Parto anonimo e diritto del figlio a conoscere le proprie origini
In Italia, così come in altri Paesi del mondo, è possibile partorire in anonimato.[1] Ogni anno nel nostro Paese nascerebbero circa 400 bambini che non vengono riconosciuti dalla madre. Certamente meno numerosi che in passato, se si pensa che alla fine dell’Ottocento erano 40.000 e tra il 1950 e il 1960 erano ancora 5.000.
Il fondamento del parto anonimo riposa sull’esigenza di tutelare il più possibile la salute della madre e la vita del nascituro, consentendo alla donna di partorire in un contesto di piena riservatezza e con la migliore assistenza all’interno delle strutture ospedaliere e assicurando al neonato la necessaria assistenza fino al momento in cui potrà essere adottato da una famiglia.
Peraltro, anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – dev’essere adeguatamente tutelato. La conoscenza delle proprie origini, infatti, contribuisce a formare l’identità della persona, entrando a far parte di quell’insieme di elementi che rappresentano il punto di partenza dello sviluppo umano.
Al contrario dei figli adottivi riconosciuti che, compiuti i venticinque anni di età, possono[2] risalire alle proprie origini biologiche, ai figli nati in un contesto di parto anonimo era negata fino a qualche anno fa ogni ricostruzione della propria origine.
Sulla vicenda si era pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo che, il 25 settembre 2012, aveva condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non prevedendo la nostra legislazione un bilanciamento tra il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre a mantenere l’anonimato.
Si tratta di una problematica complessa e delicata. Parlarne in questa sede è utile per due motivi. Sono ancora molte le donne, italiane ma soprattutto straniere, che ignorano tale opportunità. Inoltre, recentemente le sezioni unite della Corte di Cassazione civile hanno chiarito un’importante questione in merito al rapporto intercorrente tra il diritto della partoriente a non essere nominata e il diritto del figlio ad accedere alla propria storia parentale, perdurando al riguardo un vuoto normativo che il legislatore non è ancora riuscito a colmare.[3]
Dalle “ruote degli esposti” al parto anonimo
Le radici dell’odierno diritto della donna all’anonimato materno trovano la loro origine nell’istituto medievale della “ruota degli esposti”,[4] strumento collocato in luoghi appositamente attrezzati – per lo più ricoveri religiosi – dove i cosiddetti «trovatelli» venivano accolti, nutriti e salvati da morte certa. Tradizionalmente, l’utilizzo di questa prassi significava cercare certamente di salvaguardare la vita del neonato, ma anche proteggere la donna dallo scandalo e dalla vergogna di un concepimento in violazione del legame coniugale, cui poteva accompagnarsi una situazione di estrema povertà o comunque di solitudine.
Ancora oggi il parto anonimo costituisce un’alternativa offerta alla donna rispetto all’interruzione di gravidanza, ammessa dalla legge ma pur sempre traumatica, ovvero, nelle ipotesi peggiori, a comportamenti criminali quali l’infanticidio o l’abbandono di neonato.
Con il parto anonimo il nome della madre rimane segreto e sul certificato di nascita del bambino viene scritto: «nato da donna che non consente di essere nominata», con l’indicazione del codice 999.[5]
Nell’intento di tutelare la scelta dell’anonimato della madre per tutta la vita della stessa e verosimilmente anche per l’intera durata della vita del figlio, la legge vigente[6] stabilisce che l’accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, è possibile solo dopo che siano trascorsi 100 anni dalla formazione del documento.
La legge, nel tutelare il diritto al parto segreto e anonimo, stabilisce che la madre possa scegliere, entro dieci giorni dalla nascita del figlio, se essere o non essere nominata nel certificato di nascita.
Nel momento in cui la mamma dichiara la propria volontà di non voler riconoscere il bambino, la Direzione Sanitaria fa un’immediata segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni. Si apre, così, un procedimento di adottabilità del bambino a cui viene data la possibilità di crescere e di essere educato da una nuova famiglia.
Le linee guida del Ministero della Salute[7] sul parto anonimo stabiliscono che le donne siano sostenute, accompagnate e informate, «affinché le loro scelte siano libere e consapevolmente responsabili». Soprattutto raccomandano che in ospedale, al momento del parto, sia garantita «la massima riservatezza, senza giudizi colpevolizzanti ma con interventi adeguati ed efficaci, per assicurare – anche dopo la dimissione – che il parto resti in anonimato».
Se il legislatore latita interviene il potere giudiziario
A porre un limite al prevalente diritto della madre alla segretezza del parto è stata la Corte Costituzione con una sentenza del 2013,[8] grazie alla quale alla donna è data la facoltà di scegliere se revocare o meno il proprio anonimato, qualora il figlio abbia manifestato la volontà di conoscerla.
Nell’occasione la Consulta ha affermato essere compito del legislatore introdurre un «procedimento stabilito dalla legge» volto a salvaguardare il diritto della madre all’anonimato ma a garantire anche il diritto del figlio ad accedere alla propria storia parentale mediante precise modalità cui il giudice deve attenersi nell’interpellare, su eventuale richiesta del figlio e con la massima riservatezza, la madre che aveva chiesto di restare anonima.
Poiché dal 2013 ad oggi il principio affermato dalla Corte Costituzionale non è stato recepito dal legislatore e non si è tradotto nella modifica della legge attuale, il potere giudiziario si è di fatto sostituito a quello legislativo ed ha iniziato a svolgere un ruolo di supplenza.
Contemperamento dei diritti della madre e del figlio: contrasto giurisprudenziale
Sulla questione si sono conseguentemente creati due contrapposti orientamenti.
Per alcuni, con il richiamo al «procedimento stabilito dalla legge», la Corte Costituzionale avrebbe istituito un’esplicita riserva di legge. In assenza di intervento del legislatore, l’interpello della madre non può essere operato direttamente dal giudice.
Un altro orientamento sostiene, invece, che, in attesa dell’intervento legislativo, il principio della Consulta può e deve essere tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, anche se a titolo precario.
Nonostante il contrasto giurisprudenziale e nel perdurante vuoto legislativo in materia, sappiamo che, alla data del gennaio 2016, dei 20 interpelli accolti dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2013, 18 si sono conclusi con i ricongiungimenti: vale a dire che ben 18 madri su 20 interpellate hanno revocato il proprio anonimato, accettando di rivelare la loro identità.
Il chiarimento della Corte di Cassazione
Le sezioni unite della Corte di Cassazione (civile)[9] hanno autorevolmente composto il contrasto.
In primo luogo, hanno affermato che, in virtù della pronuncia della Corte Costituzionale, la norma[10] che escludeva qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare dinanzi al giudice un procedimento per l’eventuale revoca della dichiarazione di anonimato resa dalla madre, ha cessato di avere efficacia. Con la conseguenza che il giudice non può negare tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulle sue origini per la mera dichiarazione di anonimato della madre. Così facendo, il diritto all’anonimato si trasformerebbe in un vincolo assoluto e indisponibile persino dalla donna stessa, con un sacrificio totale del diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
In secondo luogo, in assenza dell’intervento del legislatore per l’introduzione di un procedimento ad hoc, gli organi giurisdizionali non possono essere esonerati all’applicazione diretta del principio introdotto dalla Corte Costituzionale. E neppure sussisterebbe un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti.
Ma le sezioni unite della Cassazione, in attesa dell’intervento del legislatore, hanno fatto di più. Hanno, infatti, individuato un dettagliato procedimento da utilizzare per un’eventuale revoca della dichiarazione di anonimato, che si ispira al seguente principio di diritto: «In tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità».
[1] Art. 30, comma 1, del D.p.r. 3 novembre 2000, n. 396.
[2] Ai sensi dell’art. 28 della legge 4 maggio 1983 n. 184.
[3] Il 18 giugno 2015 la Camera dei deputati ha approvato – con 307 voti a favore, 22 contrari e 38 astenuti – un testo risultante dall’unificazione di otto proposte di legge e recante “disposizioni in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita”. Il disegno di legge approvato è stato trasmesso alla Presidenza del Senato il 19 giugno 2015 ed è attualmente (febbraio 2017) all’esame della 2ª Commissione permanente (Giustizia) di palazzo Madama.
[4] La prima ruota, conosciuta nella storia, fu costruita in Francia presso l’ospedale dei canonici di Marsiglia, nel 1188, e da lì importata in Italia nel 1198, per volere del papa Innocenzo III, e installata a Roma presso l’ospedale di Santo Spirito in Sassia. La validità e l’opportunità dello strumento furono messe in discussione soltanto a partire dai primi decenni del XIX secolo.
[5] Decreto Ministero della Sanità del 16 luglio 2001, n 349.
[6] Art. 93, comma 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196.
[7] Cf. www.salute.gov.it, voce “Parto in anonimato”.
[8] Si tratta della sentenza n. 278 depositata il 22 novembre 2013.
[9] Con sentenza n. 1946 depositata il 25 gennaio 2017.
[10] Art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184.