Prima dell’incontro di un mese del Sinodo sulla sinodalità, tenutosi lo scorso ottobre a Roma, i delegati sono stati invitati a un ritiro pre-sinodale guidato da Timothy Radcliffe. Parte dello scopo del ritiro era quello di prepararci a partecipare a “una conversazione nello Spirito”, per usare la definizione di papa Francesco del processo sinodale.
Considero questa riformulazione della sinodalità a dir poco rivoluzionaria. Le riflessioni di padre Radcliffe mi hanno convinto che la riformulazione del papa della portata e del significato dei sinodi avrà una forza duratura, perché apre un nuovo “modello di Chiesa”, per usare un termine coniato dal defunto cardinale Avery Dulles 50 anni fa.
Cosa c’è di così rivoluzionario?
Prima dell’attuale Sinodo sulla sinodalità, nella storia della Chiesa ci sono stati 15 Sinodi generali, che hanno trattato una serie di argomenti, come l’evangelizzazione, la formazione dei sacerdoti, l’Eucaristia e il sacramento della penitenza. Questi sono stati organizzati in accordo con quanto si legge nel canone 342 del Codice di Diritto Canonico del 1983: “Il sinodo dei Vescovi è un’assemblea di Vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell’orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi stessi, e per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, nell’osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo”..
I vescovi e, in alcuni dei sinodi più recenti, i sacerdoti e i laici presenti si riunivano in piccoli gruppi di discussione, i cui risultati venivano riferiti all’assemblea generale. Ai partecipanti erano concessi anche tre o quattro minuti per parlare nelle sessioni generali, ma raramente gli interventi avevano una connessione tematica l’uno con l’altro. Vie era poca discussione aperta o dibattito. In effetti, mi è stato detto da un vescovo che ha partecipato ad alcuni dei sinodi precedenti che ai vescovi era stato consigliato di astenersi dal sollevare questioni delicate.
Un nuovo modo di procedere
Tutto questo è cambiato con papa Francesco, soprattutto con il Sinodo sulla sinodalità. Un cambiamento importante è stato l’ampliamento del numero dei votanti oltre i vescovi. Laici, religiosi, sacerdoti e diaconi sono ora nominati direttamente dal papa per partecipare ai sinodi. Tutti hanno uguale voce in capitolo e uguale diritto di voto. Ma il cambiamento più significativo è stata la ridefinizione del sinodo come “conversazione nello Spirito”. Come descritto nei testi preparatori del sinodo, ai delegati è stato chiesto di partecipare al sinodo non concentrandosi su ciò che essi o altri avrebbero detto, ma piuttosto chiedendo ai partecipanti di dare priorità alla “capacità di ascoltare così come alla qualità delle parole pronunciate”.
Conversare nello Spirito “significa prestare attenzione ai movimenti spirituali in sé stessi e nell’altra persona durante la conversazione, il che richiede di essere attenti a qualcosa di più delle semplici parole espresse. Questa qualità dell’attenzione è un atto di rispetto, accoglienza e ospitalità verso gli altri così come sono. È un approccio che prende sul serio ciò che accade nei cuori di coloro che stanno conversando. Ci sono due atteggiamenti necessari che sono fondamentali per questo processo: l’ascolto attivo e il parlare con il cuore”.
Conseguenza pratica del dare priorità all’ascolto dello Spirito come protagonista delle nostre conversazioni, invece di riunirci in un’aula che assomiglia più a una sala conferenze dove tutti noi si è rivolti nella stessa direzione, è stata quella di organizzare lo spazio sinodale in modo che ognuno prendesse posto in una tavola rotonda con altri sei-otto delegati. Ci è stato chiesto di partecipare a una serie di conversazioni con intermezzi di silenzio per permetterci di ascoltare davvero ciò che viene detto dagli altri. In sintesi, invece di tenere discorsi, dovevamo parlare e ascoltarci a vicenda.
Devo ammettere che, nonostante la chiarezza delle spiegazioni pre-sinodali, non ho compreso appieno ciò che mi veniva chiesto fino a quando ho partecipato al ritiro tenuto da padre Radcliffe. Il suo ritiro di tre giorni ha preparato il terreno perché ha fornito un’esperienza di vera conversazione nello Spirito.
Ha ottenuto questo risultato mettendoci prima in contatto con ciò che avevamo nel cuore quando ci siamo riuniti in sinodo. Siamo venuti a Roma, ha riconosciuto, con le stesse paure sul sinodo che sono presenti nella Chiesa in generale. Ci ha anche dato occasione di portare le nostre esperienze ecclesiali nelle nostre conversazioni, rendendoci così conto che diverse ecclesiologie sarebbero state rappresentate nella sala. E infine, ha sapientemente dispiegato la visione del Concilio Vaticano II per il rinnovamento della Chiesa, in modo che fossimo solidamente ancorati teologicamente. Di conseguenza, le sue sei meditazioni hanno contribuito a plasmare il nostro pensiero su come relazionarci e rispondere gli uni agli altri come partecipanti al Sinodo, dandoci così la capacità di avere quel tipo di conversazioni che potrebbero portare alla conversione.
Ho selezionato tre delle intuizioni di padre Radcliffe che ho trovato particolarmente utili. In primo luogo, come percorso per affrontare le nostre paure, i dubbi e le divisioni, ci ha invitato a camminare insieme con coraggio con una speranza eucaristica. In secondo luogo, ci ha esortato a offrirci reciprocamente l’amicizia di Gesù; e, in terzo luogo, ci ha chiesto di riconoscere e accettare che ogni persona parla con autorità e deve essere onorata.
La speranza eucaristica in un tempo di divisione
Padre Radcliffe ha iniziato il nostro ritiro sottolineando di essere molto incoraggiato dalla risposta all’appello di papa Francesco per una Chiesa sinodale. “Siamo qui riuniti perché non siamo uniti nel cuore e nella mente”, ha osservato, viste le numerose divisioni esistenti e potenziali nella Chiesa. Tuttavia, “la grande maggioranza delle persone che hanno preso parte al processo sinodale è stata sorpresa dalla gioia”. E ha proseguito: “per molti è la prima volta che la Chiesa li invita a parlare della loro fede e della loro speranza”.
Che modo meraviglioso di dirlo. Padre Radcliffe ha riconosciuto con franchezza la realtà della situazione: eravamo riuniti in un momento di promessa ma anche di trepidazione, perché sapevamo di non essere ancora uniti. Ma ha rassicurato noi, e di fatto tutta la Chiesa, che coloro che abbracciano il cammino sinodale si sono trovati sorpresi dalla gioia.
Il nostro direttore del ritiro ci ha avvertiti di essere onesti e di ammettere che siamo arrivati a Roma con speranze contrastanti, divisi e timorosi su ciò che ci aspetta per una Chiesa sinodale. Alcuni speravano in riforme molto significative. Molti dubitavano che qualcosa di significativo sarebbe successo. Altri temevano che sarebbero cambiate troppe cose e che tali cambiamenti avrebbero potuto portare allo scisma.
Padre Timothy ha offerto la scena evangelica della trasfigurazione come metafora per aiutarci ad affrontare le nostre paure, i dubbi e le divisioni durante il ritiro. Ha sottolineato che non siamo dissimili dai discepoli del “primo sinodo”, come lo ha definito, quello in cui si diressero verso Gerusalemme, dove Gesù avrebbe sofferto e sarebbe morto. La predizione del Signore sulla sua morte li ha lasciati impauriti e divisi da speranze contrastanti. Pietro aveva le sue speranze su Gesù, colui che aveva appena proclamato come il “Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). La madre di Giacomo e Giovanni sperava che i suoi figli avrebbero sostituito Pietro e si sarebbero seduti alla destra e alla sinistra di Gesù.
Fu in quel momento, mentre camminavano insieme verso Gerusalemme, che Gesù portò Pietro, Giacomo e Giovanni in ritiro sul monte Tabor per offrire una visione molto più ampia del loro viaggio. Dovremmo immaginare che egli stia facendo lo stesso per noi in questo ritiro, ha detto padre Timothy.
In quell’occasione, Gesù rivelò una visione più ampia della sua missione, compresa la fine della storia, poiché si trasfigurò nella gloria come l’amato Figlio di Dio davanti ai loro occhi ed essi udirono il Padre dire: “Ascoltatelo” (Mt 17,6). Questo incontro non risolse tutte le loro paure e divisioni. Ma diede loro il coraggio di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Sul monte Tabor hanno intravisto la nuova speranza che Gesù avrebbe dato al mondo la notte prima di morire.
Più tardi, nella stanza superiore, quando sembrava che non ci fosse futuro, né speranza, e tutto ciò che li attendeva era il fallimento, la sofferenza e la morte, Gesù “fece il gesto più pieno di speranza nella storia del mondo”, ci ha detto padre Timothy. A tavola insieme, dove spesso avevano condiviso la vita, Gesù offrì loro il pane e il vino e disse: “Questo è il mio corpo, dato per voi; questo è il mio sangue versato per voi”. Proprio in quel momento, quando tutto era perduto, ha dimostrato una speranza che va oltre la nostra immaginazione, donandosi totalmente.
Così anche ora, ci ha suggerito il nostro predicatore domenicano, il Signore ci ha invitato su questo “Tabor sul Tevere”, per così dire, prima di metterci in cammino insieme, consapevoli che ciò comporterà una sorta di morte per avere una nuova vita. Lo stesso Gesù ci offre in modo nuovo la speranza che si trova nell’Eucaristia, mentre “ci conduce verso la morte e la risurrezione della Chiesa”. È una speranza che “fa sembrare minore, quasi assurdo, il conflitto tra le nostre speranze”. È una speranza che ci ispira a non scoraggiarci mai se ciò che ci viene chiesto sembra al di là delle nostre possibilità o se è troppo costoso.
Padre Timothy ci ha incoraggiati a essere pronti, come il giovane del Vangelo che ha offerto il suo cesto di pani e pesci, a “dare generosamente tutto ciò che abbiamo in questo sinodo, [perché] sarà più che sufficiente. Il Signore della messe provvederà”.
La stessa generosità eucaristica dovrebbe imporci di non scartare mai il valore di ciò che gli altri offrono perché non siamo d’accordo o perché pensiamo che sia troppo poco. Quando siamo tentati di rifiutare o emarginare gli altri perché non rientrano nella norma, dobbiamo ricordare che la teologia cattolica è sempre stata definita in termini doppi: Scrittura e tradizione, fede e opere. Quindi, come cattolici, quando ci ascoltiamo l’un l’altro, invece di dire “No”, dovremmo essere aperti a dire “Sì, e…”.
Padre Timothy ha offerto un’altra immagine per incoraggiarci a rispettare le voci emarginate durante le nostre conversazioni sinodali. “Rinnovare la Chiesa, quindi, è come fare il pane. Si raccolgono i bordi dell’impasto al centro e si allarga il centro ai margini, riempiendo il tutto di ossigeno. Si fa la pagnotta rovesciando la distinzione tra i bordi e il centro, facendo in modo che la pagnotta di Dio, il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte, ci avvolga”. Così è nell’ascolto reciproco, piegando i margini al centro e il centro ai margini, diventiamo aperti al respiro dello Spirito Santo nel realizzare una Chiesa rinnovata.
Questa è la speranza che riceviamo nell’Eucaristia e che dovrebbe ispirarci a essere generosi nelle nostre conversazioni nello Spirito. È una speranza che ci chiama al di là di ogni divisione e attenua le nostre paure e, cosa più importante, la nostra presa sulle speranze in competizione, confidando che ciò che ci aspetta va oltre la nostra immaginazione, ma il Signore è con noi.
Raccontando un episodio di quando era un giovane superiore provinciale domenicano, padre Radcliffe ci ha detto che lui e un anziano domenicano, padre Peter, fecero visita a un piccolo gruppo di monache e dissero loro che il futuro del loro monastero era incerto. Una di loro obiettò: “ma, padre, il nostro caro Signore non lascerebbe morire il nostro monastero, vero?”. Padre Peter rispose: “sorella, ha lasciato morire suo figlio. Così, possiamo lasciar morire le cose, non nella disperazione, ma nella speranza e per dare spazio al nuovo”.
L’amicizia di Gesù
Quando sono tornato da Roma dopo il sinodo, mi è stato chiesto molte volte: “cosa è successo al sinodo?”. Ho risposto semplicemente: “mi sono fatto molti nuovi amici e nessun nuovo nemico”. In effetti, padre Radcliffe ci ha esortato a iniziare intenzionalmente a fare amicizia durante le settimane del sinodo, ma a farlo nel modo in cui Dio fa amicizia. A differenza delle amicizie umane dell’antichità, spesso possibili solo tra buoni e tra pari, Dio offre amicizia in modi a volte scioccanti, a Giacobbe l’imbroglione, a Davide l’assassino e l’adultero, e a Salomone l’idolatra.
Allo stesso modo, Gesù ha fatto amicizia mangiando con i peccatori e visitando le loro case. Gesù rivela che Dio non ha limiti quando si tratta di fare amicizia: mandando suo figlio ad assumere la nostra esistenza terrena e carnale, Dio ha attraversato la divisione tra la creatura e il creatore, tra il tempo e l’eternità, per fare amicizia con noi.
Il sinodo è un momento, ha sostenuto padre Timothy, per ricalibrare il nostro modo di fare amicizia. Ci ha esortato a chiederci se abbiamo posto dei limiti alle persone con cui facciamo amicizia e se questo ha danneggiato la nostra capacità di ascoltarci a vicenda. Questo è il tipo di ascolto a cui si fa riferimento nel documento preparatorio che ho citato prima, prestando attenzione ai movimenti spirituali in sé stessi e nell’altra persona durante la conversazione, rispettando e accogliendo gli altri così come sono. È il riconoscimento che lo Spirito di Dio opera in tutti, sì, anche in coloro che non sono d’accordo con noi.
Padre Timothy ha osservato che Dio fa amicizia proprio come crea, lasciando che le cose siano. “fa che ci sia” – dice Dio nell’atto della creazione. Così anche noi non dobbiamo avere paura delle persone che sono diverse da noi o che differiscono da noi su certe questioni. Questo tipo di amicizie ci permette di condividere i nostri dubbi e di cercare insieme la verità, indipendentemente dai nostri punti di partenza. In effetti, l’atto stesso di cercare la verità deve essere fatto insieme, perché in modo fondamentale abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro per fare questo viaggio.
Ci ha ricordato che la ricerca della verità non può mai ridursi alla semplice ricerca di informazioni che poi decidiamo di condividere o contestare. Non si tratta di capire le cose, di trovare nuove idee o strategie, che è spesso l’approccio di default che gli americani adottano quando devono affrontare delle sfide. L’obiettivo è piuttosto quello di scoprire la verità che lo Spirito rivela, e questo richiede attenzione. La conversazione nello Spirito produce frutti reali in un processo di scoperta di ciò che è già stato dato da Dio. Ecco perché papa Francesco ha ripetutamente insistito sul fatto che il sinodo non è un parlamento, dove si discute e si cercano compromessi in uno scambio dialettico.
La ricerca della verità nel processo sinodale avviene nel tipo di conversazione che chiede cosa c’è nel cuore dell’altro, cosa lo turba e lo preoccupa. È così che Dio conversa con noi, come vediamo nella prima conversazione che Dio ha nel Libro della Genesi. Dopo la caduta, Dio non inizia una conversazione con Adamo accusandolo. Dio non gli chiede di pagare per il frutto che ha rubato! Piuttosto, Dio chiede semplicemente: “Dove sei?” (Gen 3,9). È una domanda che mostra preoccupazione. Così come, lungo la strada per Emmaus, Gesù chiede: “Di che cosa state parlando?” (Lc 24,17). Chiede ai discepoli di condividere la loro rabbia e la loro paura. Ed è disposto ad andare dove loro vanno, non controllando la conversazione o la direzione del viaggio, ma accettando la loro ospitalità.
È così che dovrebbero avvenire le nostre conversazioni nello Spirito: ascoltando ciò che c’è nel cuore dell’altro, senza cercare di controllare la conversazione e senza avere paura di dove la conversazione andrà. Gli orari devono essere messi da parte. Non c’è una tabella di marcia per il compimento. Il tempo è nelle mani di Dio, cosa particolarmente difficile per gli americani.
È necessario il tipo di conversazione che porta alla conversione. È una conversazione tra amici che ascoltano con l’immaginazione e cercano di capire perché l’altro ha una posizione diversa dalla propria. È un’amicizia che si assume dei rischi, proprio come fece Gesù quando, la notte prima di morire e mentre i suoi discepoli stavano per tradirlo, rinnegarlo e abbandonarlo, disse loro: “Vi chiamo amici” (Gv 15,15).
Rafforzare reciprocamente l’autorità
“Non ci può essere una conversazione fruttuosa tra di noi”, ha avvertito padre Timothy, “se non riconosciamo che ognuno di noi parla con autorità”. Ha fatto notare che la Commissione Teologica Internazionale ha citato Giovanni quando ha affrontato il tema dei sensus fidei: ” Ora voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza… E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito” (1 Gv 2,20.27).
Molti laici coinvolti nel sinodo si sono stupiti del fatto che, per la prima volta, i leader dela Chiesa li abbiano ascoltati. Ma nessuno dei delegati dovrebbe dubitare della propria autorità di parlare. Tutti noi, a prescindere dalla nostra posizione nella Chiesa, dobbiamo partire dalla comprensione comune che “l’autorità è multipla e si rafforza reciprocamente”. Un semplice gesto mi ha indicato che l’esortazione di padre Radcliffe in questo senso ha messo radici nei cuori dei delegati sinodali. Mentre eravamo seduti intorno al tavolo, il facilitatore ha iniziato ponendoci una semplice domanda: “come volete essere chiamati?”. Tutti, indipendentemente dalla loro posizione nella Chiesa, hanno dato il loro nome di battesimo e hanno omesso qualsiasi riferimento a un titolo. Abbiamo iniziato su un piano di parità e abbiamo riconosciuto che ognuno parla con autorità.
Abbiamo buoni esempi nella Chiesa primitiva di come si parla di verità al potere che dovrebbero guidarci. Paolo racconta nella sua Lettera ai Galati di essersi opposto a Pietro “in faccia” (Gal 2,11), eppure si diedero la mano destra di amicizia – e la Chiesa li onora come martiri fondatori. Seguendo il loro esempio, dovremmo “cercare il modo di dire la verità in modo che l’altra persona possa ascoltarla senza sentirsi demolita”.
La paura è spesso alla base dell’esitazione a dire la verità quando è scomoda. Chi parla esita perché teme il rifiuto. Chi ascolta la verità teme di dover rinunciare al controllo o al cambiamento. “Abbiamo un profondo istinto di aggrapparci al controllo, ed è per questo che il sinodo è temuto da molti”, ha detto padre Radcliffe. Eppure, fin dai primi giorni della Chiesa, lo Spirito Santo ha sfidato questa tendenza al controllo o al mantenimento dello status quo. Padre Timothy ha ricordato che a Pentecoste “lo Spirito Santo scese potente sui discepoli che furono inviati fino ai confini della terra. Invece gli apostoli si stabilirono a Gerusalemme e non vollero andarsene. Ci sono volute le persecuzioni per farli uscire dal nido e mandarli via da Gerusalemme”.
I leader devono essere particolarmente attenti alla paura di perdere il controllo e di essere aperti al cambiamento, “perché essere guidati dallo Spirito in tutta la verità significa lasciare andare il presente, confidando che lo Spirito farà nascere nuove istituzioni, nuove forme di vita cristiana, nuovi ministeri”. Questo è in linea con il consiglio di papa Francesco in Evangelii gaudium dove scrive: “Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!” (280).
La paura di perdere il controllo scorre profondamente nella psiche della leadership ecclesiastica, e sarebbe facile raccontarne molti esempi. Uno dei miei preferiti si trova in una lettera scritta dal cardinale Wolsey a papa Clemente VII nel 1525. Come forse ricorderete, il cardinale Wolsey era l’elemosiniere del re d’Inghilterra e divenne la figura di controllo in quasi tutte le questioni riguardanti la Chiesa e lo Stato sotto Enrico VIII.
La sua nomina a cardinale e legato in Inghilterra da parte di papa Leone X gli dava la precedenza su tutti gli altri ecclesiastici inglesi, e in qualità di Lord Cancelliere godeva di grande libertà e veniva spesso raffigurato come l’alter rex. Con lo sviluppo della stampa, sentì il dovere di avvertire il papa dei pericoli di questa nuova invenzione, notando che avrebbe avuto il triste risultato di rendere le Scritture e gli articoli di fede della Chiesa direttamente accessibili ai laici. Se ciò accadesse, avvertiva, i laici sarebbero incoraggiati a “pregare per conto loro nelle loro lingue volgari” e, se lo facessero, potrebbero pensare di poter trovare da soli la strada per arrivare a Dio – e allora il clero servirebbe a poco.
Ma, come ci ha ricordato padre Timothy, l’autorità non è un gioco a somma zero. Piuttosto, “è multipla e si rafforza reciprocamente”. Non c’è bisogno di una competizione, come se i laici potessero avere più autorità solo se i vescovi ne avessero meno; o i cosiddetti conservatori competessero per l’autorità con i progressisti. Invece di comportarci come quei discepoli che volevano gettare il fuoco sui loro avversari, dovremmo prendere a modello la Trinità, dove “il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non competono per il potere, così come non c’è competizione tra i nostri quattro Vangeli”.
Una forza trasformatrice
L’esperienza della trasfigurazione sul Monte Tabor ha dato ai discepoli di Gesù un’idea della sua missione. Non ha risolto tutte le loro divisioni, paure e speranze contrastanti, ma ha dato loro il coraggio di muovere i primi passi con Gesù mentre si dirigeva verso Gerusalemme. Le meditazioni del ritiro di padre Radcliffe hanno avuto uno scopo simile. Rivelando il potere trasformativo della speranza eucaristica che può placare le nostre paure, delle amicizie attente al movimento dello Spirito l’uno nell’altro e del riconoscimento dell’autorità reciprocamente rafforzata per partecipare alla vita della Chiesa, ci ha incoraggiati a prendere il nostro posto nell’aula sinodale e a partecipare a “una dinamica”, per citare l’Instrumentum laboris per il sinodo, “in cui la parola [pronunciata] e ascoltata genera familiarità, permettendo ai partecipanti di avvicinarsi l’uno all’altro”.
Ma le sue meditazioni hanno fatto ancora di più. Ci hanno aiutato a capire che il papa ci chiama a immaginare un rinnovamento di tutta la Chiesa come una conversazione nello Spirito. Si tratta di un nuovo “modello di Chiesa” che, a mio avviso, ha la promessa di portare un rinnovamento nel modo in cui prendiamo le decisioni nella Chiesa e nel modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri a livello universale, continentale, nazionale e locale. Immaginate cosa potrebbe significare se le conferenze episcopali nazionali e provinciali, i consigli pastorali e presbiterali diocesani, insieme ai consigli delle parrocchie, si intendessero come riuniti per conversare nello Spirito. Essi si farebbero carico della loro missione, ispirati da una speranza eucaristica, impegnati a creare e sostenere amicizie ascoltando il movimento dello Spirito l’uno nell’altro e rimanendo fermi nel rispetto dell’autorità reciprocamente rafforzata.
La mia speranza è che, così come padre Radcliffe ci ha preparati a entrare nell’aula sinodale, anche i cattolici siano ispirati a prendere posto al tavolo del processo sinodale e a lavorare per il tipo di rinnovamento inteso dal papa.
Non sorprende che il primo nome della Chiesa sia stato “La Via”, perché fu al primo sinodo, quando i discepoli andarono a Gerusalemme, che compresero che il Signore, sempre al loro fianco attraverso lo Spirito, era colui che li guidava sulla via e che la loro missione era quella di discernere il suo movimento.
Questa è l’eredità che la Chiesa primitiva ci ha lasciato, che papa Francesco ha fatto sua – e ci invita ad accogliere – affinché anche noi possiamo essere “sorpresi dalla gioia”.
- Pubblicato sulla rivista dei gesuiti statunitensi America.
Un’ulteriore testimonianza di quello che è stato fino ad ora il Sinodo che, tuttavia, a mio avviso rimane incompleto o, se vogliamo, imperfetto (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2024/02/sinodo-23-24-primo-parziale-bilancio.html)
La conversazione nello Spirito è più diffusa di quello che si sia portati a pensare dopo la lettura di quest’articolo: essa è maggiormente in vigore nella Chiesa a livello di base, tra i fedeli, nelle parrocchie, in alcune congregazioni religiose… e ovunque, là dove la fraternità ha il sopravvento sul potere e sul rispetto umano verso i superiori, perché in tutti e attraverso tutti parla lo Spirito Santo.