Don Domenico Arioli è presbitero della diocesi di Lodi. Dal 2002 al 2020, da fidei donum, è stato missionario in Niger, a lungo nella parrocchia di Dossò, poi nella parrocchia di Gaya, nei pressi della frontiera col Benin, mentre l’ultimo anno di missione l’ha passato nella capitale Niamey. Gli abbiamo posto alcune domande sulla situazione nel Paese africano, a poco meno di un anno dal colpo di stato militare e mentre circola la notizia che miliziani russi si stanno insediando nella stessa base militare aerea da cui se ne stanno andando i militari americani.
- Domenico, sei rimasto in collegamento con le persone che hai conosciuto in Niger?
Sono in collegamento con qualche religioso e prete, ma soprattutto con laici e laiche che ho ben conosciuto e frequentato nella missione. Comunichiamo tramite WhatsApp. Avendo visto crescere loro e i loro figli, non me la sono sentita di abbandonarle, conoscendo le difficoltà che stanno tutt’ora affrontando dopo il colpo di stato che ha portato alla rottura con la ex potenza coloniale (e con gli USA) e all’avvicinamento del Niger alla Russia.
Ora sto cercando di costituire una associazione di volontariato (Kubeyni) per poter raccogliere i fondi necessari per sostenere il cammino di queste persone, soprattutto bambini e bambine con particolari difficoltà. Il Niger, infatti, ha il triste primato di essere il Paese più povero al mondo, nonostante abbia immense ricchezze nel sottosuolo.
La prima conseguenza della povertà è la malnutrizione, causa a sua volta di una maggior esposizione alle malattie; nei bambini causa l’abbassamento delle facoltà intellettive.
La maggioranza delle famiglie si scontra con l’impossibilità di accedere alle cure sanitarie a pagamento, possibili ai funzionari statali e alla classe medio alta dei commercianti. Lo stesso dicasi per la scuola. Il 50% della popolazione – venticinque milioni – ha meno di 15 anni. Il Niger ha il tasso demografico più alto al mondo: ogni donna ha mediamente 7,5 figli. Mentre la scuola pubblica non funziona: l’80% dei bambini esce dalla scuola primaria senza saper leggere e scrivere. In queste condizioni, il futuro della maggioranza è la miseria.
È per l’insieme di queste ragioni che non mi sento a posto, in coscienza, se non faccio nulla per questi fratelli e sorelle che il Signore mi ha fatto conoscere.
- Nella parrocchia di Dossò cosa hanno fatto i missionari italiani?
Nella nostra missione ci siamo innanzitutto dedicati alla comunità cristiana, che peraltro è abbastanza dinamica di suo. Allora, si trattava di famiglie provenienti dai paesi vicini.
Col passare degli anni, colpiti dagli scarsi livelli di istruzione, ci siamo impegnati ad offrire possibilità formative alle ragazze prive di diploma di base: abbiamo aperto una scuola di taglio e cucito in modo da toglierle dalla strada. In un secondo tempo abbiamo fatto partire la costruzione della Scuola Materna e della Scuola Elementare Santa Monica col contributo dall’8 per mille della nostra Conferenza episcopale. Rimaneva – e rimane ancora – la sfida di un Collège – un ciclo di studi equiparabile al nostro antico ginnasio – in grado di accompagnare, negli anni successivi, coloro che ottengono il diploma primario.
Terminata la costruzione della sede, avevamo le aule, avevamo gli insegnanti, ma mancavano gli studenti, perché i costi dell’iscrizione erano troppo elevati. Allora abbiamo deciso di accogliere coloro che, a causa della povertà famigliare, non avrebbero mai potuto iscriversi ad una scuola privata: far profittare gli alunni poveri ci sembrava la strada insegnataci dal vangelo. Così abbiamo fatto senza prevedere che avremmo trovato forti opposizioni: innanzitutto da parte del direttore generale delle Scuole della Missione, poi dello stesso vescovo di Niamey. Il loro timore era quello di non riuscire a garantire l’accoglienza dei poveri una volta che noi missionari fossimo rientrati in Italia. Era un timore comprensibile! La scuola materna-elementare c’è ancora. Conta circa 450 iscritti.
Oltre ai frequentanti di Scuola Santa Monica, c’è un gruppo di 25 bambini/e che frequentano altre scuole private della città. Per loro siamo riusciti a trovare persone generose che garantiscono la copertura delle borse di studio.
- Chi segue tuttora questi progetti di aiuto, sul posto?
C’è una signora – Marie – assistente sociale, divenuta il segno della carità della parrocchia St. Charles Lwanga. C’è un infermiere, Sany, “afferrato” dallo Spirito mentre faceva le abluzioni da buon musulmano: divenuto cristiano, si è licenziato dalla funzione pubblica per essere per essere libero di aiutare i poveri. Bisogna riconoscere che ci sono grandi testimonianze di fede da quelle parti, veri doni della Grazia!
- Cosa rende la situazione così difficile, dopo il colpo di stato?
Innanzitutto, la situazione sanitaria è peggiorata a causa dei blocchi alle frontiere che rendono più difficile l’approvvigionamento di medicinali. Alla presenza endemica della malaria, si è aggiunta l’infezione del virus Dengue, associata, recentemente, ad una epidemia di meningite diffusa ormai in tutte le regioni del paese: ha falcidiato tante, tante, famiglie e non si è ancora spenta; sta ancora contagiando tanti villaggi. Le speranze sono rivolte alle prime piogge. Si spera che vengano ridotti gli effetti delle sanzioni della Cedeao – la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale – sostanzialmente volute dalla Francia, che non hanno fatto cambiare idea ai militari protagonisti del colpo di stato, ma in compenso fanno soffrire enormemente una popolazione già provata. I prezzi degli alimenti base (miglio, riso, sorgo, mais) sono duplicati, mentre certi medicinali essenziali per alcune patologie – come, ad esempio, gli antiretrovirali per l’AIDS – si trovano ora solo al mercato nero, a prezzi altissimi.
- Cosa sa la gente di ciò che avviene a livello politico generale?
Nei primi anni trascorsi là, mi rendevo conto che la gente semplice non sapeva quasi nulla di ciò che avveniva: tutto era a loro nascosto, ma col tempo le cose cambiate. L’avvento del telefonino ha aumentato l’informazione di tutti, anche se in maniera frammentaria e inquinata dalla disinformazione.
La foto che è stata pubblicata anche da Settimananews (qui: SettimanaNews), scattata l’anno scorso a Niamey nella piazza antistante il palazzo dell’Assemblea Generale, è emblematica e non è una montatura. Si vedono tanti giovani manifestare a sostegno del golpe, con la bandiera del Niger e con la bandiera della Russia. A loro modo, quei giovani sapevano e sanno che il colpo di stato voleva, innanzi tutto, cacciare la Francia.
- Ma è vero che la Russia aiuta il Niger a liberarsi dai jihadisti?
Pare sia vero, anche se poi bisogna valutare i fatti. Chi sta dietro i jihadisti? Un video di circa un anno fa mostra un elicottero – di quelli bianchi in dotazione alle Nazioni Unite – scaricare zaini pieni di armi nel fitto della savana, ma per chi? Si suppone per i terroristi. D’altra parte, un alto funzionario francese ha detto apertamente, in una intervista alla televisione, che per la Francia è meglio non essere ufficialmente in Niger, perché così potrà operare più «liberamente» per destabilizzare il paese contro il nuovo governo.
Circa un anno e mezzo fa è stata attaccata una base militare nigerina per l’istruzione delle reclute verso la frontiera col Burkina Faso e il Mali. L’attacco ha ucciso quasi duecento giovani militari. Circa 400 jihadisti sono arrivati sulle moto ma sono stati preceduti da un aereo che ha fatto saltare in aria il deposito delle armi della base: solo la Francia possedeva aerei nella regione. La sera precedente all’attacco, due ufficiali francesi erano andati in ispezione nella base.
Cose simili accadono anche intorno al lago Ciad, dove ci sono i Boko Haram: dopo alcuni attacchi alle popolazioni, sono state rinvenute, dall’esercito nigerino e nigeriano, tante armi moderne di fabbricazione francese; in questo caso si sa con certezza della complicità – tra Stati Uniti e Francia – per il controllo del petrolio nell’area nigerina affidata alla Cina ed in quella nigeriana sotto il controllo del governo federale. Guarda caso il petrolio estratto nelle zone sotto il controllo di Boko Haram viene inviato in Camerun e poi spedito a Le Havre, in Francia.
Che dire di tutto questo? Queste cose la gente, bene o male, le conosce e ne parla, le dice. Ecco perché quella immagine con i giovani che contestano la Francia non dovrebbe destare meraviglia in Occidente.
- Qual è lo scopo della presenza occidentale nella regione saheliana?
Certamente è quello di poter accedere con facilità alle risorse del sottosuolo, che sono ambite da tutte le multinazionali, non solo occidentali. Basti pensare che nel Sahel si trova in abbondanza l’oro fin dall’antichità, poi l’uranio scoperto nell’ultimo secolo, quindi il petrolio, il carbone, i fosfati, il granito per il cemento; ultimamente è stato trovato anche il litio, così importante per la fabbricazione delle batterie e per l’elettronica in genere.
Nel 2009 c’è stato uno dei numerosi colpi di stato. Il presidente di allora che aveva concesso licenze per estrazione dell’uranio alla Cina e a società di altre nazioni non gradite dalla Francia, che sino ad allora godeva del monopolio tramite l’Areva (oggi Orano), la multinazionale francese dell’energia: due settimane dopo il governo avrebbe imposto un aumento delle royalties per le concessioni delle licenze di estrazione. Quel presidente aveva fatto parecchi accordi commerciali con la Cina e con altri paesi. Ai francesi – che avrebbero dovuto pagare di più – questo non andava bene. Ecco che, prima della scadenza del contratto, avviene il golpe!
La Cina continua a fare affari, costruendo strade, ponti, infrastrutture con accordi capestro; ma ormai anche la Turchia si è fatta avanti con la stessa strategia commerciale: basti l’esempio del nuovo aeroporto della capitale. I francesi, invece, hanno continuato in modo miope e arrogante a voler controllare il Niger e tutto il Sahel con le armi. Insieme agli americani, hanno ottenuto, per la prima volta dopo l’indipendenza, il permesso di aprire una grande base aerea militare – più grande di quella costruita per la guerra in Vietnam – nei pressi di Agadez, quella stessa che ora dovrebbe passare nelle mani dei russi, stranamente «senza colpo ferire».
Ebbene, se andiamo a vedere cosa c’è sotto quelle basi dal valore strategico per il controllo dell’Africa, scopriamo che c’è l’oro, tanto oro. I francesi estraggono l’oro. Gli americani estraggono l’oro. Le società che estraggono l’oro sono basate a Londra o in Canada e i capitali sono francesi o, comunque, occidentali. È in atto la spartizione delle ricchezze dell’Africa: in questo caso le risorse del Niger, proprio quello che alla fine dell’Ottocento si è deciso nella famosa conferenza di Berlino per la spartizione dell’Africa.
- L’Italia ha una qualche parte?
Quante volte mi sono sentito dire: «Perché al posto dei francesi non venite voi italiani qui i Niger!?». Gli italiani avrebbero potuto avere un ruolo importante nella storia recente del Niger, se solo avessero saputo e avuto la forza – o fossero stati in grado – di differenziarsi nettamente dalle politiche francesi e americane, se solo avessero avuto il coraggio di seguire le intuizioni profetiche di Enrico Mattei; ma hanno preferito accodarsi agli alleati europei, in primis la Francia. Basti pensare all’accordo del governo Renzi che preferì chiudere centrali idroelettriche sulle Alpi per sfruttare l’energia Elettrica prodotta dalle centrali nucleari francesi alimentate principalmente con l’uranio sottratto al Niger.
Un gruppo di militari italiani è tuttora presente in Niger, ufficialmente in veste di istruttori dell’esercito nigerino. In realtà sono là soprattutto per il controllo dei migranti. Eppure, gli italiani si erano distinti per il finanziamento di un grande progetto civile di recupero del suolo. Gestito dalla FAO, per contrastare l’avanzata del deserto, sono stati piantumati 22 milioni di alberi, costruite strade praticabili, dispensari, scuole: è stata così recuperata un’area di 5.000 Km2 nei pressi di Tahoua, che era ormai abbandonata; quell’area ha visto il ritorno di circa 200.000 persone: un vero fiore all’occhiello per l’Italia.
L’attuale primo ministro nigerino Ali Lamine Zeine, un civile proveniente dal territorio della nostra parrocchia di Dossò, intervistato da un quotidiano italiano non ha mancato di spendere buone parole per l’Italia, ricordando l’episodio in cui il governo italiano ebbe a criticare la politica finanziaria francese detentrice del controllo del Franco Cefa, la moneta unica usata negli stati dell’Africa dell’Ovest. Tornando al «Piano Mattei», invece, il vicepresidente dell’Unione africana ha chiesto con franchezza alla presidente Meloni: «Perché non l’avete preparato con noi?».
Gli occidentali sono sempre nella stessa logica neocoloniale: si sentono in diritto di poter decidere per gli altri.
- E la Chiesa locale?
La Chiesa locale è cresciuta lentamente, ma rimane una piccola Chiesa. I preti ormai sono in maggioranza africani e in piccola parte autoctoni. Il ritardo nella crescita della Chiesa in Niger è, a mio parere, dovuto al fatto che l’evangelizzazione non ha goduto lo stesso sostegno di missionari/e come è accaduto nei paesi vicini. Mentre nel vicino Burkina Faso, nel Benin e nel Togo l’evangelizzazione è iniziata già nella seconda metà dell’Ottocento ed ha avuto il supporto di centinaia di missionari e missionarie, la Chiesa nigerina è nata solo nel 1928 grazie ai missionari della SMA francese: erano in pochi. A loro si aggiunsero negli anni Quaranta i Redentoristi, ma la convivenza fu breve; quelli della SMA lasciarono il paese. La presenza di missionari non supero mai la sessantina.
Oggi l’arcivescovo della Chiesa nigerina, dopo i francesi, è nigerino: Laurent Lompo. Rispetto ai grandi movimenti e alle tragedie di cui ho detto, la Chiesa locale si sente fragile e impaurita. I cristiani sono circa 25.000 e come tutta la povera gente del Niger non si sente protetta di fronte al terrorismo: né dall’esercito, né dalla polizia, né dai militari stranieri, inclusi quelli russi. L’arcivescovo fa quello che può. È sintomatica una battuta del missionario spagnolo che ci ha sostituito in parrocchia: «tutti i preti africani stanno nella capitale e noi siamo qui all’interno del paese».
- C’è una prospettiva africana per il Niger?
Secondo me sì! Dopo questo ultimo – l’ennesimo – colpo di stato, è nata per la prima volta l’idea di riunificare le popolazioni toccate dai regimi militari: Mali, Burkina Faso, Niger hanno oggi il coraggio di allargare gli orizzonti dei confini tracciati dai paesi colonizzatori! La prospettiva è incoraggiante, perché esprime la consapevolezza che lo sviluppo sociale ed economico delle popolazioni richiede una collaborazione, una sinergia, con i paesi vicini.
La federazione del Mali, del Burkina Faso e del Niger potrebbe ispirare altri paesi ad unirsi per una maggiore autonomia dalle ex potenze coloniali, ma soprattutto potrebbe ispirare una maturazione della capacità di assumere le responsabilità del futuro dei propri popoli in un mondo interconnesso. Se la necessità di una UE più forte e più coesa è urgente per la sopravvivenza dei paesi e dei popoli europei di fronte alle superpotenze mondiali, lo stesso vale per i popoli africani: forse sta proprio qui la novità dell’intesa tra i popoli saheliani, embrione di una sorta di «Stati Uniti del Sahel», sogno sinora impossibile. La strategia coloniale – di De Gaulle, che nel 1959 frantumò l’unità del Sudan Occidentale – e neocoloniale ha premiato i leader del momento, lusingandoli e facendogli credere di essere importanti. Il solito divide et impera.
La gente oggi sta capendo, secondo me, tutto questo. Perciò penso che il progetto federativo abbia fondamento e vada, appunto, promosso e sostenuto. In tal senso le Chiese possono avere un ruolo importante: specie la Chiesa del Burkina che gode già di un riconoscimento importante, ma anche quella del Mali e, appunto, quella del Niger. Una collaborazione più stretta fra le Conferenze episcopali di questi Paesi potrà stimolare i leader politici.
Più di un ricercatore nigerino ha dichiarato che nello scontro in atto in tutto il Sahel tra i due Islam – quello tradizionale locale, molto tollerante, e l’Islam integrista, sarà solo la presenza delle comunità cristiane a poter offrire un aiuto alla riconciliazione e alla cooperazione: sarebbe la pace dell’Africa.