Mercoledì 21 febbraio il card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, ha accolto l’invito della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano a condividere la sua testimonianza circa il travaglio che sta vivendo il Medio Oriente, con particolare riferimento alle comunità cristiane in Israele e Palestina.
In questo momento storico, precisa il Patriarca sollecitato dalle domande proposte dal preside della Facoltà don Massimo Epis, l’instabilità in questi territori ha connotazioni non sono politiche, ma anche religiose.
Le comunità religiose vivono ciascuna una condizione di vittima, dove l’altro è visto come causa del proprio male, e da questa posizione alimentano l’odio dentro un clima di profonda polarizzazione e divisione. Altre comunità religiose, questo vale soprattutto per quelle cristiane e i loro leader, per la paura di essere interpretate in modo scorretto rischiano di ricoprire un ruolo da spettatrici.
È difficile infatti restare in comunione con tutti e quando si cerca di scendere in profondità nelle questioni ci si assume dei rischi. Aggiunge Pizzaballa: «A volte mi chiedo se quando parliamo temiamo più Dio o quanto gli altri pensano di noi; un leader religioso è leader quando sa rispondere a questa domanda».
Processi di riconciliazione: da ferite a cicatrici
La strada per il disinnesco dell’odio è l’amore, possibile attraverso processi di riconciliazione che chiedono una rilettura degli eventi per evitare che le ferite continuino a recare dolore: «Le ferite lasciano sempre un segno; se non sono cicatrici, rimangono aperte».
Questo processo sarà possibile a partire non tanto dall’urgenza di arrivare a un esito di questa situazione, ma dal desiderio di vedere l’altro come fratello e come sorella. Dentro questo desiderio, non è possibile semplicemente rimanere spettatori per paura di sbagliare, serve entrare in campo, giocare la propria parte con uno stile simile a quello dei profeti, che da un lato parlano a nome di Dio ma dall’altro restano parte del popolo.
Condizione necessaria per essere profetici non è solo uno sguardo che guardi in avanti, ma aprire orizzonti che siano comprensibili e che possano comunicare qualcosa. In questo senso, alcune esperienze di convivenza interreligiosa possono essere profetiche, a patto però che siano comprese e che sappiano toccare il cuore delle persone, aprendo spazi di speranza: «In questo momento ce n’è bisogno, visto che la popolazione è talmente ferita e schiacciata dal dolore, da non avere più spazio per il dolore altrui».
Dialoghi tra comunità
Il Patriarca rilancia l’importanza del dialogo, non tanto tra le religioni ma tra i credenti, dove il confronto sia soprattutto tra le esperienze di fede: in questo i leader religiosi hanno oggi una grande responsabilità. In questo momento drammatico il dialogo deve avvenire non tanto a livello accademico, quanto tra leader che abbiano il contatto con il territorio, affinché diventino dialoghi tra comunità a partire da esperienze comuni di vita: «In questi mesi dove il dialogo tra musulmani, cristiani e ebrei è ai minimi storici, ci sono stati incontri privati, dove ci si è detto che non si può andare avanti così». Il dialogo oggi deve essere ripensato, perché acquisisca un nuovo lessico e sia orientato a sciogliere incomprensioni sulla lettura degli eventi.
Il ruolo dei cristiani
In questo contesto, i cristiani possono rivestire un ruolo di mediazione: se sanno parlare ad entrambe le parti, senza arrivare a schierarsi, possono divenire l’ago della bilancia. Grazie alla loro netta minoranza godono infatti di una condizione di maggiore libertà, perché non legati ad alcuna forma di potere e nelle condizioni quindi di poter organizzare occasioni di confronto e di incontro culturale, a patto di uno slancio di coraggio.
Dovremmo essere presenti dove la cultura cresce, dove c’è la gente: «C’è bisogno di tradurre il discorso teologico in parole di pace e di non violenza», come cristiani l’invito è di entrare in questi dibatti, con il coraggio di entrare in profondità.
Un bisogno di vicinanza
Oggi le comunità cristiane in Terra santa hanno bisogno di vicinanza e di empatia. Ma non solo loro, tutte le comunità religiose: «C’è bisogno di dirlo, specie in questo momento di grande solitudine».
Ci sono alcune pagine bibliche che in questo tempo sono di aiuto al card. Pizzaballa per vivere il dolore odierno. In un dramma dove ciascuno punta a vincere per raggiungere una risoluzione del conflitto, aiuta meditare il versetto di Giovanni: «Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33), che Gesù ha detto ai suoi discepoli prima della croce.
Infine, la descrizione in Apocalisse della Gerusalemme celeste esprime la vocazione profonda di questa città, dove le quattro mura servono a definire, non a dividere, e dove tutto è illuminato dall’Agnello, da cui esce un fiume di acqua che risana e guarisce.