ne ero sedotto. Avvertivo una grande sintonia con le parole di santa Teresa d’Avila e con san Giovanni della Croce, con Teresa di Lisieux ed Elisabetta della Trinità. Forse la spiritualità carmelitana era – e resta – la mia più propria.
Certamente stare in monasteri benedettini per dieci anni mi ha dato tantissimo, vivendo la Regola di San Benedetto, nello studio dei Padri del deserto: Evagrio Pontico e Antonio il Grande fra tutti.
Dal monastero sono uscito nel 1991. Ma essere monaco non vuol dire soltanto portare l’abito: è un’attitudine di vita interiore. In questo senso lo sono rimasto.
- Ora – e ormai da anni – sei eremita: cosa significa per te?
Amo il silenzio e la solitudine. Vivo alle pendici dell’Etna, immerso in un ambiente naturale stupendo. Ma, come vedi, non rigetto la comunicazione attraverso gli strumenti tecnologici che la consentono anche a distanza, sinché ciò non va ad inficiare la mia attitudine fondamentale che – sento di poter dire – è stare alla presenza del Dio trinitario. Essere eremita, in fondo, per me, significa solo questo.
Penso si possa e si debba essere eremiti sia in cima a una montagna così come in un ufficio in città, se si è in grado di creare lo spazio interiore che consente di stare permanentemente a contatto col sacro o col santo di Dio. Il controllo del pensiero, il controllo delle emozioni, la purezza del cuore, sono le caratteristiche dell’eremita, così che tutti possiamo essere eremiti, in questo senso. Certamente, le condizioni di vita facilitano o meno. Io ho scelto quelle che facilitano.
- Cosa vuol dire vivere in solitudine?
C’è solitudine e solitudine, come sappiamo. C’è una solitudine triste, di cui si soffre, perché mancante della compagnia. E c’è una solitudine che non è affatto triste perché è abitata dalla pienezza. In questa, non ci si sente soli, perché si è, in realtà, in presenza, sempre, di Qualcuno.
Chi vive profondamente dentro una tale esperienza, parla appunto di inesprimibile bellezza, di sensazione gioiosa, di musica e di danza della vita. Dal tempo della mia conversione penso di non essere mai uscito da questo tipo di percezione della Presenza.
- Quale è stata la tua formazione teologica e culturale? Quali le tue letture?
Ho studiato teologia per quattro anni nel monastero benedettino di Praglia (Padova). La mia formazione è stata, quindi, quella teologica classica, sui grandi autori del pensiero cristiano, sino, naturalmente, ai contemporanei.
I miei interessi culturali erano e restano piuttosto variegati. Come ti ho detto, sin da bambino, ho avuto interessi artistici, soprattutto nell’ambito della pittura, della scultura e della musica. Ho frequentato e prodotto molta musica pop, anche assieme a Franco Battiato che ho conosciuto sin dai miei vent’anni.
Adesso ascolto solo musica classica e musica che ritengo di natura spirituale. Ascolto e studio molto i suoni con effetto meditativo che mi giungono dall’Oriente.
La letteratura è stata un altro mio interesse. Ho letto i grandi autori russi (Puškin e Dostoevskij su tutti), francesi (Balzac, Guy de Maupassant, Flaubert, Voltaire…), con uno speciale trasporto, ad esempio, per i libri dello svizzero tedesco Hermann Hesse o di Thomas Mann.
Ora leggo, quasi esclusivamente, autori spirituali: molti orientali – quali Sri Aurobindo, Shankara, Krishnamurti, Osho – dopo aver letto i testi classici dell’Oriente (Upanishad e Bhaghavad Gita).
Tra i grandi teologi cattolici avverto una grande affinità elettiva con Teilhard de Chardin. Ma anche con gli autori monaci Henry Le Saux e Thomas Merton.
Dai tempi del monastero non ho mai cessato di leggere e di interrogare i Padri del deserto e i mistici carmelitani, santa Teresa e san Giovanni della Croce su tutti.
- I tuoi riferimenti sono tanti e, apparentemente, lontani tra loro. Come stanno insieme?
Qualcuno mi ha dato del “sincretista”. Non mi piace questa definizione. Io sono semplicemente uno che cerca di allargare il proprio orizzonte, per quanto più possibile. Sono cristiano, cattolico. Ma per me è di fondamentale importanza ampliare e integrare il pensiero cristiano. Sono convinto che l’Oriente non contamini il pensiero cristiano, anzi mi aiuti ad essere più cristiano: cattolico nel senso di universale. Ritengo che le tecniche meditative orientali abbiano molta profondità da conferire al vivere cristiano, senza rinunciare affatto a Cristo.
- Quanta attenzione dedichi alla vita politica?
Pari a “zero”, nel senso che, a parte alcune eccezioni, vedo la gran parte di coloro che vi si dedicano – intendo i politici di professione – persone totalmente al di fuori di sé, ossia poverissime di vita interiore, spirituale, cioè di quanto, per me, è più rilevante nell’umano.
- Sei uno scrittore di Icone. Cosa vuol dire?
Ho appreso la scrittura delle Icone nel periodo della vita monastica. Si dice scrivere le Icone, anziché dipingerle, perché le Icone sono immagini rivelatrici della Parola di Dio. Le Icone sono il Vangelo tradotto in immagini. Anticamente aiutavano quelle persone che non erano in grado di leggere la Sacra Scrittura, il Nuovo Testamento in particolare (anche se non mancano nelle Icone elementi dell’Antico Testamento).
Tra la mia attività di scrittore di Icone – quindi la pittura – e l’attività musicale c’è, per me, un profondo rapporto: in fondo, in entrambe le arti, si tratta di realizzare lo svuotamento di me stesso, nel verso della Kenosis cristica.
Padre Pavel Florenskij, a proposito della Icone, parlava di un’arte della salita e della discesa: la salita avviene quando si dà una propria interpretazione, la discesa quando ci si svuota e si lascia che sia lo Spirito ad interpretare. L’analogia tra la scrittura delle Icone e la composizione musicale sta proprio in tale ascesa e discesa (o discesa e ascesa): quando, cioè, accade qualcosa – la cosiddetta ispirazione – che lascia spazio all’Altro, che viene da sé.
Nel caso dei grandi – penso a J.S. Bach – risulta piuttosto evidente cosa è accaduto: in certa sua musica si percepisce chiaramente qualcosa di “non fatto da mani d’uomo”. Lo stesso si prova davanti a certe Icone.
- Cos’è la musica per te?
La musica è fondamentalmente la comunicazione di emozioni. Se non c’è comunicazione di emozioni non c’è vera musica.
Distinguo, ormai chiaramente, una musica di carattere urbano da una musica di carattere elevante, nel senso che dicevo prima, a proposito della discesa/ascesa. A me interessa, ora, solo questa. La musica che mi eleva è il canto gregoriano, ad esempio, in Occidente, oppure i canti indiani, in Oriente.
Il potere della musica è veramente straordinario. Tra le altre arti è la più speciale. Dico così: la musica entra direttamente nel cuore o nell’anima, senza passare attraverso il cervello.
- Il musicista, chi è? E tu che genere di musicista sei?
Il musicista comunica quello che ha dentro di sé, le sue frustrazioni o le sue emozioni.
In passato, prima della mia conversione – da musicista rock – esprimevo in musica il mio disagio esistenziale. Poi, la musica è divenuta la possibilità di comunicare il mio stato interiore pacificato – o beatificato – in una maniera che non avrei egualmente potuto esprimere con le parole. E che ancora non posso.
Con la mia musica, quindi, cerco di comunicare o trasmettere le emozioni che provo nella mia vita spirituale, quelle che mi sono donate. Vorrei che fossero l’espressione di una preghiera permanente.
Questo vorrebbe esser vero anche quando interpreto le canzoni di altri. Ultimamente. nei miei concerti, ho interpretato canzoni di Fabrizio de André: non era un musicista “religioso”, eppure la sua musica – con la sua voce – comunica quel che penso della musica spirituale. Io lo canto alla mia maniera, naturalmente, con la mia voce, e sento che ciò trasmette – oltre ai contenuti che possono essere di per sé drammatici – una vibrazione di quiete, una sensazione lieta della vita.
- Sei stato amico di Franco Battiato e musicista con lui. Quale intesa musicale hai realizzato?
Sia nella musica di Franco che nella mia, come hai notato, c’è molto “Oriente”. Ma, naturalmente, andrebbero fatti molti distinguo. Accenno solo.
Franco, ad un certo punto, è stato preso dalle teorie di Georges I. Gurdjieff. Il suo album La voce del padrone ne è intriso. Quindi ha fatto un suo percorso: si è avvicinato al buddhismo e, verso la fine, si è avvicinato anche al cristianesimo, anche nella sua musica.
Io ho sempre avuto interesse e simpatia per le religioni orientali, tanto da considerare, come ho detto, mie guide spirituali, insieme a santa Teresa d’Avila, Sri Aurobindo che, da mistico indiano, ha espresso un pensiero accostabile a quello di Teilhard de Chardin, per quanto riguarda la visione di un mondo in evoluzione, verso la vita piena.
- Tu e Franco Battiato avete scritto e composto insieme la sua ultima canzone, “Torneremo ancora”: come?
La canzone doveva essere per un altro cantante. Franco mi ha chiesto di partecipare al lavoro di stesura. A quel tempo il tema dei migranti era all’ordine del giorno. Il titolo doveva essere I migranti di Ganden. Pensavamo ai monaci del Tibet che, volontariamente e in maniera totalmente non violenta, hanno lasciato i loro monasteri e la loro terra a seguito della invasione della Cina. Non abbiamo voluto però scrivere una canzone politica: abbiamo inteso la migrazione come migrazione di anime.
Su un foglio di carta scrivevamo le idee che, a mano a mano, ci venivano in testa. Poi, Franco, alla tastiera ha creato i primi accordi con cui costruire le melodie da accompagnare alle parole e alle strofe. Io mi sono occupato, in particolare, dell’inciso musicale (o ritornello), quello che dice: lo sai/ che il sogno è realtà/e un mondo inviolato/ ci aspetta da sempre/i migranti di Ganden/in corpi di luce/su pianeti invisibili.
Come senti, si tratta della tematica del viaggio dell’anima più che della migrazione fisica. Certamente, quello espresso, è un concetto orientale, ma ha molte corrispondenze nel pensiero mistico cristiano: pensiamo al tema del viaggio dell’anima, verso la pienezza divina (ascoltabile qui).
- Quale significato ha avuto questa ultima canzone di Franco?
Il Torneremo ancora del titolo non significa un ritorno, negli stessi termini, in questa vita. Non era questo il pensiero di Franco. Franco non ha certo voluto dire: ritornerò qui a cantare, come qualcuno ha interpretato in maniera del tutto fuorviante. Ritornare, secondo la concezione orientale del Samsara, è rimanere legati ad una catena, mentre il raggiungimento spirituale è la liberazione da tale catena.
Quando Franco ha cantato poi questa canzone – così come la cantata in maniera emozionata e emozionante (ascoltabile qui) – era ben consapevole del suo stato di salute e della prossimità alla morte. Ha voluto così, secondo me, lasciare una testimonianza di sé e del suo pensiero: un messaggio positivo, oltre la fine.
- Quale tuo brano, nel solco di questa stessa spiritualità, vuoi presentare?
A suo tempo, avevo scritto, per la cantante Alice, un brano che si intitola Il sole nella pioggia, che, in seguito, ho, io stesso, interpretato e inserito nell’album Spirituality (ascoltabile qui). Anche questo può essere equivocato: vedere il sole nella pioggia non significa, banalmente, che, “dopo la pioggia, arriva il sereno”; non è questo. Significa piuttosto superare la presunzione dualistica che vorrebbe spezzare la nostra vita in due, tra il bene e il male, tra la gioia e il dolore. Ciò è illusorio. Non è vero. Il dolore fa parte della vita. E la vita spirituale porta alla accettazione di tale verità quando forte diventa la percezione dell’Uno. Il tutto che ha senso lo si trova nell’Uno, non nella separazione o nel rigetto di ciò che non ci piace.
Un altro mio brano è la Suprema identità (ascoltabile qui) che accosta Jeshua (Gesù) e Milarepa (mistico orientale). Recita: la vita è un viaggio senza meta/la meta è qui con te. Noi camminiamo, siamo convinti di camminare verso un dove o verso un quando. Ma non ci accorgiamo che il nostro compimento è già in atto. «Noi siamo sin d’ora figli di Dio», come scrive la prima Lettera di Giovanni. Dobbiamo soltanto accorgercene. Ecco perché ho cantato che la vita è un viaggio senza meta e la meta è qui, con noi, in noi, se lo vogliamo.
Avevo persino scritto Se incontri il Budhha (ascoltabile qui) «uccidilo», evitando il verbo «uccidere» nel titolo per non essere frainteso. Gli orientali dicono che il Buddha – il Risvegliato, l’Illuminato – è dentro di noi. Se lo vediamo fuori di noi è una illusione, una proiezione illusoria che porta ad un colossale fraintendimento.
- Con queste canzoni non pensi di allontanarti “troppo” dalla teologia e dalla tradizione cristiana?
La mia fede fondamentale era e resta ancorata al Dio trinitario e personale. Dalla tradizione spirituale orientale ho assorbito, come dicevo, ciò che fa bene al mio essere cristiano.
C’è pure un aspetto che mi differenzia dall’Oriente, riguardo al trascendente: io credo nella risurrezione personale, mentre l’Oriente, con declinazioni diverse secondo le diverse scuole, “crede” nella fusione delle vite nel Tutto divino.
Il cristianesimo tiene a preservare il rapporto personale con Dio. Perciò, anche nella «gloria» dei nostri «corpi trasfigurati», come dice San Paolo, conserveremo la nostra individualità deificata. E questo è ciò in cui io credo.
- Il tuo ultimo album è titolato Cristogenesi: perché?
Cristogenesi è una raccolta di canzoni di natura Cristocentrica. Si apre col brano Il tutto nel frammento che è un noto titolo del grande teologo svizzero H.U. von Balthasar: il Tutto sta nel Frammento, Cristo appunto. Vi canto: E sempre mi commuove/il Tutto nel Frammento (ascoltabile qui). Nello stesso album c’è Emmanuel, il Dio con noi che è sempre Cristo (ascoltabile qui). Quando dico Dio intendo la Trinità e, quindi, sempre includo il Cristo.
Dio è una realtà inconoscibile, inesprimibile, tanto che la stessa Bibbia ricorre al linguaggio poetico-evocativo per poterne dire qualcosa. «Io Sono Colui che Sono» è in Esodo 3,14. Il linguaggio dei mistici è lo stesso. Santa Caterina da Siena ha scritto del «Mare della divinità», nel quale lei si è immersa nell’abisso senza fondo. Elisabetta della Trinità ha parlato del «fuoco di amore che distrugge e trasforma in sé stesso tutto ciò che tocca»; in termini non dissimili ne ha parlato San Giovanni della Croce.
Quando uso la parola Cristo, mi riferisco anche al Corpo Mistico di Cristo, al Suo aspetto visibile che è la Chiesa. Vivere alla Presenza di Cristo, per me significa vivere nella consapevolezza di appartenere al Corpo Mistico di Cristo, cioè la Chiesa.
A volte uso il termine coscienza per dire la stessa cosa, ossia per esprimere la consapevolezza di «essere di Cristo», come dice San Paolo; se non che il termine coscienza è, oggi, molto psicologizzato, per cui preferisco dire coscienza cristica. Tutto è in e di Cristo: è ciò che ho voluto dire, a mio modo, con le canzoni incluse in Cristogenesi.
- Il 28 febbraio terrai una lezione in Gregoriana su «Musica ed esperienza del sacro». Cos’è il sacro?
L’esperienza de sacro è, in fondo, quella esperienza che cerco di comunicare sin dall’inizio di questa intervista. L’esperienza del sacro o del Sacro – con la maiuscola – è l’esperienza di Dio. Perché Dio è il Sacro.
Il Sacro è il Totalmente Altro, è l’Ineffabile, è l’Inaccessibile. Il Sacro è Ciò che perfora le muraglie dell’io, dell’ego. È la forza beatificante e affascinante che dà luogo alla religiosità autentica. È qualcosa che prende sin nell’intimo, dal di dentro; ci invade.
Il noto studioso delle religioni Rudolf Otto ha parlato del Sacro anche in termini di Mysterium tremendum et fascinans per esprimere l’aspetto di timore e tremore che l’essere umano può provare sentendosi invaso da tale incommensurabile grandezza.
Io, tuttavia, avverto il Sacro in un altro modo, che è quello della Misericordia divina, della compassione per me e per tutte le creature: questo vuol dire per me percepire la dolcezza, la consolazione, il perdono. Sono queste le emozioni del Sacro che cerco di comunicare con la mia musica.
- In Cristogenesi ci sono diversi canti in stile gregoriano. Perché canti ancora il gregoriano e come?
Ho conosciuto il gregoriano in monastero: là l’ho imparato e col gregoriano ho familiarizzato, cantandolo, ogni giorno, più volte al giorno.
Purtroppo, ci sono sempre meno monasteri che restano a cantarlo nella liturgia. Anche nei monasteri è arrivata musica “moderna” che non so sino a che punto possa ritenersi adatta alla liturgia. Mentre il gregoriano è il canto liturgico – con senso del sacro – per eccellenza.
Per me, il gregoriano è il canto-preghiera che insegna a pregare, che mi ha fatto capire cosa sia la preghiera. Anche se, come succede, ci si avvicina alla preghiera in maniera distratta, il canto gregoriano ha una forza sua propria di attrazione e di coinvolgimento nella preghiera, con la sua instancabile melodia. Ascoltato al di fuori della liturgia, durante la giornata, produce comunque un effetto di quiete e di pace.
Tu hai giustamente notato quanto il gregoriano sia presente nella mia musica: è vero, ma io, chiaramente, non faccio gregoriano in senso proprio, semmai lo rivesto della mia musica che è musica del nostro tempo. Su alcuni canti della tradizione ho ideato sonorità moderne, pur cercando di rispettare la peculiarità del gregoriano, specie nel rapporto parole/musica (ascoltabili qui: O filii et filiae; Stella caeli).
In questo modo il gregoriano dovrebbe risultare più fruibile per le orecchie contemporanee, così frastornate proprio riguardo alla relazione problematica tra parole e musica. Ciò che dovrebbe risultare è il senso della preghiera cristiana.
- Musica liturgica, sacra, spirituale: quali differenze?
La musica per la liturgia è solamente quella che accompagna la Parola di Dio o le parole del canone o della tradizione cristiana: è una musica al servizio della Parola.
Mentre la musica spirituale o sacra in senso lato – come ho detto riguardo al Sacro – va oltre la liturgia e oltre le parole. Se prendiamo capolavori come la Messa in si minore di J.S. Bach o la Messa da requiem di W.A. Mozart, possiamo parlare di musica che appartiene a tutte le possibili categorie. Ma c’è tanta altra musica che, pur priva di riferimenti liturgici e scritturistici – pura musica – è molto spirituale, molto adatta ad evocare il senso del sacro, anche in autori di cui non si direbbe: penso, ad esempio, a C. Debussy.
- Sapresti indicare una via per la musica liturgica nelle nostre chiese?
Non è propriamente il mio ambito. Osservo il lavoro che, in tal senso, stanno facendo nel monastero di Camaldoli: le trovo cose buone, moderne, coerenti con la tradizione. Anche i canti di Taizé sono interessanti esempi di musica adatta per la preghiera: evidentemente, là, ci sono monaci che conoscono la musica e che conoscono la preghiera.
Non ho, quindi, una via “mia” da indicare, ma, come dagli esempi che ho citato, non sono per la mera conservazione: sono per l’innovazione, per l’introduzione di sonorità moderne anche nella liturgia. La cosa più importante è che si mantenga vivo il senso del raccoglimento interiore e della preghiera.
Spiace ascoltare, nella Messa, gruppi che fanno musica molto lontana da queste caratteristiche quasi fosse uno spettacolo contemporaneo, “orizzontale”. Allora mi viene da invocare, a gran voce, il ritorno del gregoriano.
- Tieni spesso concerti nelle chiese e nei teatri. Di che tipo di concerti si tratta?
Vorrei che risultassero eventi rigeneranti o de-congestionanti da tutte le tossine psichiche – egoiche – che oggi massicciamente circolano per l’umanità.
Vi partecipano, in genere, persone preparate, che sanno cosa stanno cercando, perché già in un percorso di tipo spirituale. Naturalmente vi capitano anche altre persone, per curiosità: queste possono scoprire qualcosa di nuovo, fare una nuova esperienza. Sono momenti piacevoli, penso, per tutti.
Come ti ho detto, con la mia musica, cerco di comunicare emozioni, condividendo il contenuto delle mie esperienze emotive. Ed è, perciò, molto gratificante per me, fermarmi a parlare, dopo ogni concerto, con le persone che vi hanno partecipato, chiaramente con chi ne sente l’esigenza; anche con poche persone. Dico che questa è la mia missione, ora.
- Mi piace molto la tua canzone “Vite silenziose” dedicata a Etty Hillesum. Come la presenti?
Quella canzone (ascoltabile qui) è stata un moto spontaneo del cuore, se così si può dire. Avevo letto il diario di Etty. Mi aveva affascinato – alla pari di altre figure femminili quali Edith Stein, a cui ho dedicato la canzone Il carmelo di Echt (ascoltabile qui), o Simone Weil – per la sua profondità spirituale, testimoniata nelle circostanze tragiche che sappiamo.
È stata una cosa profondamente mia, che ho sentito di poter e di dover fare. Naturalmente, mi fa piacere se questa canzone contribuisce alla conoscenza di una figura spirituale così straordinaria.