Il diaconato femminile: due cautele

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donne

In queste note vorrei offrire alcune riflessioni di natura teologica su due cautele che, a mio parere, si dovrebbero avere nel processo decisionale relativo alla possibile introduzione dell’ordinazione delle donne al diaconato permanente.

Anche se mi trovo tendenzialmente in sintonia con un’opzione del genere, mi pare che vi siano ancora delle questioni aperte di cui occorre essere ben consapevoli in questa fase del cammino ecclesiale, per evitare di fare scelte poco avvedute e molto divisive.

In che modo la Tradizione è normativa?

Una prima questione riguarda il problema teologico della Tradizione.

Com’è noto, la possibilità di ordinare le donne al diaconato permanente è stata propiziata da una serie di studi, anche recenti, nei quali si è mostrato come nell’antichità siano esistite delle diacone ordinate con l’imposizione delle mani.

Non possiamo affermare con certezza che questa prassi sia stata riconosciuta come legittima sempre e da tutte le Chiese locali, dal momento che le fonti molto antiche di cui disponiamo gettano luce solamente su ciò che è avvenuto in alcuni territori e per alcuni periodi. In ogni caso, è indubbio che le diacone siano esistite.

Nello stesso tempo, però, tali studi hanno evidenziato come il loro ministero non fosse analogo a quello maschile, ma fosse relativo esclusivamente al mondo femminile. Dunque, come è naturale che sia, lo studio dei documenti antichi non ci consegna dei dati dal significato inconfutabile, ma una serie di elementi che devono essere interpretati.

A prima vista, tale interpretazione pare un’operazione molto semplice. Oggi sembra evidente che la destinazione dell’antico ministero diaconale femminile alle sole donne sia stata motivata dalla mentalità patriarcale caratteristica dell’età patristica. Ciò non toglie, però, che, ai nostri giorni, il ripristino di quel ministero potrebbe avvenire solo in termini paritari rispetto a quello maschile, e quindi comporterebbe l’attivazione di una forma ministeriale che non è mai esistita nella Chiesa. La cosa è legittima?

Per rispondere a questa domanda, occorre chiarire, dal punto di vista teologico, in che modo la Tradizione sia normativa per la Chiesa. Si può introdurre solo ciò che è già stato presente in passato o ci sono dei margini di cambiamento o, addirittura, di creatività? In effetti, di fatto la Tradizione ha subìto molti sviluppi, talora anche discontinui, anche nella teologia del ministero ordinato.

La domanda, quindi, diventa come discernere la legittimità di un cambiamento della prassi antica. La questione non è banale. Possiamo, ad esempio, rinunciare all’episcopato, o utilizzare altri alimenti rispetto al pane e al vino nella celebrazione dell’eucaristia in nome della volontà dello Spirito? Ovviamente no.

Non serve a molto rimandare il problema al magistero, dal momento che il papa e gli altri vescovi svolgono il loro servizio di discernimento autorevole della volontà divina in modo assolutamente umano, confrontandosi con il senso di fede delle loro comunità e, in particolare, con quanto emerge dalla riflessione teologica che scelgono di frequentare. Anch’essi, insomma, hanno bisogno di capire in che modo la Tradizione è normativa, e fino a che punto si possono introdurre dei cambiamenti rispetto a quanto è avvenuto in passato.

Ora, a mio parere, la teologia cattolica contemporanea non è in grado di dare una risposta condivisa a questa domanda.

A complicare la questione, vi è la crescente incidenza di una visione teologica che definirei antropocentrica – non semplicemente antropologica –, secondo la quale, dal momento che l’umano è destinatario della rivelazione, ciò che emerge di genuino e di umanizzante da un contesto antropologico, ovvero da determinate istanze culturali, deve essere considerato espressione del volto del Dio di Gesù Cristo e del suo volere sulla sua Chiesa e sull’umanità.[1] Nel caso del diaconato femminile, il fatto che la parità tra uomo e donna sia un valore culturale sicuramente autentico e condiviso nelle società occidentali – almeno, in teoria –, fa sì che, secondo la visione in esame, l’ordinazione diaconale delle donne sia certamente legittimata.

In questa prospettiva, la domanda sul modo in cui la Tradizione è normativa per la vita della Chiesa perde di significato. Le idee e le prassi del passato diventano semplicemente un repertorio da cui attingere liberamente per costruire una Chiesa, anzi un cristianesimo, che si fa plasmare dalle istanze culturali. E, siccome le culture sono molteplici e differenti, questo approccio comporta inevitabilmente una frammentazione del tessuto ecclesiale e, alla lunga, una rottura della comunione tra le Chiese locali.

In realtà, se si assume questa fondazione antropocentrica della teologia, cioè determinata primariamente dalle istanze culturali, molti aspetti della dottrina della fede vengono compromessi. Ad esempio, la convinzione che il vescovo di Roma sia il successore di Pietro, e che, in quanto tale, possa esercitare il suo attuale ministero primaziale, non regge più. In fondo, nel Nuovo Testamento non si parla mai di un legame tra l’Apostolo e il papa, e i recenti studi hanno messo in evidenza come esso cominci ad essere formalizzato solo intorno al IV–V secolo.

Più ancora, sul piano culturale, un ruolo così autorevole come quello del pontefice non ha alcuna giustificazione. Nelle società liberali il potere è delegato dal popolo e ha sempre una durata prestabilita. Dunque, assumere le istanze culturali come espressione della rivelazione divina significa anche far cessare il ministero del vescovo di Roma così come si configura oggi, e instaurare nella Chiesa un regime democratico.

Insomma, chi si appropria indebitamente delle istanze di riforma giustamente invocate da papa Francesco per decostruire il valore normativo della Tradizione dovrebbe considerare che questo approccio compromette anche l’autorità dello stesso pontefice, che non ha altro fondamento teologico se non nella Tradizione stessa.

Dunque, la riflessione sul diaconato femminile non può essere determinata primariamente dalle istanze culturali, ma richiede una risposta previa alla domanda sul modo in cui la Tradizione sia normativa, cioè su come l’intera Chiesa, guidata dal papa e dagli altri vescovi, possa capire quali cambiamenti sia legittimo introdurre anche nella sua struttura ministeriale. Solo a quel punto si potrà eventualmente stabilire che la destinazione delle diacone dell’antichità al solo mondo femminile può essere superata, e offrire alle donne cattoliche di oggi un ministero diaconale con le stesse caratteristiche di quello maschile.

Al contrario, se un’opzione del genere fosse maturata semplicemente per corrispondere alle istanze culturali relative alla parità tra uomo e donna in base alla loro presunta normatività teologica, si fonderebbe l’ordinazione femminile in modo aleatorio e si alimenterebbe una mentalità estremamente pericolosa e potenzialmente divisiva per la teologia e la vita della Chiesa.

La riduzione del servizio diaconale a quello battesimale

Una seconda questione riguarda l’identità ministeriale del diaconato.

Da circa trent’anni, da quando ho iniziato ad occuparmi della formazione dei diaconi permanenti, cerco di divulgare la convinzione che il ministero diaconale non sia per il servizio tout court. Questa frase può apparire problematica, anche in considerazione dei recenti interventi magisteriali, ma ovviamente deve essere capita bene.

La teologia del diaconato dovrebbe prendere le mosse dalla premessa che il battesimo, completato dalla cresima e alimentato dall’eucaristia, è un fondamento sacramentale ampiamente sufficiente per il servizio all’interno della Chiesa, e anche per “svegliare” le comunità cristiane, ricordando ad esse la vocazione ad avvicinarsi ai lontani, a stare dalla parte degli ultimi, a promuovere una società più umana e a tutelare l’ambiente.

Al contrario, affermare che soltanto il diaconato abiliti ad un’operosità di questo genere significherebbe mettere in discussione la teologia del battesimo, e pure andare contro all’evidenza. In ogni comunità vi sono uomini e donne non ordinati che, per i loro carismi e il loro stile di vita, richiamano tutti all’attenzione ai poveri e alla cura del creato.

Se la logica ha ancora un valore nella Chiesa, occorre spiegare in che senso i diaconi abbiano il compito di “svegliare” le comunità, se di fatto anche altri credenti lo possono fare semplicemente in virtù del loro essere cristiani, a volte in modo migliore rispetto a chi è ordinato.

Questo problema non può essere risolto ridimensionando le capacità di servizio che derivano dal battesimo per valorizzare quelle diaconali. È molto più importante valorizzare la ministerialità di tutti i battezzati non ordinati che il diaconato permanente.

Si può, invece, ricorrere ad un’ecclesiologia di tipo platonico, affermando che il diacono è conformato al Cristo servo, e quindi richiama la comunità al servizio semplicemente per il fatto di essere ordinato, a prescindere da quello che effettivamente fa. Tuttavia, non viviamo più in un contesto culturale che possa dare un senso a un’ecclesiologia di questo tipo, per cui oggi una visione del genere risulterebbe incomprensibile.

Inoltre, il modo di impiegare i diaconi nelle parrocchie e nelle diocesi dimostra che il servizio della soglia, al di là delle proclamazioni teoriche, non è realmente al centro del loro ministero.

Diversi di loro dedicano la maggior parte del loro tempo a compiti che non hanno nulla a che vedere con la vicinanza al mondo della marginalità o dei lontani dalla fede. Ad esempio, dirigere un ufficio in curia, occuparsi di amministrazione, fare catechesi o lavorare nella pastorale familiare sono attività diverse da quelle caritative o di evangelizzazione di chi non è cristiano.

Infine, i diaconi normalmente hanno un’attività professionale che si svolge all’esterno dei confini ecclesiali, e fino alla loro pensione possono offrire una disponibilità di tempo molto più limitata di quella di altri soggetti ecclesiali, come i presbiteri, i religiosi e i volontari pensionati. Anche dopo la fine della loro attività lavorativa, poi, le difficoltà di salute o gli impegni familiari possono renderli meno disponibili al servizio rispetto ad altre figure ecclesiali, magari dedite a tempo pieno alla loro comunità.

La visione che potrebbe aggirare tutte queste criticità è quella di pensare il diaconato non in funzione del servizio ecclesiale tout court, ma come un ministero di leadership volto a guidare autorevolmente, in virtù del carisma ricevuto con l’ordinazione, dei gruppi di credenti, preferibilmente quelli che nelle comunità cristiane operano sulla soglia, cioè si occupano dei poveri, dei lontani e dell’ambiente.

In questo modo, il diacono diventa icona di Cristo servo non perché sia maggiormente al servizio degli altri, ma in quanto è la guida autorevole e il portavoce di quei battezzati che, per carisma personale, esprimono in modo più evidente l’estroversione della loro comunità ecclesiale.

Un servizio del genere, essendo una forma di leadership, può non richiedere molto tempo, anche se esige comunque una formazione teologica e pastorale ben superiore a quella attualmente richiesta nelle nostre Chiese locali ai candidati al ministero diaconale.

Ora, tutto questo è molto rilevante anche per il diaconato femminile. A mio parere, qualora papa Francesco decidesse di autorizzarlo, le probabili forti resistenze ad una leadership femminile nella Chiesa cattolica potrebbero spingere a livellare ancora di più il servizio diaconale su quello battesimale. Così sia i diaconi sia le diacone non avrebbero alcun ruolo autorevole, ma sarebbero semplicemente uomini e donne che si sono distinti per il loro servizio e che quindi sono stati premiati con l’ordinazione.

Questo pregiudicherebbe alla radice quell’auspicata riqualificazione della soggettualità femminile nella Chiesa cattolica che ci si attende dall’eventuale ordinazione delle diacone.

Questo rischio rende necessario riqualificare il diaconato maschile prima o durante il processo di discernimento sull’eventuale riattivazione del diaconato femminile, perché quest’ultimo non trascini anche il primo verso un ruolo ministeriale ancora più debole dell’attuale, sostanzialmente analogo a quello battesimale.

Questo sarebbe un disastro sul piano pastorale, anche perché renderebbe ancora più consolidata l’idea che il vero servizio ecclesiale suppone il diaconato, e che la ministerialità battesimale è qualcosa di informale e di incompleto.

In realtà, sono proprio i battezzati non ordinati la risorsa più abbondante e strategica di cui la Chiesa di ogni tempo dispone per svolgere la sua missione.


[1] Su questo punto, cf. M. Nardello, La normatività delle Scritture in alcune elaborazioni teologiche contemporanee (qui).

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25 Commenti

  1. Paolo Dargenio 12 maggio 2024
  2. Mingone da Bibbiano 11 maggio 2024
  3. Salvo Coco 11 maggio 2024
  4. diac. Antonio Fatigati 11 maggio 2024
  5. Adelmo li Cauzi 10 maggio 2024
  6. Gaetano 10 maggio 2024
  7. Francesco 10 maggio 2024
  8. Liliana 10 maggio 2024
    • Marco 10 maggio 2024
      • Liliana 14 maggio 2024
        • Giovanni Di Guglielmo 28 maggio 2024
  9. MarcoM 9 maggio 2024
    • Fabio 10 maggio 2024
      • MarcoM 10 maggio 2024
  10. Emanuele 9 maggio 2024
  11. Elio 9 maggio 2024
  12. Marco Crippa 9 maggio 2024
  13. Barbara 9 maggio 2024
  14. chiara 9 maggio 2024
  15. Mario D'ELIA 9 maggio 2024
  16. Mario D'ELIA 9 maggio 2024
  17. Mario D'ELIA 9 maggio 2024
  18. Carlo Uccella 9 maggio 2024
    • Diacono Ivo Ghiglione 10 maggio 2024
  19. Fabio Cittadini 9 maggio 2024

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