E se l’Unione Europea crollasse?

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Le fondamenta sociali ed economiche del progetto europeo sono state gettate dopo la Seconda Guerra Mondiale e poggiano su due pilastri: il rifiuto assoluto della guerra e la scelta per una forma di capitalismo mitigato dall’attenzione alla giustizia sociale e con l’offerta di servizi pubblici volti a garantire una qualità minima della vita per tutti i cittadini, anche i meno fortunati.

Nei primi decenni dopo la guerra, ogni paese dell’Europa occidentale ha declinato a modo suo questi temi, prevedendo forme più o meno estese di intervento statale nell’economia e nella società (da scuola e sanità fino alla proprietà di industrie e banche). Ne è scaturito un modello con caratteristiche comuni diverso dal comunismo sovietico ma anche dal capitalismo Nordamericano.

Dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso delle società comuniste, è cominciata una fase di ri-allargamento geografico e culturale dell’Europa verso Est e di inclusione nel progetto comune di alcune delle nuove formazioni statuali.

Nello stesso tempo, però, la sconfitta del comunismo e la crescente egemonia del capitalismo nella versione più liberista ha indotto anche gli europei ad adeguarsi, pur senza rinunciare alle proprie particolarità.

Oggi quella che è diventata l’Unione Europea a 27 si trova tuttavia a dover fare i conti con una condizione nuova, quasi impensabile prima, e a diverse debolezze diventate evidenti tutte insieme nel volgere di uno strettissimo lasso di tempo.

Quale sia la condizione impensabile è chiaro: una guerra di aggressione da parte di una potenza nucleare di primo piano, la Russia, nei confronti di uno dei paesi che rientrano nei confini geografici del continente, l’Ucraina. Cosa ben diversa dalla guerra civile nei Balcani degli anni Novanta, durante la quale gli europei sono intervenuti militarmente insieme ad altri paesi Onu e Nato per frenare i paesi belligeranti.

L’irrompere di questa cruda novità ci ha colto di sorpresa, ci ha impaurito (diciamo la verità), dura da due anni, produce morti, distruzione, oltre ad aver reso indispensabili cambiamenti importanti delle nostre vite, basti pensare al costo dell’energia.

Proprio in coincidenza con questa novità drammatica, noi europei, orgogliosi delle nostre democrazie e della forza delle nostre economie, abbiamo scoperto di essere invece in seria difficoltà nel confronto con concorrenti potenti e agguerriti, più veloci, spesso più giovani, voraci, in molti casi caratterizzati anche da sistemi politici di stampo non democratico, basti pensare alla Cina e alla Russia.

Come sonnambuli risvegliati all’improvviso, stiamo constatando con sgomento che siamo ancora relativamente ricchi, ma invecchiati, marginali, lenti, perfino deboli. Tanto più che il centro di gravità del mondo si è spostato verso l’area del Pacifico e che la stessa la forza di attrazione ideale della vecchia Europa sta scemando, come dimostrano l’uscita del Regno Unito e, più di recente, l’attrazione rinnovata della Russia nei confronti di diversi territori orientali, a cominciare dall’Ungheria di Orban.

I continui e ripetuti tagli alla spesa sanitaria, alla scuola, all’assistenza hanno spinto verso un punto di crisi i sistemi sociali che prima rappresentavano un elemento di orgoglio.

La sfiducia nella democrazia

Questa ritirata ha prodotto un’ondata di sfiducia nella democrazia in masse crescenti di persone in difficoltà, sempre più attirate dall’idea che per risolvere i loro problemi basterebbe scegliere leader abbastanza forti da battere tutti coloro, a cominciare dai più ricchi, che nel gioco della democrazia finiscono sempre vincitori.

Le procedure democratiche all’interno dell’Unione sono farraginose, pensate per un mondo pacificato ma inadatte alle decisioni veloci in una fase di inquietudine e di cambiamenti profondi: le regole dell’Unione stentano a tenere insieme gli interessi contrastanti dei diversi paesi mentre abbiamo davanti a noi sfide che fanno tremare i polsi e che richiederebbero impegno comune, come l’inverno demografico, il cambiamento climatico, la transizione energetica e quella tecnologica con la già incipiente rivoluzione dell’intelligenza artificiale generativa, i nuovi impegni per migliorare una difesa comune non più garantita solo dall’ombrello USA.

Tutti questi problemi implicano la necessità di progetti complessi, di scelte difficili da condividere e, soprattutto, la possibilità di raccogliere enormi quantità di fondi pubblici da investire e una altrettanto efficiente capacità di farlo.

USA, Cina, India stanno già investendo somme astronomiche per garantirsi uno spazio nel mondo nuovo che già si intravede.

Da noi invece ciascun paese ci mette un po’ del suo (briciole in confronto alle necessità), cerca di attirare aziende avanzate a scapito degli altri partner (vedi i settori dei chip e dell’automotive), mentre l’UE stenta a fare veramente massa comune. La verità è che solo la paura della pandemia e i morti l’hanno spinta a reagire. Ma quella finestra sembra già richiusa, anche se sono rimasti i fondi del Pnrr ancora da investire.

Pace e Stato sociale sono diventati due pilastri traballanti, la ricchezza accumulata lenisce i problemi del presente, ma non garantisce il futuro; i legami commerciali non hanno impedito il ricorso alla guerra come speravamo, i nostri sistemi decisionali sono troppo lenti e i singoli interessi nazionali frenano ogni scelta necessaria e urgente per restare in campo nella serie A del mondo.

Da qui la domanda dettata dal pessimismo della ragione: quanto a lungo può reggere così il modello europeo? E c’è anche la possibilità di una rottura, oltre a quella di un possibile declino?

Sembra una domanda azzardata, ma non lo è. Per una ragione semplice: noi europei dei paesi occidentali continuiamo a pensarci come se il nostro mondo fosse quello di prima, come se fossimo una corazzata inaffondabile; come se la nostra cultura fosse un faro ad attrazione assoluta per tutti; ma siamo solo vecchie glorie che non credono al tramonto, come se le nuove sfide potessero solo lambirci, come se gli Stati nazionali potessero continuare a garantirci lo status del passato. Purtroppo non è così.

La realtà ci suggerisce che, se non cambiamo in modo radicale e in tempi rapidi, rischiamo di essere travolti. Non è detto che basti l’euro a tenerci insieme per sempre e nemmeno il mercato comune. Dobbiamo andare oltre: banche, finanza, fisco, difesa, intelligence, ordine pubblico, e non solo.

Se non mettiamo tutto a sistema, mantenere il modello che abbiamo progettato e in parte vissuto è un sogno. Gli stati nazionali, per quanto forti, non riusciranno a frenare le spinte alla disgregazione. Resteremo nani a confronto con i giganti. E perderemo anche lo stato sociale che abbiamo costruito fin qui.

Dopo oltre 40 anni di tagli alle spese sociali, in non pochi paesi dell’Unione europea i sistemi di welfare sono arrivati ad un punto critico: andare oltre, cioè cercare di trovare i fondi per rispondere alle nuove sfide con altri risparmi del genere, significherebbe intaccare in modo finale il welfare europeo e, insieme, i fondamenti ideali del nostro mondo. Pensate, per esempio, al significato che avrebbe uno scambio tra minori spese per la sanità e maggiori investimenti in armi, in vista di una difesa comune europea, che pure appare necessaria.

Come reagire

Che fare, allora? Ci vuole l’ottimismo della volontà per avviare una nuova fase e muovere i primi, difficili passi nelle politiche concrete.

Due decisioni a titolo di esempio. La prima riguarda un tema su cui si dibatte da anni con alterne vicende: irrobustire il collocamento di debito comune, cioè raccogliere fondi sui mercati, fidando sulla forza e sulla ricchezza ancora imponenti dei nostri paesi messi insieme. Lo abbiamo cominciato a fare tardi rispetto a ciò che sarebbe stato necessario e stentiamo ad andare avanti.

Attenzione però: è troppo diffusa l’idea che basti questo passaggio per risolvere ogni problema. La dimensione delle necessità finanziarie che abbiamo di fronte non può essere soddisfatta dalla sola scelta, pur importante, del debito comune. Pensarlo fa comodo e fa sembrare tutto più semplice, ma non è così.

In realtà, sarebbero indispensabili anche molte altre iniziative. Una di queste – ecco la seconda decisione a titolo di esempio – sarebbe quella di andare verso un’armonizzazione dei sistemi di tassazione dei paesi che compongono l’UE; un passo difficilissimo, per fare il quale ci vorrebbero il coraggio politico e la lungimiranza che spinsero i nostri padri a progettare l’Europa della pace e dei diritti quando sembrava impossibile anche il solo pensarlo.

Oggi infatti i contribuenti più ricchi, le più importanti aziende del mondo o anche solo i contribuenti più attrezzati, possono tranquillamente eludere i prelievi fiscali contando sulle legislazioni favorevoli dei singoli paesi. In altre parole, le norme dei singoli partner UE consentono comode vie di fuga proprio a coloro che dovrebbero dare il contributo più importante per affrontare le sfide del futuro senza smontare l’Europa solidale.

In questo spazio economico che ci intestardiamo a definire “unico”, ma che unico non è, esistono troppe zone franche, opache e di vantaggio, oltre ad enormi differenze di aliquote nelle tassazioni societarie, dei redditi, dei consumi.

Pensare che quello che chiamiamo mercato unico possa restare tale senza superare questo scoglio, sia pure gradualmente, è una pia illusione. Qualche progresso è stato compiuto.

Basti pensare alla delibera UE sulla global minimum tax per le multinazionali (nata peraltro su spinta USA). Ma non basta. Bisogna fare molto di più.

Non si capisce perché, tanto per fare un esempio, l’UE non consideri gli sconti fiscali e le norme societarie che rendono alcuni paesi zone franche con lo stesso rigore con il quale viene giudicato “il trasferimento di risorse pubbliche a favore di alcune imprese o produzioni”: se dai soldi è aiuto di Stato e vieni sanzionato per concorrenza scorretta; se invece tagli le tasse (fai la stessa cosa con un altro strumento) non lo è. C’è ideologia in questa visione distorta.

Difficile? Senza dubbio, tanto più che resterebbero ben attivi gli altri paradisi fiscali al di fuori dell’UE. Ma siamo al limite: la concorrenza fiscale a gogò è una bomba a orologeria piazzata sotto al mercato unico: già se ne sente il ticchettio.

O abbiamo il coraggio di affrontare l’indicibile, l’unità vera, con tutte le opportunità e gli eventuali fastidi che ne derivano, o il progetto europeo rischia di avviarsi verso un triste tramonto.

In queste condizioni, nessuno può escludere anche il rischio di una vera e propria rottura, come ci suggerisce già da qualche anno l’impensabile (prima che avvenisse) Brexit.

È scritto nel clima di guerra che ci ha risucchiato, volenti o nolenti. È scritto nell’anarchica abbondanza di paradisi fiscali, societari e normativi creati in Europa. È scritto nella crisi dei sistemi di welfare e nella crescente sfiducia nella democrazia. È scritto nella forza dei giganti che ci circondano e con i quali dobbiamo fare i conti. È scritto nello spostamento del baricentro verso il Pacifico e nella rinnovata attrazione russa verso molti paesi dell’Est Europa.

È scritto nelle innumerevoli forme di concorrenza interna che fanno assomigliare noi europei ai polli che si beccano bellicosi, mentre Renzo Tramaglino li tiene insieme a testa in giù, stringendone le zampe nella mano per portarli in dono all’avvocato Azzeccacarbugli.

  • Pubblicato sul Susbstack Appunti di Stefano Feltri (29/5/2024).

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