Nel caso mediatico che ha coinvolto la filosofa, ma anche affermata opinionista, Donatella Di Cesare, in relazione alla morte della ex brigatista e scrittrice Barbara Balzerani, a mio avviso bisogna distinguere con cura più questioni che vi si sono oggi forzatamente intrecciate, come sempre più spesso accade: avremmo tutto da guadagnare nel pensare distintamente.
La confusione, sovente costruita ad arte dai media e dai politici, impedisce non solo di comprendere di che cosa realmente si sta parlando, ma anche di poter, a propria volta, esprimere un’opinione sensata sui fatti attuali oppure, come in questo caso, su di una storia, o meglio sulla memoria di una storia, del nostro Paese: una memoria, quindi, pubblica, nel senso più alto del termine, che non ci si può permettere di ridurre a preferenza individuale espressa in forma di “like” e “cuoricini”, né, tanto meno, affidarla al giudizio, preteso insindacabile, dei governanti di turno.
Il funzionamento dei social media
Da un lato, c’è infatti una questione di censura nel tempo dei social media e un sempre più pervasivo controllo delle opinioni dei cittadini da parte del governo. È mai possibile che ministri si sentano in diritto di intervenire in forma sanzionatoria sui post – leggi opinioni! – dei cittadini o dei docenti del nostro Paese?
Al limite, sarebbe più naturale il contrario, perché, almeno in teoria, il governo democratico di una repubblica dovrebbe essere soggetto al controllo vigile dei suoi cittadini. Ma non mi pare che nessun politico di governo sia mai stato severamente sanzionato per un suo tweet esplicitamente xenofobo, ad esempio: se ne potrebbero citare a decine, se non a centinaia. Eppure, la nostra Costituzione condanna e proibisce ogni forma di discriminazione.
Da un’altra parte, c’è il funzionamento perverso dei social media che, specie nel caso di personaggi pubblici, dovrebbe invitare all’esercizio di una maggiore auto-riflessività, sino a “mordersi le dita”, per così dire, e a contare fino 100, prima di esprimersi. I social, infatti, sono costruiti in maniera tale da incitare ognuno a dire la propria su qualsiasi cosa nell’immediatezza, guidati più dal narcisismo che dall’intelletto, ciò che porta spesso a scrivere cose iperboliche, enfatizzate al massimo, poco o per nulla rispondenti alla realtà di sé e dell’oggetto o soggetto in questione.
In tal modo, le piattaforme digitali diventano 9 volte su 10 delle arene per polarizzazioni che hanno poco a che vedere con la realtà, dando vita a polemiche che non hanno altro senso se non quello di alimentare la piattaforma su cui avviene lo scontro. Che la politica stessa sia divenuta, allo stesso tempo, istigatrice e ostaggio di questo genere di comunicazione falsata, non è più un segreto per nessuno: tutto inizia e finisce con un tweet. In mezzo c’è la vita vera della gente.
Ma – parlando di confusione – basta poco perché in questi ambienti digitali questioni delicate che toccano sensibilità personali o cruciali per il Paese, in senso politico o sociale, vengano trasformate in feroci dispute ideologiche prive di oggetto, in assurde ricostruzioni complottistiche, quali mezzi di annichilimento del nemico politico, economico o esistenziale, oppure in pretesti per emettere giudizi sulla storia collettiva o sulla vita e la morte delle persone. Specie in quest’ultimo caso – quanto meno per i cristiani – il «non giudicare» evangelico perderebbe la sua forza imperativa, solo perché il giudizio si fa attraverso i social?
I movimenti degli anni ’70
Per tornare all’ormai noto post pubblicato – e poi ritirato – da Donatella Di Cesare: non vi si inneggiava certo alla lotta armata, bensì esprimeva, mi pare in modo ingenuo o maldestro, piuttosto irriflesso per l’appunto, una vicinanza generazionale verso una persona che, morendo, ha risvegliato, nel ricordo di molti, una stagione politico-esistenziale, quella degli anni Settanta, che resta ancora ad oggi di difficile interpretazione, difficoltà in buona parte determinata anche dalla confusione di cui prima.
La irriflessività indotta dai social fa brutti scherzi. Nel caso in oggetto, ad esempio, la cosa meno credibile scritta nell’immediatezza di un tweet dalla filosofa in merito alla Balzerani, è che la rivoluzione sognata da una era la stessa di quella dell’altra. Ora, chiunque conosca i lavori di Donatella Di Cesare e, insieme, l’ideologia brigatista, si rende subito conto della loro, direi, palese inconciliabilità. Un comprensibile moto di pietà si è trasformato così in un’enfatizzazione senza oggetto.
Una verità sulle lotte diffuse di quegli anni – occultata dal modo corrente di fare informazione – è che, infatti, non si trattò di un movimento compatto, quasi fosse un’organizzazione guidata, ferreamente, da un’unica e sola ideologia, bensì di un movimento di movimenti, una “rivoluzione molecolare”, come scrissero all’epoca Deleuze e Guattari: c’era il movimento operaio, quello femminista, quello degli studenti, quello dei manicomi, quello della Chiesa, pure: spesso in conflitto anche tra di loro.
E c’era la lotta armata che, però, non era affatto un movimento sociale, ma fu, come il loro resto, impazzito. Per quanto la violenza sia stata presente nei movimenti, perché consustanziale all’epoca, in nessuno di essi si è mai neanche teorizzato l’omicidio politico come strumento rivoluzionario.
Non solo di interpretazione storiografica si tratta, allora: c’è di mezzo, infatti, la pratica di una riflessione morale ed etica, coinvolgente il livello collettivo e personale, sollecitata da quella memoria, poiché quegli anni sono stati intensamente abitati da enormi conflitti che hanno portato a grandi conquiste sociali. Ciò mi pare indubitabile. Ma sono anche stati anni costellati da un numero impressionante di omicidi e di stragi che hanno segnato profondamente i corpi e l’inconscio del nostro Paese.
I film di Marco Bellocchio – penso in particolare al recente Esterno notte – sono molto istruttivi in tal senso; è come se, in quello scorcio di secolo, una parte del Paese sia precipitata in un morboso stato delirante che ha finito per toccare l’intera popolazione, portata a vivere uno psicodramma del quale non vi è mai stata una reale e profonda elaborazione.
Ogni volta che riemerge un fatto o una persona di quella vicenda, dunque, c’è il ritorno devastante del rimosso, in modalità drammatiche o ridicole, ma in ogni caso sempre tragiche.
Rivisitare il passato
In Italia, infatti, a differenza di altri paesi, pensiamo, ad esempio, all’Irlanda del Nord o al Sudafrica che hanno vissuto delle vicende in parte simili, non si è mai veramente avviato nessun processo né di riconciliazione né di razionalizzazione né di ricerca di una forma di giustizia riparativa. Vi sono state iniziative individuali o da parte di alcuni soggetti. La Chiesa stessa ne ha portate avanti qualcuna, ma nessun processo istituzionale ha coinvolto positivamente tutte le istanze e i soggetti del Paese.
Tutto ciò ha portato alla situazione attuale, così che, dopo più di 40 anni, non è possibile pronunciare una parola pubblica su quei fatti, se non a rischio di trovarsi invischiati in polemiche paradossali, quasi sempre pretestuose, poiché guidate da interessi del tutto estranei a un’analisi sincera di quella storia, ma soprattutto avvelenate da un paradigma giuridico della vendetta che impedisce attivamente la cura e la sutura di quella ferita. Non si può veramente vivere bene in queste condizioni.
Ho il dubbio, se non la certezza, che ormai siamo fuori tempo massimo per quel tipo di processo istituzionale, ma non si è mai in ritardo per la pietà e il perdono. Che «i morti seppelliscano i loro morti», dunque, ma che i vivi vivano e lo possano fare nella verità.
Purtoppo la bagarre scatenatasi a partire dal post della prof.ssa Di Cesare rivela quanto quegli anni non siano stati minimamente rielaborati. Anzi, sono divenuti il pretesto per la deriva neofascista, che stiamo vivendo. Il tutto giocato sulla sottile, quanto perversa identificazione, tra ideali e metodi per il perseguomento degli stessi. La lotta armata, certamente non condivisibile, appartiene alla sfera dei metodi e lo era anche per i brigatisti. Identificare gli ideali di giustizia ed uguaglianza con i metodi (errati) per conseguirli può essere solo la diabolica manipolazione di chi quegli ideali sostanzialmente non li condivide. Detto ciò, mi sembra che lo squallore ideale in cui viviamo attesti inequivocabilmente il successo, per ora, di chi teorizza che le ingiustizie e le disuguaglianze siano un fatto naturale, o peggio volontà divina.
Le BR volevano instaurare un sistema a partito unico di tipo leninista.
Può piacere ma non c’entra nulla con giustizia e uguaglianza.
le BR hanno ucciso un sacco di civili che consideravano collaborazionisti con lo ‘stato imperialista delle multinazionali’, come per esempio Guido Rossa. I loro metodi erano e sono inaccettabili, come lo sono quelli degli altri terroristi di destra e di sinistra.
I miei pensieri verso di loro sono ben riassunti dalla canzone ‘In the name of God’ dei Sabaton, che è ‘dedicata’ ai terroristi religiosi ma esprime concetti validi anche per altre tipologie
Giustizia e uguaglianza? Ma ci crede davvero a quello che scrive? Che i brigatisti, cioè, volevano giustizia e uguaglianza? L’ideologia marxista-leninista l’abbiamo conosciuta laddove ha cercato di realizzarsi. E ne abbiamo visto il volto sia nei metodi che negli “ideali”!
Se le idee sono quella di una terrorista di sinistra allora si puo’ commemorare con un pizzico di nostalgia e di benevolenza ( ma si dai ,hanno ammazzato un po’ di persone ma erano degli idealisti)se invece fosse stata una terrorista di destra allora…..La verita’ come sempre in Italia e’ solo e sempre di parte mai obbiettiva . Di obbiettivo rimangono solo i parenti delle vittime ,i poveri fessi , che la filosofia guarda dall’ alto.
Buongiorno,
Ho letto, spero, con attenzione l’articolo e vorrei, se posso, dare un piccolo contributo.
La concitazione e la risposta immediata fanno sovente emergere la verità.
Credo che questo sia capitato alla Prof.ssa Donatella Di Cesare.
L’identificazione con gli scopi delle BR era molto diffusa all’epoca in certi ambienti.
Persino nelle sezioni del PCI qualcuno si azzardava a dire “sono compagni che sbagliano”.
Qualcun’altro sosteneva “né con lo Stato né con le BR”.
Questi pensieri riemergono oggi ed è giusto condannarli e condannarli duramente.
Quanto al perdono penso che non spetti alla società o allo stato ma alle vittime e a Dio.
Le vittime possono perdonare, Dio vuole perdonare noi possiamo soltanto riflettere.
Non giudicare non vuol dire non prendere posizione, non vuol dire che tutti hanno ragione.
Qualcuno ha torto e, in questo caso, è chi esprime una equidistanza fra vittime e carnefici.