“Noi siamo in cammino per la realizzazione di un impegno o di un programma di razionalizzazione della realtà. Questo programma coincide con la distruzione di ciò che divide gli uomini e allora con la costruzione di una umanità finalmente conciliata” – così scriveva nei suoi Saggi il filosofo e storico della Filosofia Pasquale Salvucci (1924-1996), senatore del Pci dal ’76 all’’83. Un impegno, quello da lui indicato, che rivela una fiducia di sapore illuministico nella ragione.
Come non evocare, qui, il senso del libro del 1989 del leader socialista Francesco De Martino, Il pessimismo della storia e l’ottimismo della ragione? Gli accadimenti, infatti, tra cronaca e storia paiono dirci che quella fiducia sia mal riposta.
Eppure l’idea di un’umanità finalmente conciliata sfida i secoli e i millenni: si pensi, ad esempio, alla narrazione biblica (con le immagini del lupo e dell’agnello o del leone e dell’agnello che vivono uno accanto all’altro senza paura) o al marxiano “sogno di una cosa”.
Una chimera, un’illusione, dunque? Non credo. Salvucci, del resto, non evoca il paradiso in terra, bensì, appunto, un programma, un impegno, un “protendersi verso” o, kantianamente, un “dovere”, senza negare Pólemos, il conflitto. Non negato neppure dagli illuministi o da Marx, tutt’altro.
Parlare di “pace” senza prendere sul serio Pólemos somiglia a un inganno, o a un autoinganno.
Sono altrettanto convinto, però, che il solo appello alla ragione o alla “razionalizzazione della realtà” non basti, senza il contributo di Philótes (la tenerezza), evidenziato dalle filosofe della differenza.
L’esistenza individuale e collettiva, più in generale le vicende umane sono probabilmente legate, perciò, alla tensione e al difficile e necessario rapporto che lega le due dimensioni, Philótes e Pólemos. E in ciò la cultura, la politica e l’azione sociale possono insinuarsi in maniera feconda.