Jean-Paul Vesco: la Chiesa ha un problema

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Arcivescovo di Algeri e franco-algerino, Jean-Paul Vesco, sessantuno anni, ha riflettuto a lungo sulla nozione di fratellanza e di alterità, uno dei frutti della sua esperienza in Algeria e della sua appartenenza all’ordine domenicano, che permea il suo pensiero sulle donne.

  • La Chiesa cattolica ha un problema con le donne?

La formulazione della domanda è un po’ provocatoria, ma sì, la Chiesa ha da secoli un problema con le donne, come in generale gli altri due monoteismi e forse la maggior parte delle religioni. Ma non vale come scusa; sarebbe stato così bello e legittimo se fosse stato diverso per il cristianesimo fin dalle origini! Tranne qualche felice eccezione recente, le donne sono assenti dal governo e dal commento della Parola di Dio durante la celebrazione domenicale, mentre altrove sono presenti ovunque. Sono la «carne» delle parrocchie, e spesso l’anima di quelle chiese domestiche che sono le famiglie, e sono sempre loro, il più delle volte, ad occuparsi del catechismo.

Nella nostra rappresentazione, la Chiesa è per definizione atemporale, una Chiesa patriarcale al di fuori delle correnti, delle mode e degli oltraggi del tempo. Tuttavia, in assenza di un maggiore coinvolgimento delle donne in ruoli di responsabilità e di visibilità, la nostra Chiesa paradossalmente corre il rischio di diventare una Chiesa obsoleta, non atemporale ma anacronistica e superata nella sua organizzazione.

La Chiesa cattolica, ossia universale, se non è del mondo, è comunque inscritta nel mondo e non può rifugiarsi in una logica di nicchia auto referenziata rispetto al mondo. La questione delle responsabilità dei laici, e quindi anche delle donne, è stata ampiamente sollevata durante le consultazioni che hanno preceduto il sinodo: oggi il problema salta agli occhi. La guerra dei chierichetti, che vorrebbe che ci fossero solo ragazzi attorno all’altare, come avviene in alcuni luoghi, non è più pensabile. Nei dicasteri del Vaticano, dove le donne cominciano a essere più numerose che in passato, e dove occupano posti di maggiore responsabilità, il clima è completamente diverso. Bastano poche donne perché la Curia non sia più quel ristretto gruppo clericale purtroppo così facilmente stigmatizzabile.

Si dice spesso che oggi sarebbe impossibile riunire un concilio a livello di Chiesa universale per la difficoltà concreta di radunare più di 5.000 vescovi. Ma il problema non è questo. L’immagine dell’aula Paolo VI, durante il sinodo, con cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, uomini e donne, attorno ai tavoli, su uno stesso piano, mostra un cambiamento d’epoca, la consapevolezza che è diventato impossibile decidere solo tra vescovi. In un certo senso, il sinodo sulla sinodalità, in modo molto naturale, ha reso obsoleta la prospettiva di un Concilio Vaticano III! Chi potrebbe oggi immaginare che il futuro della Chiesa si possa discernere in un’assemblea di soli vescovi?

  • Qual è il ruolo delle donne nel governo della diocesi di Algeri?

Nella nostra diocesi, oltre ai diversi consigli, ho voluto circondarmi di un team ristretto composto dai principali responsabili della curia diocesana: il vicario generale, il segretario generale, l’economo, l’economo aggiunto, il responsabile della diaconia e io stesso. Si dà il caso che questo team sia composto da quattro donne e due uomini. La maggior parte delle decisioni vengono prese insieme. Più in generale, vivo in un ambiente essenzialmente femminile, ed è una gioia quotidiana! Il che non significa che non ci siano attriti.

Un giorno, una di loro mi ha fatto notare: «Alla fine, comunque, sei tu a decidere!». È vero, è un’osservazione vera. Nella nostra Chiesa cattolica le decisioni sono prese dal vescovo che le incarna. Il modello può indubbiamente evolversi. A tale riguardo, i modelli di governo nella vita religiosa possono essere ispiratori: molte decisioni vengono prese da capitoli o da consigli eletti e le limitazioni al potere decisionale dei superiori nulla tolgono al loro potere simbolico. Detto ciò, mi sembra che, nella maggior parte dei casi, la fiducia che nasce dalla conoscenza reciproca e dal perseguimento di un progetto comune fa sì che la maggior parte delle decisioni siano prese con ampio consenso quando non all’unanimità. E in ogni caso, le opinioni di ognuno e di ognuna sono state ascoltate e hanno influito, in un modo o nell’altro, sulla decisione finale. Credo che sia un’esperienza forte per ognuno e ognuna, me compreso!

  • Dietro la questione delle donne c’è quella del ruolo dei laici…

Certamente! Durante la fase diocesana del sinodo sulla sinodalità, nella diocesi di Algeri, i cristiani nativi del Paese hanno espresso chiaramente il desiderio di partecipare alla vita della Chiesa. Considerano a ragione la Chiesa come loro Chiesa in quanto algerina. Si sentono però emarginati rispetto a noi che siamo «di ruolo», in gran parte religiosi e stranieri, che, dall’indipendenza del Paese, rappresentiamo l’essenza delle forze vive della Chiesa. Di fatto, prima erano quasi assenti dagli organi decisionali. Abbiamo ascoltato il loro appello e lo abbiamo tenuto particolarmente presente nella composizione dei diversi consigli, episcopale, economico e pastorale. Nel consiglio episcopale ci sono due sacerdoti, una religiosa, una focolarina e cinque laici algerini, di cui due donne. Si crea così un clima completamente diverso. Anche in questo caso, usciamo dal circolo ristretto.

Non è sempre facile e non c’è nulla di scontato, ma i nostri codici, le nostre ovvietà, vanno accantonati. Dobbiamo imparare a capirci e a misurare l’abisso d’incomprensione che, a volte, ci separa e del quale non eravamo consapevoli perché non aveva un luogo di espressione. La nostra Chiesa deve diventare molto meno clericale, è una sfida per la Chiesa universale a ogni livello e in ogni luogo. Questa sfida non è esente da una rivendicazione di potere, con tutto ciò che di spiacevole può comportare. Ma rimproverare all’altro di volere prendere un potere significa spesso esercitare quel potere senza necessariamente esserne consapevoli. È il motivo per cui ho difficoltà a liquidare le rivendicazioni delle donne nella Chiesa con un: «perché vogliono il potere?»

  • In diverse società, il funzionamento della Chiesa su queste tematiche si scontra con l’ideale democratico…

Il principio di organizzazione gerarchica della Chiesa è d’ispirazione monarchica… fatto salvo per la successione ereditaria! È l’organizzazione umana che, quasi fin dalle origini, è garante dell’unità e lo ha più volte dimostrato. In ogni caso, noi siamo così. Ciò non esclude la presenza al suo interno di funzionamenti e di istanze più democratiche, come avviene nelle monarchie moderne. I nostri fratelli e sorelle delle Chiese protestanti hanno nel sangue questa cultura democratica, ossia sinodale, e abbiamo senza dubbio molto da imparare da loro in questo grande movimento di sinodalità nello stile cattolico iniziato dal Santo Padre.

La dinamica sinodale non si fermerà, si estenderà e si diffonderà a tutti i livelli della Chiesa senza tuttavia rimettere in discussione la sua struttura sacramentale. Ogni passo indietro apparirà subito totalmente anacronistico perché la Chiesa riguarda tutti i battezzati. Sono profondamente convinto che la responsabilità nella Chiesa, di cui le questioni di potere sono uno snaturamento, aumenta man mano che la si condivide. Condividere la responsabilità significa aumentarla, e la nostra Chiesa soffre di un grande deficit di assunzione di responsabilità.

  • Cosa pensa del diaconato femminile?

A titolo personale, lo auspico vivamente! Mi sembra impossibile privare i fedeli, e quindi anche me stesso, della ricezione femminile della Parola di Dio. Nessuno degli argomenti addotti mi ha mai convinto. Quindi sì, mi piacerebbe che la questione del diaconato femminile avanzasse o che almeno si compisse un passo in più verso l’autorizzazione per le donne e, più in generale, per i laici formati, a commentare la Parola di Dio nell’ambito della celebrazione domenicale.

A differenza del ministero presbiterale, il diaconato femminile ha radici nella tradizione della Chiesa e fatico a capire le obiezioni che possono essere sollevate, tranne che riservare il presbiterio, ossia l’esercizio del sacro, al maschile. Su questa questione dei ministeri, come su quella del governo, l’orizzonte si svela e si allarga camminando. Ciò che sembrava impensabile ieri può così facilmente diventare un dato di fatto domani. Una presenza esclusivamente maschile nel presbiterio, le grandi processioni d’ingresso esclusivamente maschili, tutto ciò oggi ci appare naturale. Sarà sempre così o un giorno ci sembrerà troppo anacronistico? Il solo fatto di porsi la domanda suscita già un cambiamento di prospettiva…

  • Il problema non deriva forse dal fatto che spesso si considerano le vocazioni femminili non di per sé, ma rispetto alle vocazioni maschili?

In effetti, la vocazione femminile nella Chiesa è tradizionalmente pensata in termini di complementarietà. Ma questo non basta più, bisogna anche pensarla in termini di alterità. La vocazione femminile vale di per sé. Questa dimensione di alterità è attualmente molto presente nella vita coniugale. I compiti sono condivisi, tutte e due i genitori possono lavorare, occuparsi dei figli… Ognuno li svolge nella sua diversità di sesso, di carattere… Sono gli stessi compiti svolti in modo diverso. Questo vale per tutti gli ambiti della società. Come si può pensare che non possa esserci un’eco di questa evoluzione sociale in seno alla Chiesa nel modo in cui vengono esercitati i carismi e i ministeri, nel rispetto della tradizione, che non è un corpo morto ma un corpo vivo, allo stesso tempo immobile e sempre in movimento?

La questione dell’alterità rimanda a quella della fratellanza. Di fatto, la fratellanza richiede e, al tempo stesso, rende possibile l’alterità. Non si può dire lo stesso della paternità spirituale. Credo nella paternità spirituale, come frate domenicano in formazione ne ho fatto l’esperienza. Ma questa paternità spirituale io l’ho ricevuta da un fratello, da un alter ego molto più avanti di me nella vita religiosa, e anche nella santità. Se non fosse deceduto prima, avrei potuto essere il suo priore provinciale.

Sono in difficoltà con la paternità spirituale istituzionalizzata così come la viviamo nella Chiesa. I ruoli non si invertono mai, come invece avviene con la paternità nella vita reale, dove i rapporti tra genitori e figli continuano a evolversi per tutta la vita. Un giorno i figli si prendono cura dei genitori. Non vale lo stesso per il patriarca, che conserva la sua autorità fino alla morte. E in tal senso, la paternità spirituale istituzionalizzata mi sembra più un modello patriarcale che paterno.

La fratellanza, come in una vera confraternita, rende possibili tutte le forme di relazioni. Una sorella maggiore potrà avere per un periodo un ruolo materno rispetto al fratello minore. Qualcosa rimarrà sempre, ma ognuno di loro vivrà l’alterità fondamentale che hanno ricevuto in quanto tutti e due figli degli stessi genitori. La vita s’incaricherà di far evolvere il loro legame e, forse, a un certo punto, d’invertirlo.

Credo profondamente che la nostra Chiesa debba pensarsi di più come una comunità di fratelli e sorelle. È la testimonianza più alta che può offrire al mondo. Più che una lotta di potere, il necessario riequilibrio tra chierici e laici, tra uomini e donne, è una questione di alterità e di fratellanza. Se mi piace essere chiamato fratello, piuttosto che padre o monsignore, non è per falsa modestia o vanità, ma è proprio per questa questione di alterità, che non deriva da una scelta, bensì da un dato di fatto: ho bisogno dei fratelli e delle sorelle della mia diocesi, come avevo bisogno dei miei fratelli domenicani per essere ciò che sono per loro.

Marie-Lucile Kubacki è giornalista, inviata speciale permanente per La Vie a Roma. L’intervista è stata pubblicata sul sito de L’Osservatore Romano, 2 marzo 2024.

 

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6 Commenti

  1. Giuseppe 4 aprile 2024
  2. Dino Margheri 1 aprile 2024
  3. Luigi Sorrentino 1 aprile 2024
  4. Andrea Lebra 30 marzo 2024
  5. Christian 30 marzo 2024
  6. Fabio Cittadini 30 marzo 2024

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