In una recente intervista mons. Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio Apostolico Vaticano, ha espresso, a titolo personale, delle profonde riserve sulla attuale versione della preghiera del Padre nostro, mostrandosi particolarmente scettico sulla discussa riformulazione della sesta petizione: «Non abbandonarci alla tentazione» che, dal 2017, ha sostituito nel Messale Romano la precedente «Non indurci in tentazione», cambiamento da lui definito «un’assurdità»[1].
Prima di cambiare
Le ragioni di un tanto aspro disappunto di mons. Pagano sono chiaramente esplicitate:
«Mi è dispiaciuto il modo in cui è stato cambiato il Padre nostro, e anche i termini del cambiamento deliberato. Anzitutto il modo. Era fino a ieri saggia norma nella Chiesa, e speriamo che torni a esserlo in futuro, che, quando si trattava di ostacoli o difficoltà che si possono incontrare riguardo al testo della Sacra Scrittura, sia greco-latino, sia anche nelle lingue volgari, e che possono causare sconcerto nei fedeli, che prima di cambiare bisognasse sempre spiegare».
Egli ammette che anche in passato di questo passaggio della preghiera gesuana siano state date opinioni e interpretazioni divergenti. Menziona a tal riguardo le posizioni del card. Bellarmino, che rispecchiavano una difficoltà a riconoscere l’idea di un Dio che induce alla tentazione. Ma in quel contesto storico, il sacerdote della Compagnia di Gesù, non ancora cardinale, tentò di uniformare i vari modi di insegnamento della Dottrina cristiana, in uso, per rendere «più facile questo santo essercitio d’instruire le persone idiote, et i fanciulli, nelle cose sante della nostra santa Fede».
Lo fece con due scritti catechetici (Dottrina Christiana breve, perché si possa imparare a mente, 1597 e Dichiarazione più copiosa della Dottrina Christiana, 1598), pensati in forma di dialogo tra un discepolo ed un maestro, distanti dallo stile delle disputationes, alle quali solitamente si associa il nome del Bellarmino.
Rispondeva, così, alle richieste che venivano dalla Congregazione della Riforma, fatte proprie anche da papa Clemente VIII, a cui furono dedicati gli opuscoli, di dare un metodo catechistico adatto per le persone semplici.
Tradurre i testi sacri
Teologicamente, però, Pagano pare avallare questa lettura, nella misura in cui legge la tentazione secondo il vecchio adagio per il quale Dio attraverso le tentazioni – permesse, anche se non provocate direttamente – ci metterebbe alla prova: «L’oro è saggiato dalla fiamma, per vedere se è puro o no; gli uomini, per vedere se sono probi, se sono buoni, devono essere saggiati dalla tentazione». Come si concili questa visione con l’altra altrettanto ricorrente, per la quale i cristiani dovrebbero fuggire la tentazione, le «occasioni prossime al peccato», resta un irrisolto rovello.
Con il motivo teologico appare dunque intessuta la questione della traduzione. Pagano ritiene inammissibile operare un così radicale cambiamento nei confronti del testo latino (sic!): «Per la Sacra Scrittura la Chiesa ha avuto sempre una venerazione, la definisce Parola di Dio. E se è di Dio, come possiamo noi cambiarla? Studiarla, comprenderla, ma non cambiarla. Chi ha operato questo sventurato cambiamento, almeno tale a mio modo di vedere e con il dovuto rispetto, ha studiato le fonti? Si è reso conto della incoerenza scritturale del cambiamento rispetto al passo dei Vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca? Credo si sia perso il senso genuino del testo latino».
Affermazioni che sembrano riecheggiare antiche assolutizzazioni della Vulgata. C’è nelle parole di mons. Pagano una netta presa di posizione che va ben oltre la sola questione del come tradurre il Padre nostro. Egli, infatti, mette in discussione il modo (attualizzante) con cui la CEI – e il Papa che ne ha avallato l’operato – intervengono sui testi sacri e li introducono nella vita (liturgica) dei cristiani. Prende così le distanze da un intero modus operandi che è quello relativo alla possibilità di tradurre (e, dopo un intervallo di tempo, ri-tradurre) i testi sacri.
Non a caso l’articolo si chiude invitando, seppur non esplicitamente, a leggere il testo in latino. È una questione, come si può capire, più complessa di quello che potrebbe a prima vista sembrare, e non è nostra intenzione in questa sede interrogarci sulla legittimità della traduzione del testo biblico. Ci preme piuttosto muovere alcuni piccoli appunti alle affermazioni del mons. Pagano che ci paiono se non inesatte, quanto meno incomplete.
Una tensione non riducibile
Come spiegava lucidamente Lorenzo Gasparro già nel 2019[2], la cosiddetta «nuova traduzione» del Padre nostro tanto nuova non è. Essa, infatti, compare per la prima volta nel 2008 nella nuova traduzione del Nuovo Testamento della CEI. La «nuova» formula è dunque già presente nelle Bibbie con testo CEI stampate dopo il 2008.
Entra quindi a partire da tale data nel Lezionario, ma non ancora nel Messale Romano. Quest’ultimo sarà infatti rinnovato solo nel 2020, accogliendo (e non si sarebbe potuto fare altrimenti) nel momento liturgico quanto già era stato approvato a livello testuale. Detto in altri termini, la nuova traduzione del Padre Nostro non è espressione del magistero di Francesco. Il fatto che papa Francesco concordi e apprezzi tale traduzione rivela solo che egli si sia trovato e si trovi sulla stessa linea della CEI.
Ora, che la traduzione del passo possa suscitare delle perplessità è del tutto legittimo. Ogni traduzione implica una interpretazione che inevitabilmente porta in sé il rischio di tradire le intenzioni dell’autore. Nel nostro caso, la domanda, sul piano squisitamente linguistico-traduttivo è se il verbo italiano «indurre», nelle accezioni che esso oggi ha, corrisponda al greco eisférō.
Giuseppe Betori, Segretario generale della CEI allorquando fu varata la nuova traduzione del NT (2008), a riguardo dichiarava:
«La scelta è stata quella di intervenire solo dove fosse assolutamente necessario per la correttezza della traduzione […]. Nel caso del Padre Nostro si è affermata l’idea che fosse ormai urgente correggere il “non indurre” inteso comunemente in italiano come “non costringere”. L’inducere latino (o l’eisphérein greco) infatti non indica “costringere”, ma “guidare verso”, “guidare in”, “introdurre dentro” e non ha quella connotazione di obbligatorietà e di costrizione che invece ha assunto nel parlare italiano il verbo “indurre”, proiettandola all’interno dell’attuale formulazione del Padre Nostro e dando a Dio una responsabilità – nel “costringerci” alla tentazione – che non è teologicamente fondata. Ecco allora che si è scelta la traduzione “non abbandonarci alla” che ha una doppia valenza: “non lasciare che noi entriamo dentro la tentazione” ma anche “non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazione”»[3].
È una spiegazione che probabilmente non potrà convincere tutti, ma che allo stesso tempo porta alla luce un problema tipico del tradurre, come cioè si sia costretti a bilanciare la fedeltà al testo con l’orizzonte ermeneutico e culturale dei lettori di quel testo. È una tensione talora irriducibile, ma al contempo è l’unica via per permettere al testo di vivere nelle diverse lingue.
Perché il passato «nutra» il presente
Ovviamente in una realtà che non ricorre a traduzioni si assiste alla maggiore perduranza di un documento: per molti secoli l’occidente cristiano, affidandosi in ambito ecclesiale al solo latino, ha cristallizzato le proprie formule, a cominciare dalle preghiere. Questo determinava che l’attualizzazione di un testo potesse avvenire solo attraverso l’interpretazione che di esso se ne forniva.
Nondimeno, laddove un testo doveva apparire problematico o di difficile comprensione si interveniva su di esso, apportandone modifiche. È quanto avviene proprio per la sesta petizione del Padre Nostro, della quale circolavano varianti testuali che intendevano evidentemente correggere l’idea di un Dio tentatore.
Ne conserviamo un illustre esempio in Agostino che sembra preferire la variante Et ne nos inferas in tentationem, in uso con ogni probabilità nella Chiesa di Ippona, sebbene conoscesse anche la lezione Et ne nos inducas in temptationem. Egli spiega che il verbo induco sia da intendere nel senso esplicitato dalla variante Ne nos patiaris induci in tentationem, la quale – secondo la sua stessa testimonianza – veniva impiegata da molti (multi in precando dicunt) nella preghiera[4].
L’attuale lettura del Padre Nostro, lungi dunque dall’essere un’offesa o una violenza all’originale greco, riflette l’inestinguibile bisogno degli uomini di entrare in contatto con le parole del passato perché queste continuino a nutrire il nostro presente.
O vogliamo lasciare intendere che Gesù ha «recitato» il Padre nostro in greco e che questo sia stato trascritto verbatim?
Forse prima di avanzare perplessità e di renderle pubbliche occorre pensare e studiare di più.
Il Consiglio dell’Istituto di storia del cristianesimo “Cataldo Naro”,
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi (Napoli)
[1] «Che errore cambiare le parole del Padre Nostro», in Corriere della sera 22 febbraio 2024
[2] L. Gasparro, «Tentazione o prova? Considerazioni alla luce di una riformulazione del Padre Nostro», in Rassegna di Teologia 60 (2019) 5-21, qui 5-6.
[3] M. Fontana, «Monsignor Betori spiega la nuova traduzione delle Sacre Scritture», in L’Osservatore Romano, 25 maggio 2008.
[4] Cf. Aug., s. dom. m. II, 9,30 (NBA X/2, 216).
Anche la traduzione attuale dei Vangeli è piena di frasi o termini che non danno con esattezza il significato dell’ originale greco o del sottostante aramaico. Ma, invece di perdersi in inutili e capziose polemiche, chi vuole approfondire la conoscenza delle Scritture deve solo leggere qualcuno dei numerosissimi testi esegetici in commercio o frequentare una delle tante Facoltà Teologiche che sono in Italia. Studiare costa tempo e fatica ma è l’unica strada per comprendere meglio le Scritture, anche per “dare ragione della nostra speranza”. Essere poi
coerenti nella vita è tutta un’ altra cosa. Buon cammino!
1) il problema interpretativo riguarda meno il verbo (indurre – introdurre ecc..) e molto più il sostantivo. È la parola “tentazione” che in italiano ha valenza semantica diversa rispetto a peirasmós / temptatio.
2) una tensione irrisolta è quella tra la tendenza letteralistica del Messale italiano 2020 (più rigore nel restituire il testo ufficiale latino) e la decisione di discostarsene proprio nel Padre nostro, per adeguarsi alla traduzione CEI 2008. Forse a questo alludeva Pagano nel riferimento al testo latino. Riferimenti dotti alla ipotetica ricostruzione dell’aramaico sembrano qui fuori contesto.
Che l’attuale versione sia criticabile non meno della precedente, o almeno che sia espressione di una scelta teologica più che linguistica, mi sembra innegabile. Dispiace però vedere un dibattito accanito tra sordi.
Denigrare Mons. Pagano vuol dire denigrare chi lo ha assegnato a quel posto, ovvero il Papa. Inoltre è emblematico che si possa denigrare 15 secolo di teologia ed esegesi ma anche solo esprimere perplessità per le riforme attuali sia sempre e solo trattato come un peccato grave di lesa maestà. La chiesa attuale assomiglia sempre più ad una dittatura dove, in nome della sinodalità e della misericordia, se osi parlare fuori dal coro devi essere eliminato e messo alla gogna. Ad ogni modo, anche questa quaresima 2024 (perlomeno nel rito tridentino) è cominciata col vangelo delle tentazioni che si apre dicendo ” in quel tempo Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere TENTATO”… non abbandonato! Così come pure Abramo sul monte non fu abbandonato… ma tentato! E gli ebrei vagarono 40 anni nel deserto non per essere abbandonati (mai!) ma tentati (molte volte!). In breve: solo chi non ha mai letto la Scrittura si scandalizza e inciampa in quel “non indurre”. Mentre chi la ama e la merita con cuore umile non sono non si turba… ma ci si attacca come parole preziose!!
Già che si era in fase di riforme delle traduzioni, perché non correggerne altre? Ad esempio, perché continuare a dire, nell’ Ave Maria: ” Frutto del tuo ‘ seno’ Gesù”? In latino il termine ‘sinus’ ha una varietà di significati, ma in italiano la parola ‘seno’ ha un’ accezione ben precisa e che non corrisponde anche a ‘utero’. Credo che sarebbe più appropriato e bello usare il termine ‘ grembo’. E discutibile è anche l’uso del verbo ‘toglie’ nell’ Agnello di Dio’ che, più esatto anche teologicamente dovrebbe essere ‘ prende su di sé’ o ‘si fa carico’ , ‘si addossa’, ‘assume’ i peccati del mondo.
Nel testo usato nel lezionario il saluto dell’Angelo Gabriele a Maria non è ‘Ave’, ma ‘rallegrati’; ovviamente per ovvi motivi non si allineerá mai il testo della preghiera a quello liturgico (il rischio di rivolta è altissimo) ma avrebbe senso farlo come lo si è fatto con il Padre Nostro
La nuova traduzione è stata per molti versi un grande passo avanti, ma per tante altre cose è stata una grande occasione sprecata. Ci hanno messo quasi 20 anni a finire la traduzione, venti anni in cui la discussione sul come farla ha coinvolto pochissime persone, e non il Popolo di Dio in Italia (alla faccia della sinodalità!). L’entrata in vigore del nuovo Messale poteva essere la grande occasione per una catechesi generalizzata sulla Liturgia, fonte e culmine della vita della Chiesa, ma visto che si è avuto l’idea di effettuare il passaggio durante la pandemia (quando non ci si poteva riunire e la partecipazione alla vita ecclesiale era ai minimi) questo non si è fatto. E mi chiedo perché i traduttori abbiano insistito per ritradurre Padre Nostro e Gloria, ma non anche altri testi che si discostano dal testo del Lezionario: Sanctus e Signore non son degno per esempio. Non parliamo poi della Parole dell’Istituzione Eucaristica, chiarissimo esempio di traduzione poco fedele, che si poteva chiaramente migliorare anche lasciando lì il ‘tutti’
Io ho risolto così: ovunque (e con chiunque) recito la formula “classica”. Se mai trovassi qualcuno che avesse qualcosa da eccepire sarebbe soltanto un suo problema.
Anche la formula ‘classica’ è comunque un’interpretazione del testo, vedi il dibattito storico che c’è stato sul quotidiano/sovrasostanziale sul male/maligno. Alla fine tutte le traduzioni sono un po’ un tradimento e un compromesso tra fedeltà e comprensibilità, lo era la vecchia e lo è la nuova.
È un suo problema.
PS: io non dico “liberaci dal male” ma dico “liberaci dal Male”.
Non capisco perché dovrebbe essere solo un mio problema, in quanto le traduzioni sono un problema collettivo e un compromesso tra filosofie diverse. La vecchia traduzione era un chiaro esempio di traduzione-calco dal testo latino, e questa filosofia aveva i suoi problemi. La decisione di modificarla era ormai necessaria, l’alternativa è un po’ discutibile.
Perego: forse un monsignore in cerca di visibilità/attenzione/considerazione??? Trovo strano che un prefetto dell’Archivio Apostolico, che dovrebbe studiare e conservare un sapere straordinario, entri a gamba tesa in una questione dove i gusti personali forse non c’entrano molto. In più ogni traduzione possibile sarà sempre imperfetta… è un dato di fatto!!
E quindi tutti quelli che hanno detto il Padre nostro in italiano fino al 2020 hanno sbagliato ed erano ignoranti.
Ignoranti i traduttori, ignoranti i teologi, ignoranti i vescovi e ignoranti i papi.
Meno male che siamo arrivati noi che capiamo tutto e siamo sveglissimi.
Infatti oggi le cose vanno molto meglio, le chiese sono strapiene e non c’è posto nei seminari e nei monasteri.
Ottimo.
Viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Adelmo Li Cauzi: Questi rimpianti del passato sono segno che il messaggio del Concilio (Chiesa=popolo di Dio in cammino) non è stato recepito. E pensare che le chiese, i seminari, i monasteri, se non fossero cambiate le cose, oggi sarebbero pieni è solo la grande illusione dei nostalgici…
Si. È vero, non possiamo sapere come sarebbero andate le cose. Questo è molto giusto. Rimango però persuaso che un maggior rispetto per il passato sia necessario, anzi essenziale. Come si fa a sostenere l’apostolicità della chiesa e, contemporaneamente, che finora nessuno aveva capito nulla?
Va bene l’articolo, ma l’ultima frase è davvero un’inutile cattiveria; che peraltro si potrebbe applicare anche a chi ha firmato l’articolo stesso. Forse Pagano ha torto, ma perché non avrebbe dovuto esprimere le sue perplessità? D’altra parte, per mezzo secolo e oltre abbiamo recitato il Padre nostro nella versione che lui preferisce…
Perché quando non si hanno le competenze sarebbe corretto tacere. Basta con la logica social che tutto merita di essere detto. Basta con la logica dell’uno vale uno. Non è vero. Valgono le competenze e in questo caso abbiamo una facta universitaria che si esprime. Basta con tutto vale e tutto si può dire. San Paolo diceva che tutto si più fare ma non tutto serve. Ecco certe cose non servono oppure sono nocive in assenza di competenza. Gesù parlava aramaico non latino.
Fino alla prossima scoperta di nuovi studiosi che ci diranno la migliore traduzione… ma io non volevo pronunciarmi sul merito, solo sottolineare che accusare il prefetto vaticano di non aver studiato abbastanza è un’offesa gratuita, un atto estremamente inelegante. Si può sostenere la propria posizione senza denigrare
Non è una denigrazione quando viene da una facoltà teologica che fa questo di mestiere. Sarebbe come dire che se ho una perdita d’acqua ascolto l’elettricità per quanto bravo piuttosto che l’idraulico. Ascolto prima l’idraulico e poi magari l’elettricista. Priorità delle fonti.
Concordo sul fatto che la inutile “cattiveria” si evince ed è facile nascondersi dietro a un vago Consiglio d’istituto di storia, neanche se fosse il Pontificio Istituto Biblico. Il problema esiste e non è inutile. Mi convince molto di più l’articolo su Civiltà Cattolica quaderno 4023 scritto dal prof . Pietro Bovati Biblista e segretario della Pontificia Commissione Biblica. Forse è più competente rispetto ad un consiglio esperto di storia, secondo me, naturalmente.
Mi sembra un buon consiglio.