Il potere è una faccenda violenta, pronta di continuo a ritorcersi su sé stessa. Roma lo sapeva bene, molto bene. Consumatasi la stagione della conquista del Mediterraneo – due secoli di sanguinose guerre di occupazione, fra battaglie navali e battaglie campali e maneggi di politici corrotti –, il I secolo a.C. si apriva nel segno delle guerre civili: di volta in volta, gli uomini più potenti dell’Urbe, spronati dall’ambizione personale e dalla brama di potere, arruolarono eserciti, ordirono congiure, sguinzagliarono scagnozzi facinorosi in giro per la città, mentre il tessuto sociale e morale della res sempre meno publica si andava sfilacciando sempre di più.
Guerre civili
Dopo Mario e Silla, è la volta di Cesare e Pompeo. Siamo al 48 a.C. quando Cesare sconfigge il rivale a Farsalo. Poi, l’intervento risolutivo sulle frange rimanenti dei pompeiani e dei loro alleati, disseminati qua e là nel Mediterraneo – il tutto suggellato dal fulmineo veni vidi vici.
Nel luglio del 46 a.C. Cesare rientra a Roma; sembra che, finalmente, si possa parlare di pace: l’imperator, facendosi scudo della propria clemenza, accoglie e risparmia tutti i pompeiani pentiti e dà inizio alla stagione dei trionfi – quattro, uno per ciascuna delle sue vittoriose campagne militari in Gallia, Ponto, Egitto, Africa.
In toga purpurea, Cesare sale al Campidoglio sul carro trionfale; l’apparato scenografico è imponente: tra le grida esaltate dei legionari, sfilano i bottini di guerra e i prigionieri in catene.
È la grandezza di Roma, signori: questa è la guerra, questo è il potere.
Di lì ad un paio d’anni, Cesare viene assassinato. Per Roma è il caos. I congiurati, che coltivavano idealità repubblicane ed erano intenzionati a recidere sul nascere il germe dell’autocrazia, peccando d’eccesso di ingenuità avevano creduto che, alla morte del dittatore, il senato e il popolo romano li avrebbero subito acclamati come liberatori. Invece.
Invece Cesare è morto e Roma è nel caos. Chi l’ha ucciso non ha predisposto un piano per il dopo e non sa cosa fare. Il senato è incerto tra la condanna senza appello dei cesaricidi o il consacrarli come garanti della libertà repubblicana.
Marco Antonio, il più fido fra i generali di Cesare, confida d’avere in pugno la situazione, pensando d’essere lui il successore designato, ma, all’apertura del testamento, si trova un’amara sorpresa: l’erede è il giovane nipote Ottaviano.
E così, proprio quando la res publica sognava d’essersi scrollata di dosso l’incubo delle guerre civili e delle congiure interne al senato, quando l’assordante rimbombo dell’Usque tandem, Catilina, di Cicerone stava diventando un’eco lontana, la morte di Cesare riavvolgeva il gomitolo da capo. Ancora disordini, ancora violenze, ancora lotte fratricide, a replicare ogni volta la colpa primigenia, il peccato originale di Roma – il truce assassinio di Remo da parte di Romolo, suo fratello.
Marco Antonio e Ottaviano si guardano con diffidenza e circospezione. Cosa fare? Prima di aprire a carte scoperte la partita, schierando i propri eserciti l’uno contro l’altro – e saranno ancora Romani contro Romani ad alzare le spade –, forse vale la pena tentare la carta dell’alleanza. È più facile allearsi, se c’è un nemico comune. E il nemico comune c’è, sono gli assassini di Cesare.
Così Ottaviano e Antonio cessano di guardarsi in cagnesco per unire le loro forze contro Bruto e Cassio. Ottobre del 43 a.C., battaglia di Filippi: un mese di combattimenti, centomila soldati schierati dall’una e dall’altra parte – duecentomila uomini in tutto. L’esercito repubblicano viene quasi completamente annientato, venti, trentamila uomini perdono la vita nell’esercito dei due vincitori, temporaneamente alleati, Ottaviano e Marco Antonio. Tempo pochi mesi, e il conflitto tra i due si riaccenderà: dovranno trascorrere più di dieci anni prima che, sconfitto Antonio definitivamente, Ottaviano possa farsi princeps di Roma.
Ma, per ora, a Filippi, un accordo sembra trovato. E, dopo la vittoria a Filippi, ci sono da sistemare i veterani dell’esercito. Ottaviano procede, così, all’espropriazione di terreni nel mantovano e nel cremonese, per distribuirli ai suoi militari come ricompensa del servizio prestato. Cominciano qui le Bucoliche di Virgilio.
Tìtyre tù patulaè recubàns
Era nato a Mantova nel 70 a.C. La famiglia benestante gli aveva garantito scuole di qualità, prima a Cremona poi a Roma e Napoli, confidando di farne un principe del foro. Ma, all’oratoria, Virgilio aveva preferito la filosofia e la poesia.
Attraverso la poesia, il giovane Virgilio canta le sue riflessioni sulla vita e canta la sua giovinezza, segnata dagli anni difficili delle guerre civili: quando muore Cesare, Virgilio ha venticinque anni, ne ha quasi trenta quando Ottaviano inizia la campagna di espropri che colpisce anche la sua famiglia.
Per il giovane poeta mantovano, le Bucoliche sono l’opera prima. Indimenticabile, per innumerevoli schiere di studenti che abbiano masticato anche solo un poco di latino, l’attacco della prima ecloga, con la sua sonorità perfetta: Tìtyre tù patulaè recubàns sub tègmine fàgi.
L’ecloga prima è una sorta di dialogo teatrale a due voci fra i pastori Titiro e Melibeo.
Titiro è immortalato nel primo verso mentre, sdraiato tranquillo all’ombra di un grande faggio, suona con il flauto melodie agresti. C’è stata la guerra, undique totis (…) turbatur agris, c’è disordine ovunque, ma Titiro ha avuto in sorte di poter restare nelle sue terre, nei suoi campi, nella sua patria.
Melibeo, invece, è costretto a partire: nos patriae fines et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus. Partire. Fuggire. Lasciare ogne cosa diletta più caramente. Il dolore del distacco si riverbera ovunque, su ogni elemento della natura, su ogni pennellata di paesaggio.
Melibeo, oppresso dal dolore, spinge davanti a sé le greggi e trascina a fatica la capretta che, silice in nuda, sulla nuda pietra, ha dovuto lasciare i due piccoli appena partoriti – figura di tutte le madri straziate nella loro stessa carne dalla violenza impietosa della guerra.
Lo sconforto della perdita e dell’abbandono si fanno domanda senza risposta: en umquam patrios longo post tempore finis/ pauperis et tuguri congestum caespite culmen/ post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas? Potrò mai rivedere, dopo un lungo tempo, dopo stagioni infinite, i confini della mia patria e il tetto, fatto di zolle, della mia povera casa – mio unico regno?
Il dolore del distacco si salda con il pensiero dolorante che prefigura l’impossibilità del ritorno. I luoghi amati che si stanno per abbandonare sono già i luoghi del rimpianto dell’esule, uno spazio-tempo impregnato di sofferta, lacerante, inguaribile nostalgia.
Il sogno della pace
La natura, in Virgilio, è il luogo di una sacralità animata da presenze divine, il luogo del canto: è un canto il ronzio delle api, è un canto il tubare delle colombe e il murmure delle acque. L’uomo partecipa con il suo canto al canto della natura: cantano i vignaioli, cantano i pastori. Questa è la pace. Pace è la serenità del lavoro, la gioia di relazioni buone con gli altri; pace è essere felice del proprio e non ambire all’altrui; pace è poter godere del buono della vita – anche solo un sussurro di api nel tepore del pomeriggio.
Ma la pace, nel mondo segnato dalla violenza e dalla guerra, sembra un sogno solo per pochi.
En quo discordia civis/ produxit miseros. A questo ci hanno portato le discordie e le guerre civili: impius haec tam culta novalia miles habebit, un empio soldato diverrà padrone di queste messi, di questi campi così ben coltivati.
Leggo e rileggo Virgilio. Intanto cerco di districare, senza riuscirci, le folli ragioni dei violenti e dei potenti che fanno la storia di oggi, mentre davanti agli occhi mi scorrono, moltiplicandosi, le immagini degli sfollati che fuggono da guerre insensate – bambini in braccio, bambini per mano, piedi lacerati, sacchi riempiti di niente.
Questa è la guerra, signori, questo è il potere. Avrà sempre l’ultima parola?
Ultimo fra gli ultimi, Melibeo prende congedo dalla sua terra; Titiro lo invita a fermarsi presso di lui, per quell’ultima notte: un pezzo di formaggio, della frutta dolce e matura – basta poco perché la sofferenza del distacco sia temperata e rinfrancata da un gesto di calore umano.
Et iam summa procul villarum culmina fumant/ maioresque cadunt altis de montibus umbrae. Scende ormai la sera, sull’umanità lacerata e sofferente, sul creato tutto partecipe di questa condizione di dolore, sugli animali, le piante, le sorgenti, le fonti, le pietre. Un filo di fumo sale dai comignoli, mentre le ombre si distendono sempre più lunghe giù dalle montagne.
Ancora e sempre il risuonare dei versi di Virgilio inonda il cuore e la pelle d’ oca fa fremere soprattutto chi questo mondo l’ha conosciuto , amato ed ha impostato tutta la sua vita sui ritmi di una natura che dispensa con abbondanza ma sollecita a vivere nella sobrietà.
Chi quindi vive libero e indifferente alle logiche del potere guarda con stupore e sgomento alla sofferenza procurata e non da lui causata.
I toni struggenti di Virgilio non lasciano speranza.
Grazie Anita