Anni addietro il filosofo Biagio de Giovanni, in occasione di un incontro organizzato a Mezzano Inferiore (Parma) dalla locale comunità metodista, iniziò a parlare della libertà richiamandosi a ciò che scriveva Agostino di Ippona sul tempo: tutti sappiamo cosa sia, ne abbiamo un’idea, ma ci riesce difficile definirla.
Ecco, ciò vale pure per la democrazia. Già alle elementari ci hanno insegnato che essa corrisponde al «governo del popolo». Subito dopo – magari in occasione dell’elezione del capoclasse – ci hanno detto che a decidere, in tale forma di governo, è la maggioranza.
Pesi e contrappesi
Proseguendo gli studi, ci siamo accorti che la tripartizione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario, come mirabilmente illustrato da Montesquieu – rappresenta sì la base dello Stato di diritto e dell’ordinamento liberale, ma, nello stesso tempo, è un ingrediente essenziale proprio della democrazia. E i docenti ci hanno fatto notare come, al tempo d’oggi, occorresse estendere il discorso al quarto potere – la stampa – e al quinto, la TV, fino a ipotizzare un sesto potere, quello degli uffici stampa delle aziende o delle organizzazioni più o meno spontanee volte a tutelare i consumatori, ad esempio, e più in generale i cittadini. E la mappa di tali ultimi tre «poteri» andrebbe radicalmente rivisitata, al tempo dei social e dei new media.
Un pochino più in là con gli studi – magari verso la conclusione del liceo – e ci siamo imbattuti in Alexis de Tocqueville, e il discorso sulla distinzione dei poteri è divenuto più dinamico e più articolato: affinché vi sia democrazia, occorre un sistema di pesi e contrappesi. E la democrazia non consiste nell’essere liberi solo ogni cinque anni, al momento di votare. Affermazioni che, kantianamente, danno da pensare.
Affermazioni, poi, che ben si conciliano con il celebre aforisma di Winston Churchill: «La democrazia è la più imperfetta delle forme di governo tranne tutte le altre». La sua essenza non consiste nella perfezione, infatti; piuttosto nella perfettibilità. Ciò, poi, ci consente di replicare a quanti sottolineano i lati oscuri delle democrazie occidentali: forze dell’ordine corrotte, servizi segreti «deviati», connivenza o collusione dei poteri pubblici con istanze e trame eversive o loro complicità con veri e propri crimini e reati, e così via.
La possibilità di replicare è data proprio da quei «pesi e contrappesi»: libertà per un cineasta o per un giornalista d’inchiesta, poniamo, di denunciare quelle connivenze, libertà per le case editrici di pubblicare dei J’accuse, libertà per le forze di opposizione di mobilitarsi a sostegno del rispetto delle regole e contro le loro violazioni.
Democrature
Certo, non sempre ciò accade, non sempre basta, anzi. E vi sono forme di corruzione assai subdole e insidiose: come scriveva il fisico Carlo Bernardini sul celeberrimo inserto de l’Unità del dicembre 1983, dedicato a 1984, l’utopia negativa di George Orwell, capita che, al cospetto della forza bruta, dei «Ciclopi» dell’Est, come li definiva con un rimando omerico, si diano, nella nostra parte del mondo, le «sirene», che ingannano con il canto e la bellezza. E tuttavia la denuncia resta possibile.
Ecco, termini ed espressioni quali «democrature» (un ossimoro in un unico vocabolo, frutto della fusione di «democrazia» e «dittatura») o «democrazie illiberali», coniate per definire le forme di governo di diversi Paesi latino-americani o «orientali» – dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdogan –, non indicano affatto dei regimi più morbidi rispetto alle dittature propriamente dette e men che mai una sorta di terza via tra democrazia e dittatura. Indicano piuttosto la forma che tendono ad assumere le dittature (o molte di esse. Discorso distinto meriterebbe il gigante cinese) al giorno d’oggi, in società e con economie comunque più articolate e complesse che in passato, nel villaggio-mondo.
Se, ad esempio, nel Novecento erano frequenti i golpe e le dittature militari, oggi le stesse dittature si presentano con volti diversi. Parliamo in ogni caso di dittature tout court. Potremmo, qui giunti, chiederci quale sia, nel XXI secolo, il rapporto tra regimi dittatoriali e totalitarismo propriamente detto, ma sarebbe una questione ardua e difficile da dipanare.
Ciò che mi preme evidenziare, piuttosto, è che la morte di Alexej Navalny, intransigente oppositore di Putin, mostra inequivocabilmente, anche a chi avesse nutrito dei dubbi in merito, il carattere dittatoriale del governo di Mosca. Come dire: il presidente è nudo! O meglio: i suoi sono gli abiti di un dittatore.