Non è difficile provare invidia per “gli scrittori e i favellatori politici” del XVI e XVII secolo, sempre pronti a distinguere e a discernere. Nei nostri giorni, infatti, si è quasi tutti inclini a semplificare e a inseguire la superficialità e la fretta dei potenziali lettori, accentuandole. Come abbiamo vissuto la questione morale in passato, ad esempio, e come la viviamo oggi?
Poniamoci in ascolto di Pietro Andrea Canoniero (morto nel 1620): “È differentia tra ragion di Stato e ragion di interesse; perché la ragion di interesse, è quando il Principe senza niuna legitima causa, ma per privata commodità che utile gli apporta, dalla ragione umana o divina, o da tutte due insieme si parte, la qual ragion d’interesse non è altro che Tirannide”. Dinanzi alla corruzione pubblica emersa a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, ci si è invece limitati a cogliere, a malapena, la differenza tra “aver rubato per sé” e “aver rubato per la propria corrente o il proprio partito” (la ragion di partito).
E in precedenza, al cospetto della questione morale sollevata da Enrico Berlinguer, non se ne era compreso a fondo il carattere di denuncia di un sistema di potere caratterizzato da pratiche che infrangevano il diritto e i più elementari criteri di giustizia. A sua volta, tuttavia, il Pci era coinvolto nel sistema consociativo, basato sulla sua partecipazione e la sua corresponsabilità, pur dall’ opposizione, rispetto alle scelte parlamentari; un sistema che comprendeva la stessa “lottizzazione”.
Anche se le radici della corruzione di massa erano altrove, come acutamente rilevato da Giorgio Amendola negli anni Settanta: “La difesa dell’impresa privata non viene oggi affidata alla capacità dell’imprenditore ed alla sua disposizione ad assumersi il rischio degli investimenti – che è la giustificazione del profitto – ma alla concessione di larghissimi crediti bancari ed alla somma di contributi pubblici a disposizione, e quindi al rapporto stabilito dagli imprenditori privati con le varie correnti della Dc che controllano il governo”.
E il fenomeno Craxi? Se la ragion di partito poneva l’equazione secondo la quale un rafforzamento del proprio partito avrebbe giovato al superiore interesse nazionale, con il leader del Garofano rosso si compie un passaggio ulteriore, fino a far coincidere l’interesse della patria con il proprio potere personale. E qui ricordiamo una breve considerazione di Girolamo Frachetta (1558-1620), a proposito della distinzione fra ragion di Stato, interesse di Stato, ragion di guerra: “Interesse di Stato vuol dire il commodo di chi si sia, concernente il mantenimento delle cose che quel tale possiede e l’ampliamento di esse”. Detto altrimenti: “l’interesse di Stato” corrisponde alla ragion d’interesse.
Troppo sbrigativamente, poi, si tende, negli ultimi lustri, ad attribuire le degenerazioni della prima Repubblica solo all’impossibilità di un ricambio alla guida del Paese; ma in tal modo non si spiegherebbero i fenomeni persistenti e diffusi di malcostume. Non solo: proprio in nome del ricambio, si dà un’interpretazione estensiva e abnorme dello spoils system, del tipo: “chi vince prende tutto”. Mortificando quel sistema di pesi e contrappesi fondamentale in una democrazia moderna e scivolando, piuttosto, verso la tirannide.
Eppure, come sottolineava Scipione Ammirato a conclusione del XVI secolo, la stessa ragion di Stato non andrebbe concepita come privilegio, anzi: ne rappresenterebbe l’opposto.
Poniamoci in ascolto: “Concludiamo dunque ragion di Stato esser una contraventione di ragion ordinaria per rispetto di maggiore e più universale ragione, o veramente per essere meglio intesi diremo, ragion di Stato essere una cosa opposta al privilegio; che si come il privilegio corregge la legge ordinaria in beneficio d’alcuno, onde si può dire il privilegio esser trapassamento di ragion civile in beneficio di particolari, così la ragion di Stato corregge la legge ordinaria in beneficio di molti, tal che si potrebbe propriamente chiamare trapassamento di legge ordinaria in beneficio di molti”.