Nei miei anni di studio a Friburgo o a Parigi capitava spesso di trovarsi di fronte ad un bivio, a una difficoltà, per scegliere un argomento, una materia, un indirizzo… Avevo persone amiche accanto per dirmi «fai come ti senti», «fa quello che ti pare meglio».
Quale dannosa terapia! Si era portati a prendere la via più breve, il percorso più piacevole o il soggetto più amato. Dimenticando, così, quella massima della saggezza orientale: «Di fronte a un bivio, con una via in discesa e una in salita, scegli sempre la via in salita, quella più difficile. Ti terrà in all’erta. Ti abituerà alla sfida. Ti farà grande».
Cosa vuoi sentirti dire?
In fondo, è la dinamica del consenso. Dell’essere consenziente, compiacente. In realtà, si rivela ben poco educativa. E questo, per un padre nei confronti del figlio, per l’insegnante verso lo studente o il politico con l’elettore.
Ci si ricorda ancora del presidente Reagan che chiedeva al suo staff prima di incontrare un grosso pubblico di agricoltori: «Ma che cosa hanno piacere di sentirsi dire?».
Restare chiusi, così, nel cerchio magico della compiacenza, si rivela malsano. Fondamentale si scopre il confronto con l’alterità, con chi è differente o porta un altro sguardo. Darà un punto di vista diverso. Questo sì che stimola, interpella e fa crescere. Semmai, nelle vostre stesse convinzioni. Perché, «se qualcuno vuole aiutarvi – ricordava un mio vecchio professore – e vi trovate in un pozzo, non dovrà cadervi anche lui, per piangere insieme,… Dovrà restarne fuori, ai bordi, per potervi tirare su».
Elementare: essere altro. In fondo, in termini medici e seguendo l’attualità, è il lavoro di un vaccino: inoculandovi nel corpo l’alterità di un morbo, vi stimola a produrre energie nuove per affrontare qualsiasi situazione.
Dentro la logica dell’identità
Restare nella logica dell’identità, di un mondo conosciuto, di persone o di un universo di cui ci si sente conoscitori perfetti, ci rende più sicuri. Ci rassicura. Ci solidifica. Ma non ci farà avanzare…
Sarà l’altro e la sua alterità che ci stimolerà ad uscire da noi stessi, dal nostro mondo. Come per la signora Roberta, ex insegnante elementare, del quartiere Sant’Antonio di Rovigo.
I suoi punti di interesse sono tre: la Chiesa (sempre meno), il negozio di alimentari e la sua casa. Nessuna variante. Vive chiusa con il marito, lui sempre davanti alla TV. Due sono i loro giovani figli, uno, organista in Svizzera, un altro da qualche anno negli Stati Uniti.
Le loro continue suppliche di mettersi in viaggio per vedere i nipotini sono sempre state vane. A volte, anzi, la senti maledire di aver avuto dei figli «perduti così lontano», nonostante le loro brevi apparizioni. Sì, hanno frantumato la «logica dell’identità». Il senso antico del nido. A differenza di lei, hanno sposato l’alterità.
La complessità fa parte della vita
Per l’incontro con l’altro, il differente, l’emigrazione ne è un esempio quotidiano, formidabile. Paradigmatico.
Mi sembra ancora di sentire nell’aria il prof. Verspieren a Friburgo martellarci in testa, un tempo: «fahren, erfahren». Per dire che in tedesco il termine «esperienza» (di una persona) deriva dalla radice «viaggiare», cioè dalla capacità di uscire dall’io, dal proprio habitat. Di incontrare un altro mondo.
Lo constato a Casablanca con i tantissimi giovani migranti subsahariani, che arrivano in parrocchia dopo un viaggio infinito e massacrante tra Mali, Algeria e Marocco. Perfino i tratti del loro volto sono cambiati: più duri, grintosi, energici. Hanno perso la dolcezza dell’adolescente. Diventati adulti troppo presto, per aver affrontato imprevisti, umiliazioni, violenze di ogni tipo. L’alterità del mondo con le sue imboscate li ha trasformati.
E sono tratti che ritrovi, in fondo, nell’esistenza di ogni emigrante, di colui che cambia contesto, e deve continuamente misurarsi con l’alterità. È l’animus di un combattente, catapultato in un altro universo. «Le anime più forti sono temprate dalla sofferenza – annotava saggiamente Kalil Gibran –, i caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici».
In fondo, l’alterità di un altro volto, di un’altra cultura, di un punto di vista diverso, ci ricorda che la complessità fa parte della vita. La differenza dell’altro è generatrice di senso. Rivela il valore che si possiede, arricchisce di quello che si incontra. «Se accetti di uscire dal recinto, accadono cose straordinarie…» commentava un giorno Piero Angela.
Renderà noi stessi differenti. Perché, «quando perdiamo il diritto di essere differenti – scrive giustamente Charles Evans Hugues –, perdiamo il privilegio di essere liberi».
Elogio della differenza
Caro Renato grazie delle parole espresse nel tuo articolo: bisogna avere coraggio, non conformarsi al pensiero di chi vive nel proprio guscio e non si occupa minimamente di chi ha intorno.