La comunità dei discepoli di Gesù, la Chiesa, vive questo tempo e percepisce di trovarsi in una situazione inedita, «un’epoca nella quale il vangelo si rivolge a una società istituzionalmente non-religiosa. Congiuntura sino a questo momento mai apparsa sulla faccia della terra. L’appello è a una creatività che, sostanzialmente, non ha precedenti».[1] Tutti ormai ci siamo accorti che oggi prevale «una distinzione che non potrebbe essere più netta fra ciò che è oggetto del “sapere”, del resto sotto tutte le sue forme, e ciò che attiene alla “fede”».[2]
Pensare Dio in modo positivo non senza la “verità”
Pensare Dio implica trarre profitto da questa situazione in modo che la fede in Dio appaia sotto una nuova luce, mai così percepita nelle epoche precedenti. Questo, però, suppone che non si passi sotto silenzio la questione della “verità”: il silenzio su di essa non può significare la scomparsa della questione della verità o la sua limitazione agli ambiti scientifici e socio-politici.
Il compito inedito, oggi, è di affrontare questa difficoltà di fondo e attraversarla nell’atto stesso di pensare oggi la fede in Dio.
L’esperienza della fede non può accontentarsi di essere un’“opinione”, perché riguarda la verità e la verità delle proprie persuasioni intime: la verità di uno stile di vita esige una ricerca della verità e così anche la qualità delle relazioni che possono sostenere l’esistenza personale e la storia di una comunità. Lo Spirito e la forza che ci consentono di non arretrare, onorando il Figlio, che non cedette al nichilismo dell’autoesaltazione del bene fatto e del bene voluto, sono la grazia del donare tutto, anche il proprio sangue.
Trattare anche la fede come “oggetto” del pensiero anaffettivo porta solo al silenzio di Dio. Tante volte nella sacra Scrittura Dio fa silenzio, ma questo silenzio non è uguale o compatibile con quello che il pensiero impone all’oggetto dio. Dio fa silenzio con un’intenzione e con l’attesa di poter di nuovo rivolgersi all’uomo con quello che è, amore.
La relazione che Dio stabilisce, dunque, non è con un “oggetto” del suo pensiero, ma con l’uomo libero, nel quale il pensare sorge dalla profondità dell’affezione e come tale matura in noi per far essere affezione.
Le composizioni narrative e la verità
La ripresa della lingua materna vuol essere una verifica sulla competenza e le affezioni che orientano il percorso, in modo del tutto particolare fra la lingua biblica che attesta la rivelazione e la Parola di Dio di cui vive la fede.
La verifica mi porta a rilanciare e a «ricuperare il grembo materno dell’iniziazione linguistica alla Parola di Dio attestata nel canone ispirato delle Scritture sacre. Questa iniziazione non può essere risolta nell’approccio analitico dei testi e nell’intelligenza lineare dei significati. […] Una lingua materna, intesa come habitat vitale e non semplicemente come instrumentum intellettuale, fa proprio questo».[3]
Dio, poi, si aspetta «di essere raccontato, per poter essere pensato come ha da essere».[4]
La ripresa critica, però, riguarda anche le parole della fede raccontata, per le quali vale la regola d’oro della testimonianza: essa ha due stichi, «Gesù è il Signore. E non sono io[5]». Il secondo stico crea una distanza, dal primo stico, Gesù è il Signore. Tale frammezzo permette di vigilare sull’invadenza dell’io, fino al punto di sostituire il primo stico.
D’altra parte, è stato un po’ inevitabile l’eccesso di parole dell’io in ogni cristianesimo e nella stessa cultura secolare, la quale ha continuato ad applicare nel proprio tempo il “raccontato e il pensato” dai cristiani dei secoli precedenti e, in questi ultimi tempi, tutti quei tentativi che hanno sovrapposto il secondo stico, l’“io”, con il primo, “Gesù è il Signore”.
La Bibbia dispone di un referente normativo di questa inevitabile vulnerabilità, la ripresa del canone biblico: essa consente di verificare e di rimanere in tale canone.
Regolare la comunicazione della testimonianza
Una seconda possibilità per correggere quella vulnerabilità è quello di regolare la comunicazione con cui si trasmettono le parole della testimonianza, «Gesù è il Signore. E non sono io». Essa introduce una tensione ironica tra i due stichi, che consente alla testimonianza di essere “ri-scritta”, narrata di nuovo.[6] «Attraverso la sua inquietudine tensionale l’ironia fa entrare la realtà in un processo di trasformazione, facendola passare dall’essere realtà data al poter essere realtà, dicendo in questo modo qualcosa di nuovo sulla realtà stessa. […] In questa prospettiva nasce l’orizzonte poetico, intendendo non tanto il produrre dei versi o della prosa, quanto l’esperienza del venir creati dal linguaggio».[7]
L’ironia evangelica può creare qualche disagio in questo mondo. Esiste l’ironia delle giovani generazioni, che si spingono a trattare con distacco i nonni, per le loro conoscenze e per le convinzioni obsolete.
Una certa cultura, poi, narra la religione come storia dei tentativi che l’uomo introduce per sottrarsi all’angoscia della morte, della finitezza. E poi sorride ironicamente, e con finta umiltà di questa ingenuità.
Esiste anche un uso dell’ironia come un alleggerimento delle norme e della trasgressione: purché sia auto-ironica, giocosa, pronta a evitare di prendersi troppo sul serio.
L’ironia evangelica è tutt’altro: sta tutta in Gesù e si mostra nel comportamento che assume nella passione. «Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!”. Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito» (Mc 15,4-5). Gesù non si difende, non dice nulla: in questo modo protegge la sua dignità e, dall’altro, lascia smarriti Pilato e ancora prima Caifa che aspiravano ad essere padreterni. Gesù va verso la sorte del “servo di JHWH”.
L’abbassamento, oltre la regolazione letteraria
Quando le relazioni sembrano incorreggibili non può essere sufficiente nemmeno una regolazione letteraria dell’ironia, occorrerà piuttosto prendere su di sé le situazioni limite dell’intersoggettività umana, compreso l’eventuale rifiuto di comunicare. Questo porta a identificare la “verità” in definitiva con un modo di comunicare con l’altro; un modo che il Nuovo Testamento, in particolare l’apostolo Paolo, riconosce a Gesù, alla sua Passione.
Questa prospettiva suppone non solo che il soggetto mantenga fino in fondo la coerenza con sé stesso e attivi la sua capacità paradossale di mettersi al posto dell’altro senza mai lasciare il proprio posto; ma essa implica anche e soprattutto che, precisamente nelle situazioni limite delle relazioni, si scelga la via dell’abbassamento kenotico del “servo di JHWH” (Fil 2,5-8).
La testimonianza evangelica ci aspetta qui, non di sicuro per ricostruire il tempio allo scopo di custodire e confermare la sopravvivenza dei devoti: a una umanità avvilita occorre la speranza del riscatto che il Regno di Dio promette. «In questi decenni non abbiamo forse cercato di compensare la scarsa creatività della lieta semina della fede con l’eccitazione di infiniti progetti di riforma dell’istituzione? Intanto, molti fratelli e sorelle, in molte parti del mondo, patiscono un “Venerdì Santo” che a noi è risparmiato. Dobbiamo alleggerire la loro prova, più che cercare di sottrarci alla nostra».[8]
[1] P. Sequeri, “Interlocutori creativi della Parola”, in “La rivista del clero italiano”, n. 1, 2022, p. 19.
[2] C. Theobald, “I racconti di Dio”, EDB, 2015, p. 12.
[3] P. Sequeri, “Interlocutori creativi della Parola”, Op. Cit., p. 12.
[4] P. Sequeri, “Il grembo di Dio”, Città Nuova, 2023, p. 130.
[5] P. Sequeri, “Interlocutori creativi della Parola”, Op. Cit., p. 16.
[6] A proposito di “ri-scrittura”, Piero Boitani così scriveva: «La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita»: “Prima lezione sulla letteratura”, Laterza, Roma-Bari 2007, p. xii.
[7] S. Gaburro, “L’ironia, «voce di sottile silenzio»”, San Paolo, 2013, pp. 56-57.
[8] P. Sequeri, “Avvenire”, venerdì 29 marzo.
La Chiesa è dilaniata dalla vanagloria dei propri fedeli: vescovi, preti e laici, tanto che la fraternità laicale sembra una scoperta dell’attuale clima sinodale, mentre quella presbiterale è da una ventina d’anni sostituita dal mors tua vita mea.
Grazie per la affermazione:
La fede va ancorata all’amore per aprire vie di fraternità e di prossimità non ancora esplorate.
Solo così si possono illuminare tante problematiche di oggi! Ma pultroppo non è questo principio che anima tante cose ecclesiali!
Oggi bisognerebbe tentare di non legare troppo la fede alla verità per evitare quell’ intellettualismo/dottrinalismo in cui la fede per secoli ha preso dimota. Così fede = verità da sapere. La fede va ancorata all’amore per aprire vie di fraternità e di prossimità non ancora esplorate. Una lettura della lettera “A Diogneto” aiuterebbe!