Germania, primi anni ’40. Ernst Lossa è un tredicenne di etnia nomade jenisch dall’indole ribelle, orfano di madre e con un padre venditore ambulante senza fissa dimora. Nei riformatori nei quali ha vissuto è stato giudicato “ineducabile”, per questa ragione viene confinato in una clinica psichiatrica. Il direttore dell’ospedale, il dottor Veithausen, è un medico dall’apparenza gentile, ma in realtà è un convinto sostenitore delle teorie eugenetiche sostenute dal regime nazista. Così, con un coraggio indomabile, Ernst si troverà a proteggere i piccoli ospiti dell’istituto e a contrastare la dirigenza stessa della clinica…
Uno sguardo lucido, straziante ma non privo di speranza, su un’infanzia abbandonata, offuscata nel corpo o nella mente, o anche solo “colpevole” di apatia e asocialità. Come riportato sui titoli di coda di Nebbia in agosto, furono oltre 200 mila le persone (tra cui 5 mila bambini e ragazzi) uccise tra il 1939 e il 1945, in Germania, nei luoghi di cura dove erano state recluse perché ritenute inutili e dannosi per la società: non solo disabili o disagiati psichici, ma anche ladruncoli, disadattati, epilettici, storpi, sordomuti e zingari…
Purificare la razza ariana e preservarla da ogni malattia ereditaria: la follia nazista scorre sottopelle nei fotogrammi del film di Kai Wessel, basato sul romanzo omonimo di Robert Domes, a sua volta ispirato alla storia vera dell’irriducibile Ernst Lossa. Nebbia in agosto adotta il punto di vista del giovane, indomito protagonista, osservando con i suoi occhi tutta la segreta crudezza del progetto di eliminazione dei “piccoli reietti” tedeschi. Come altre recenti pellicole in cui l’orrore dello sterminio nazista si stampava sui volti di incolpevoli testimoni (Il bambino con il pigiama a righe, Storia di una ladra di libri), anche Nebbia in agosto risponde al dovere morale di non dimenticare. E come in quelli e altri riusciti modelli di riferimento filmico a cui aderisce, la gravità del racconto è gestita con mano ferma, in termini di regia, e buona fluidità, sul versante narrativo. Qualità arricchite da incisive prestazioni interpretative, a cominciare dall’ottimo Ivo Pietzcker nei panni di Ernst Lossa.
Il messaggio di Nebbia in agosto arriva forte e chiaro. Una pagina di storia poco conosciuta, e a tinte fosche, capace però di contenere significative sfumature chiaroscurali: la pietà cristiana di una delle infermiere del centro, che sottrae a morte certa una vittima designata, la banalità del male, addolcita da una quotidianità fatta di comprensione, pazienza e carezze. Nel “lager a misura di bambino”, dove si muore per la “dieta della fame” (le minestre ribollite a tal punto da perdere ogni sostanza nutritiva, dunque inutili a sostenere l’organismo) o per avvelenamento da spremute di agrumi condite da gocce di liquidi letali, Ernst non troverà l’America, come sognava. Ma in un film che ribalta prepotentemente i concetti di sanità e follia, invertendo il saldo ancoraggio alla realtà con la sua allucinata distorsione, il coraggio del piccolo “zingaro bianco” rivivrà nell’animo candido della biondina Nandl. E negli occhi commossi degli spettatori.
- Regia: Kai Wessel
- Nazionalità: Germania, 2016
- Durata: 126′
- Interpreti: Ivo Pietzcker, Sebastian Koch, Thomas Schubert, Fritz Haberlandt
Bisognava dare spazio alla razza pura, per cui si pensa allo sterminio di sei milioni di ebrei, ma con lo stesso abominevole fine di purificare la cosiddetta “razza ariana”, l’ “Action T4″ fu il programma di “eutanasia” utilizzato dai nazisti, con la scusa di “vite che non valevano la pena di essere vissute”, per liberarsi di tutti coloro che non erano ritenuti utili al Terzo Reich: portatori di handicap, malati mentali e malati più o meno incurabili, ma anche categorie che nulla avevano di insano, come gli zingari.
Zingaro infatti è il piccolo Ernst Lossa, un ragazzino “difficile” che finisce nella clinica gestita dall’ineffabile dottor Veithausen, una persona tutto sommato gentile Veithausen, ma proprio per questo perfetto rappresentante della “banalità del male” sostenuta da Hanna Arendt, così come la rappresenta quella sorta di angelo della morte che è fraulein Kneissler, la zelante infermiera addetta alla somministrazione del veleno. Per loro somministrare un farmaco curativo o dare la morte ad una persona sostanzialmente sana non fa alcuna differenza se questo è il compito assegnato e c’è qualcuno che decide per loro. Anzi, lo zelo che ci mettono, ce lo mettono con la stessa non chalance che avrebbero nello svolgere una qualsiasi banale occupazione. Lo zelo e la non chalance con cui il dottor Veithausen (Sebastian Koch, uno dei migliori attori tedeschi degli ultimi anni) scopre come far morir di fame i suoi pazienti pur somministrando loro tre pasti al giorno: un’idea che sarà molto apprezzata dalle autorità.
Dal romanzo omonimo di Robert Domes il regista Kai Wessel gira un film bello, intenso e privo di retorica. Ci racconta una storia vera, portando il piccolo Ernst Lossa, interpretato dal bravissimo Ivo Pietzcker, a testimone di un altro dramma con cui il popolo tedesco fatica a fare i conti.
Le quasi 200.000 persone assassinate nelle cliniche psichiatriche tedesche tra il 1939 e il 1944, come conseguenza del programma di eutanasia, è infatti un capitolo della storia tedesca cancellato a lungo dalla cultura commemorativa.
E come disabile ringrazio il Dio di avermi fanno nascere negli anni 60 e in ITALIA