In un mondo fortemente specializzato qual è quello in cui viviamo, occorre imparare a fidarsi di quelle persone e organizzazioni che hanno competenze che non si possiedono ma di cui si ha bisogno. Ad esempio, è necessario dare fiducia al proprio medico, a chi produce gli alimenti che si consumano, a chi costruisce gli edifici in cui si dimora, e così via.
Pur senza sospendere il buon senso, chiedendo all’occorrenza un secondo parere, e muovendosi con cautela se si ha l’impressione di disonestà o di incompetenza, occorre comunque assumere un atteggiamento di fondamentale fiducia nei confronti delle competenze altrui. In caso contrario, la vita diventerebbe impossibile.
Il monito di Ippolito
A volte, nelle comunità cristiane si pensa che la dottrina della fede sia appannaggio dei pastori e dei teologi affidabili, i primi per l’autorevolezza che deriva loro dal sacramento dell’ordine, i secondi per le loro competenze riconosciute dai colleghi e dai contesti ecclesiali in cui operano.
In quest’ottica, gli altri credenti dovrebbero sostanzialmente fidarsi di quanto queste figure affermano, cioè del fatto che la loro predicazione o insegnamento è in linea con il Vangelo. In realtà, le cose sono più complesse, e non solo per quanto attiene al servizio dei teologi, ma anche a riguardo di quello pur autorevole dei pastori.
Così scrive a questo riguardo il domenicano Y. Congar, citando un autore del III secolo: «Abbiamo già citato s. Ippolito: “Lo Spirito Santo conferisce a coloro che hanno una retta fede la grazia perfetta di capire come coloro che sono a capo della Chiesa devono trasmettere e custodire ogni cosa”: ove si vede che non c’è un automatismo del carisma di insegnamento garantito all’autorità.
Lo Spirito è assicurato ai pastori perché essi sono i pastori della Chiesa, riconosciuti da essa come dotati della grazia che abita in essa e come designati e donati da Dio medesimo. La garanzia di fedeltà, di cui lo Spirito è il principio, è data alla Chiesa» (Y. Congar, Credo nello Spirito Santo. 1. Rivelazione e esperienza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1981, 171-172).
In effetti, Ippolito, citato da Congar, dà più fiducia alla capacità della Chiesa intera di comprendere e di custodire la vera fede che alla fedeltà dei singoli pastori al loro compito, come emerge nel n. 43 con cui conclude la sua Tradizione Apostolica: «Nessun eretico né altro uomo potrà condurre in errore chi osserva la tradizione apostolica. Difatti, le eresie si sono moltiplicate perché i capi non vogliono istruirsi sull’insegnamento degli apostoli, ma fanno ciò che vogliono, seguendo il loro capriccio e non l’opportunità».
Dunque, l’autorità dei pastori nell’insegnamento della fede deriva da quella della Chiesa, non il contrario, perché lo Spirito è stato donato primariamente ad essa.
Il compito di chi guida le comunità è quello di sostenerle nella loro capacità di custodire il Vangelo degli Apostoli e di reinterpretarlo alla luce delle istanze delle culture e delle problematiche odierne.
Il compito dei pastori
Ora, senza nulla togliere al ruolo autorevole dei vescovi e dei presbiteri, quanto suggerito da Congar fa pensare che costoro non dovrebbero pensarsi come degli specialisti esclusivi della dottrina della fede che hanno il diritto di esigere una fiducia e un’adesione incondizionata in quanto predicano e in ciò che decidono. Essi sono piuttosto educatori, che aiutano le loro comunità a scoprire e a vivere la capacità che è data loro dallo Spirito di comprendere e di custodire questa dottrina.
In alcuni casi, i pastori le potranno rimproverare di aver intrapreso strade pericolose, ma normalmente dovranno camminare insieme agli altri cristiani e, anzi, lasciarsi mettere in discussione dalla comprensione della fede delle persone autenticamente credenti, soprattutto se hanno competenze teologiche.
Questo non significa che individui forse credenti ma certamente petulanti e incompetenti possano esigere di essere presi sul serio, soprattutto se assumono stili pseudoprofetici supponenti e cercano di monopolizzare il dialogo all’interno delle comunità cristiane intorno ai pochi temi di loro interesse.
La necessità di controllare figure del genere, però, non deve impedire a preti e vescovi di cogliere la critica rispettosa, magari silenziosa, che può salire da credenti genuini nei confronti della loro predicazione e del loro stile pastorale.
Così, i momenti di ascolto di un percorso sinodale potrebbero essere orientati non solo a formulare delle idee di rinnovamento, ma pure a valutare, con tutta la delicatezza e la discrezione del caso, l’insegnamento della fede e le scelte operative dei pastori, per aiutarli a capire se, per caso, in qualche circostanza, il citato rimprovero che Ippolito scrive al termine della sua Tradizione Apostolica sia valso anche per loro.
Ovviamente, un’opzione del genere può suscitare il timore di innescare delle polemiche, o addirittura di prestare il fianco a quelle persone forse credenti ma certamente petulanti e incompetenti di cui si è parlato. Per evitare queste pericolose derive, occorrerà attivare dei contesti di dialogo un po’ selettivi, pur senza rinunciare a convocare al loro interno cristiani e cristiane con diverse sensibilità.
A me pare che, se la Chiesa vuole essere sinodale, debba darsi degli organismi sinodali, in grado effettivamente di tradurre in scelte operative pastorali la partecipazione, la comunione e la missione che spetta a ciascun membro della Chiesa stessa(https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2023/08/sul-sinodo-2.html), se no la parola “sinodo” rimane una bella parola, priva di contenuto. Rimane a mio avviso l’impressione che la trasformazione della Chiesa in senso sinodale sia stata per ora solo abbozzata (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2024/02/sinodo-23-24-primo-parziale-bilancio.html).