Politica: agire per il bene possibile

di:

bene-possibile11

Uno dei luoghi comuni quando si inizia a spiegare la storia del pensiero politico è affermare che la riflessione antica e medievale sulla politica era principalmente di natura religiosa e morale, mentre l’innovazione avvenuta grazie a Niccolò Machiavelli e ai suoi posteri consiste nella scoperta riflessiva della pragmatica della politica, cioè delle leggi che regolano l’uso del potere, indipendentemente dalla sua dimensione etica e teologica.

Questa sorta di semplificazione ha qualche fondamento in quanto è vero che la letteratura antica e medievale sulla cosa pubblica gravita intorno a un paradigma prevalentemente teologico, che relativizza la comunità politica rispetto a un insieme di assoluti che la sostengono e la legittimano.

Allo stesso modo, non è un segreto che la modernità emerga proprio come una ricerca di emancipazione dalle credenze religiose o dalle realtà metafisiche che, tra l’altro, sostengono i fondamenti etici della vita personale e dello Stato.

Tuttavia, un esame più attento sia delle teorie politiche moderne sia delle realizzazioni concrete del potere a partire dal XVI secolo ci permette di apprezzare i limiti di questa semplificazione. Da un lato, la filosofia politica moderna ha un enorme debito nei confronti del pensiero cristiano medievale. È impossibile comprendere lo Stato, il liberalismo, i diritti soggettivi o l’idea di sovranità nella modernità senza studiare Tommaso d’Aquino, Scoto o Ockham.[1] D’altra parte, la stessa modernità, nella misura in cui ha cercato di raggiungere la propria emancipazione e autonomia, ha affermato un’etica e una teologia peculiari, almeno implicitamente.

Nella modernità la fede è privatizzata, il liberalismo individualista è giustificato eticamente e la Chiesa è posta sotto il controllo dello Stato. Tutto questo cambiamento tematico ha un modo di intendere i fondamenti della vita morale e il ruolo della religione. Ad esempio, Kant parlerà di mantenere la religione entro i limiti della ragione.[2] Per queste e altre argomentazioni, siamo del parere che tutta la modernità poggi su una grande ipotesi etica e teologica, e questo è vero anche se ad alcuni autori può risultare più o meno indigesto riconoscere che il cogito cartesiano, la ragion pura di Kant, la teoria del potere di Machiavelli o la sovranità di Hobbes – ad esempio – hanno precisi presupposti teologici e morali.[3]

Ogni decisione politica possiede un’assiologia implicita

La teoria politica e l’azione che ne deriva non sono né assiologicamente né teologicamente neutre. Ancor meno lo sono ora che, nel momento postmoderno, i processi di re-incantamento del mondo e il risorgere di diversi sentimenti morali sono all’ordine del giorno.[4]

In particolare, l’azione politica, al di là delle banalizzazioni, è un luogo di verifica dell’interrelazione tra gli esseri umani e i loro referenti normativi. Con questo non intendo dire che l’azione politica “dovrebbe essere” così. Anzi, per la sua natura etica (ricerca del bene comune) e per la sua forza originaria (il potere) lo è sempre: sintesi unica di libertà e aspirazione ideale, di autonomia e riferimento costitutivo a un valore che mi obbliga, e, come abbiamo accennato, momento vitale in cui il senso definitivo dell’esistenza si interseca con le decisioni più contingenti, dotandole di senso e di una certa illuminazione e tensione.

Ciò avviene sia nella realizzazione virtuosa dell’attività politica, sia nei momenti più biechi di essa. Anche in questi ultimi, l’esercizio del potere farà riferimento alla scelta fatta e al valore abbandonato, la coscienza si attiverà, anche se in modo carente, e dirà con la sua singolare voce interiore che le cose, forse, “avrebbero dovuto” andare diversamente.

Queste osservazioni ci permettono di vedere che l’azione politica, al di là delle teorie, è costitutivamente morale. Potremmo anche dire che è essenzialmente teologica, ma per il momento non seguiremo questa strada. In ogni azione politica la persona è combattuta tra diverse opzioni, tra diversi modi di risolvere lo stesso problema, tra valori contrastanti: alcuni invitano a procedere in una certa direzione e altri in un’altra.

Lo stesso Niccolò Machiavelli, nelle sue meditazioni sul potere, si troverà in più di un’occasione immerso nella sana tensione tra coscienza e potere: come deve agire il Principe? Deve incutere rispetto o paura? Deve attaccare tutti i suoi nemici o solo uno? È auspicabile stringere patti con chi non la pensa come noi o è preferibile procedere solo con chi la pensa come noi?

Fin dall’antichità, queste e altre domande sono state presenti nella mente di coloro che agiscono in politica. Da un lato, c’è il desiderio di ottenere qualcosa, un certo bene che si ritiene vantaggioso per la comunità; dall’altro, ci sono le esigenze del contesto, la limitata capacità umana di risolvere i problemi e la meschinità che tutti conosciamo.

Man mano che le società sono diventate più complesse, anche gli scenari in cui opera il politico assumono un profilo più difficile da dipanare. I fenomeni politici sono oggi spesso molto ibridi e multi-causali: un processo elettorale, l’emergere di un movimento popolare, un certo dibattito legislativo. Normalmente si tende a cercare di semplificarli: a cercare un unico colpevole, un’idea che spieghi tutto, a ridurre il diverso e il molteplice in un’unità che renda la questione più accessibile – anche se, con questo, si perdono le sfumature e, con esse, la realtà delle cose.

Questa tendenza riduzionista è quasi impossibile da evitare. Tuttavia, deve essere contrastata. Cedere a essa ci porta talvolta a giudizi massimalisti: o bianco o nero. E, se ci abituiamo a questo modo di pensare, si arriva a visioni ideologiche della realtà che finiscono per sostituirla o violarla. Inoltre, se siamo disattenti, alla fine dell’avventura ci troveremo “fuori gioco”, cioè fuori dalla scena politica in cui viviamo e agiamo.

L’azione politica e la necessità di costruire ponti

La maturità umana nella comprensione della politica consiste, in larga misura, nel fare gradualmente delle sfumature. Non tutto è nero e non tutto è bianco, anche se ci sono neri e bianchi.

Maturare in politica significa spesso scoprire come, nello scenario più complesso, con l’avversario più abietto, sia necessario recuperare per quanto possibile un po’ della verità, del bene e della giustizia che l’altro possiede per costruire un ponte, per ridurre l’amarezza, per trovare una soluzione politicamente praticabile e non solo auspicabile in termini morali.

Nel mio Paese, il Messico, corriamo il rischio di cadere in ideologie riduttive. In alcuni settori tendiamo a privilegiare posizioni massimaliste, basate sul “tutto o niente”, senza considerare che, a volte, queste posizioni rendono impossibile la realizzazione, per quanto modesta, del bene a cui aspiriamo. Basta una certa discrepanza, rilevando una differenza di valutazione nell’altro, perché la tenuissima unità raggiunta si indebolisca e, talvolta, venga smarrita.

Tuttavia, in politica è necessario realizzare le cose nella pratica, costruire ponti, unire i diversi. L’azione politica molto raramente consiste nello sconfiggere l’avversario attraverso un gioco di potere; invece, in molti, casi le circostanze ci invitano a lavorare insieme a lui, perché cercare di sconfiggerlo completamente, di estinguerlo, di annullarlo, è ingenuo.

Penso al lavoro legislativo, in cui il politico umanista è spesso in minoranza e deve prendere posizione su una questione delicata e controversa, magari su un’oggettiva aberrazione morale, giuridica o politica. L’essere in minoranza impedisce al politico di raggiungere l’ideale a cui aspira. Alimentato da ragioni e passioni, gli passa per la testa la possibilità di immolarsi: la battaglia per l’ideale va combattuta, anche se, nel tentativo, si perde tutto.  Il tono eroico del gesto da compiere motiva, in certi scenari, ancora di più: “la causa vale la pena”. Tuttavia, a volte, in questa prospettiva, si annulla la possibilità di mitigare in qualche misura il male. Il gioco del “tutto o niente” ci porta, come minoranza, proprio al “niente”.

Il “male minore”

È quindi importante chiedersi: cosa deve agire un’umanista in scenari politici complessi? È necessario annunciare una ritirata o immolarsi quando l’ideale che cerchiamo non è realizzabile? Quali sono le alternative, se sappiamo che l’ideale non è politicamente realizzabile?

Un’opzione che viene subito in mente è quella di optare per il “male minore”. L’espressione “male minore” si inserisce facilmente nell’argomentazione politica come se il suo significato e la sua giustificazione etica fossero legittimati o evidenti. L’argomento del “male minore” si presenta più o meno così: ci sono due scenari. In uno, si prospetta un possibile grave danno al bene comune, alla giustizia sociale, al pieno riconoscimento dei diritti umani fondamentali o alla sicurezza della nazione. Nell’altro, si sostiene che, per sventare tale grave danno, si possono intraprendere azioni sostanziali che impediscano che ciò accada, anche se alcuni valori fondamentali devono essere compromessi.

La forza dell’argomentazione è solitamente ottenuta drammatizzando le circostanze, cioè descrivendo in modo eloquente che esiste un imperativo morale nel fare il male minore per evitare il male maggiore. Si è obbligati ad assistere al compimento di un grande male o a cercare di evitarlo optando per un’azione cattiva come mezzo.

Anche se, forse, non è necessario sottolinearlo, si noti che lo scenario del “male minore” in senso stretto non sta nella scelta tra “fare deliberatamente un male maggiore” o un “male minore”, ma tra “lasciare che un male maggiore accada” e uno sforzo volontario per evitarlo basato sull’attuazione di un certo “male minore” che, come mezzo, vanifica il primo.

Un altro elemento che spesso accompagna questo approccio è la situazione della coscienza, caratterizzata da una certa perplessità. Per dirla in termini colloquiali, la coscienza è immersa in un “vicolo cieco”, o più precisamente, la coscienza ha una “uscita” scomoda, estremamente scomoda, ma apparentemente necessaria, in cui non è possibile fare il bene.

Immaginiamo una situazione fittizia e un po’ caricaturale: c’è un grave conflitto tra due nazioni sovrane. Una minaccia di invadere l’altra. Ma c’è una persona in possesso di informazioni rilevanti che potrebbero essere utilizzate per impedire l’invasione. Il Paese più debole ha la possibilità di catturare questa persona ed estrarre le informazioni solo attraverso la tortura. In caso contrario, l’intero Paese potrebbe essere coinvolto in un’aggressione che comporterebbe il controllo politico, la perdita della sovranità e forse numerosi morti. Per questo motivo, sembra giustificabile procedere alla cattura e alla tortura della persona in questione per evitare un grave disastro.

Nel discernere questa linea d’azione, alcuni potrebbero argomentare a favore di essa facendo un’analogia: nella pratica medica, in particolare quando è necessario un intervento chirurgico, si danneggiano i tessuti sani per accedere all’area malata – ad esempio, il tumore da rimuovere. Questa azione è morale anche quando viene attuata come “mezzo” per tagliare tessuti e strutture sane che devono essere mutilate per raggiungere il fine desiderato e creare così le condizioni oggettive per il recupero della salute.

Vista in questa luce, sembrerebbe che la dottrina del “male minore” non sia un ideale di condotta, ma un rimedio necessario in determinate condizioni.

Il problema del “male minore”

Uno sguardo attento alla dottrina del “male minore”, tuttavia, ne rivela la debolezza e le possibili insidie.

Innanzitutto, sapere che verrà commesso un possibile “male maggiore” non ci rende interamente responsabili di esso, come se fossimo noi gli agenti che lo causano in senso proprio. Pertanto, la prima osservazione è quella di riconoscere pienamente che, nella situazione descritta, il “male maggiore”, sia nel suo scopo che nei suoi mezzi, non è né voluto né procurato da noi. Tuttavia, in alcune occasioni, la nostra omissione può facilitare la realizzazione del male maggiore e quindi bisogna cercare un modo intelligente per combatterlo o almeno attenuarlo, in qualche misura.

In secondo luogo, il “male minore”, cioè l’uso consapevole e libero di mezzi cattivi – come la tortura – per prevenire un danno grave, ci permette di vedere che ciò che si sta ottenendo è un fine buono attraverso mezzi cattivi.

Quando un fine buono è ottenuto con mezzi cattivi, l’azione umana è corrotta e illegittima. Questo non accade a causa di una certa convinzione religiosa o di un certo moralismo culturale, ma perché la struttura metafisica dell’azione richiede che, per avere un’azione buona, anche le sue cause originarie devono essere buone.

Tommaso d’Aquino diceva a questo proposito: bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu, cioè non esiste un’azione completamente buona se non concorrono tutte le bontà, perché ogni singolo difetto causa un male. Un’azione è moralmente buona solo quando ciò che si fa è buono, l’intenzione con cui si fa è buona e i mezzi necessari per compierla sono anch’essi buoni; d’altra parte, la carenza di una sola delle cause è sufficiente a rendere cattiva un’azione.[5] E nessuno è moralmente obbligato a fare il male. Il male morale non obbliga.

Ma l’esempio medico riportato sopra non è forse una valida eccezione? Qualcuno potrebbe pensare che, a volte, è necessario causare un certo danno per evitare un danno maggiore… Nell’analogia fatta attraverso un esempio chirurgico, è importante distinguere che i beni in gioco non sono beni morali ma beni fisici. Pertanto, il danno causato dal bisturi in mano al chirurgo è un danno fisico, non morale.

Il “male fisico” consiste nel non godere di un bene a causa della nostra condizione corporea, ad esempio, non avere una gamba. Il “male morale” è l’assenza della dovuta perfezione nell’azione cosciente e libera, ad esempio il non adempimento di un obbligo morale. Optare per il “male minore” quando si ha a che fare con mali fisici è perfettamente legittimo. Non è così quando si affronta il fatto che il valore in gioco è il bene morale.

La tortura comporta un danno all’integrità fisica, ma la sua natura profonda consiste nel procurare dolore e paura insopportabili per spezzare la libera volontà. L’azione della tortura consiste nel maltrattare il corpo, non come risorsa terapeutica ma come mezzo per spezzare lo spirito. L’obiettivo è qualcosa di moralmente sbagliato in sé: esercitare una pressione sull’altro in modo tale che, senza consenso volontario, si ottenga un certo risultato attraverso l’inflizione deliberata e intenzionale di dolore sul corpo.

In questo caso, non si tratta solo di ottenere informazioni, ma anche di danneggiare la persona, di ferire la sua dignità. Pertanto, entrambi i casi – quello della chirurgia e quello della tortura – hanno solo una somiglianza estrinseca.

Il “male minore” inteso come male morale che si compie consapevolmente e liberamente, sia come fine che come mezzo, è sempre un’azione malvagia, non è giustificabile razionalmente e può essere sostenuta solo censurando aspetti della realtà che si impongono come obbligatori di fronte alla ragione pratica.

Optare per il bene possibile

Agire sulla base del “male minore” è quindi possibile solo quando sono in gioco “mali fisici” e non “mali morali”. Cosa ci resta se escludiamo di agire per il “male minore”? Ci rimane una grande sfida alla nostra creatività e inventiva: optare per il bene possibile.

La nozione di “bene possibile” si basa sui seguenti presupposti:

  • Intendere come buona la norma morale che funge da regola guida per l’esercizio della libertà.
  • Evitare l’autoinganno sostenendo tacitamente o implicitamente che il fine giustifica i mezzi.
  • Affermare il bene come fine e il bene nei mezzi anche in una situazione politica complessa.
  • Prendere coscienza della natura e della complessità del contesto politico per vedere quali margini ci possono essere per affermare il bene, anche se in modo modesto.
  • Comprendere chiaramente che il modo in cui la norma si realizza nell’azione politica concreta non nasce da una deduzione sillogistica, ma da un atto prudenziale conforme al contesto e alle stime umane che si possono fare nella sfera pratica.
  • Seguire la nostra retta coscienza, cioè non mentire a noi stessi.

Si pensi, ad esempio, alla discussione parlamentare su una legge che regola la riproduzione umana assistita. A volte, un divieto totale della fecondazione in vitro non è politicamente fattibile.  Tuttavia, dopo aver chiarito la propria posizione nel dibattito pubblico, è necessario cercare di limitare il più possibile gli effetti nocivi di una legge che permetta questo tipo di tecnica, in cui spesso gli embrioni umani vengono sacrificati o messi in crioconservazione.  In questo modo, il politico umanista cerca il bene possibile e, valutando prudentemente la fattibilità politica della propria azione, costruisce un’iniziativa che riduce il numero di embrioni o vota a favore di un progetto già esistente in questo senso, anche se purtroppo la soluzione non è ideale.

Quando l’azione politica ha a che fare con situazioni in cui sono in gioco principi morali fondamentali, che non ammettono eccezioni, è sempre importante:

a) descrivere e interpretare bene lo scenario politico;

b) studiare bene l’argomentazione razionale della norma morale coinvolta;

c) costruire scenari che indichino diverse vie di soluzione e poi, fatto questo, optare per quella che sembra realizzare meglio il bene possibile nel complesso contesto che si sta affrontando.

In quest’ultimo passaggio, è necessario prestare molta attenzione sia alle esigenze del bene sia alla possibilità pratico-politica di realizzarlo. Concentrarsi unilateralmente sulle esigenze etiche trascurando la fattibilità politica spesso porta a perdere tutto. Allo stesso modo, concentrarsi sulla fattibilità politica trascurando i requisiti etici del valore in questione porta facilmente a una posizione utilitaristica che subordina la norma morale agli equilibri di potere.

Scoprire la strada verso il bene possibile implica creatività e prudenza, discernimento dinamico a ogni passo e realismo politico. Non è facile procedere in questo modo. Tuttavia, è l’unico modo per aprire porte insospettate e costruire soluzioni orientate al bene comune.

Fare del bene non è mai sterile

Meditando su queste cose, mi viene in mente con grande affetto Giovanni Paolo II. Nel suo insegnamento compaiono continuamente norme morali importanti: rispettare sempre la persona come fine e non usarla mai come mezzo; essere corresponsabili di tutti; godere della sessualità nel quadro di un amore umano autentico, fedele e responsabile, e così via. Questo papa, così sensibile a tali valori, era anche un uomo d’azione, che procedeva lentamente, a volte rinviando il tentativo di raggiungere un successo totale a breve termine per consolidare il cammino, passo dopo passo, verso il futuro. Sia nelle questioni intra-ecclesiali che nelle grandi azioni riguardanti il nuovo ordine politico internazionale, Giovanni Paolo II è stato un grande maestro.

All’inizio della sua enciclica Centesimus annus, ci dice qualcosa che forse può ispirarci proprio sul tema in questione: “La feconda attività di milioni e milioni di uomini e donne che, su sollecitazione del magistero sociale, hanno cercato di ispirarsi a esso per il proprio impegno nel mondo, fa anch’essa parte di quelle cose che, inserite nella Tradizione, diventano antiche, offrendo così occasioni e materiale per l’arricchimento della Tradizione e della vita di fede. Agendo individualmente o coordinati in gruppi, associazioni e organizzazioni, essi hanno costituito un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità che, nelle alterne vicende della storia, ha contribuito a costruire una società più giusta o, almeno, a porre barriere e limiti all’ingiustizia”.[6]

A volte l’azione politica umanista ottiene grandi trionfi affermando qualche valore, qualche bene che merita di essere protetto o promosso. Altre volte, questo non è possibile, eppure si deve agire per limitare il male. Queste azioni apparentemente poco attraenti sono importanti perché, da un lato, impediscono il male o l’ingiustizia che sembra voler prendere piede. Ma rafforzano anche l’ethos qualitativo del popolo, che richiede azioni buone, anche se sono modeste e non raggiungono l’efficacia politica desiderata.

Fare del bene non è mai sterile. Esiste una dimensione metafisica del bene che trascende di gran lunga i risultati pratici e le conseguenze visibili. D’altra parte, le eventuali sconfitte nel tentativo di fare il bene non sono mai del tutto sconfitte. Il bene affermato con coraggio, a volte in modo molto modesto, sconfigge il male a livello qualitativo, anche se quantitativamente sembra il contrario.

Il bene più piccolo realizzato giustamente e con valore, ha maggiore consistenza e bellezza ontologica dei suoi anti-valori. Parafrasando un umanista cristiano del 1927, esiste una democrazia che non è fatta di voti quantificabili, ma di eroiche buone azioni.

Questa democrazia, in cui la vita stessa diventa un voto, spesso non è apprezzata o valorizzata, ma a medio e lungo termine è quella che salva le nazioni e offre loro un cammino verso un futuro di speranza.[7]

Pubblicato nel quadro della cooperazione con la rivista venezuelana Revista SIC (originale spagnolo, qui). Rodrigo Guerra Lopez è dottore in Filosofia presso l’Accademia Internazionale di Filosofia del Principato del Liechtenstein; membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita; fondatore del Centro di Ricerca Sociale Avanzata (www.cisav.mx); Segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina. E-mail: rodrigoguerra@mac.com.


[1] Cf. A. DE MURALT, La estructura de la filosofía política moderna. Sus orígenes medievales en Escoto, Ockham y Suárez, Ed. Istmo, Madrid 2002.

[2] Cf. I. KANT, La religión dentro de los límites de la mera razón, Alianza, Madrid 1986.

[3] Cf. E. VOEGELIN, La nueva ciencia de la política, Katz, Bs. As. 2006; J. MILBANK Teología y teoría social. Más allá de la razón secular, Herder, Barcelona 2004.

[4] G. LIPOVETSKY, El crepúsculo del deber: la ética indolora de los nuevos tiempos democráticos, Anagrama, Barcelona 2002.

[5] Cf. TOMÁS DE AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q.18, a.4, ad 3.

[6] JUAN PABLO II, Centesimus annus, n. 3.

[7] Cf. ANACLETO GONZÁLEZ FLORES, El plebiscito de los mártires,  s.e., México 1930.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto