Nel dibattito ecclesiale suscitato dal percorso sinodale (ma già determinato a fondo dal contributo del Concilio Vaticano II) appare in modo evidente un deficit di riflessione a proposito della relazione tra “tradizione ecclesiale” e “forme culturali”.
L’idea che il Vangelo sia custodito da una “tradizione” che preserva il depositum fidei dalle alterazioni culturali viene sottoposta ad una rilettura che utilizza, spesso in modo inconsapevole, alcuni “stilemi antimodernistici” con cui si confonde una “forma della tradizione” con la “tradizione di sempre”.
Questo vale in diversi ambiti dell’esperienza ecclesiale: nelle forme liturgiche come nell’esercizio dell’autorità, nel modo di intendere le istituzioni relazionali così come nel pensare la libertà e l’eguaglianza dei soggetti nella società e nella Chiesa.
Forma moderna e tradizione di sempre
Spesso si identifica la “tradizione di sempre” con la forma moderna che il cattolicesimo ha assunto con il Concilio di Trento. La grande modernizzazione tridentina, che sta alla metà del XVI secolo, implica una serie di scelte culturali, linguistiche, pastorali e istituzionali che hanno potuto presentarsi come “originarie”, ma che sono soltanto autorevoli e parziali riletture dell’origine, in un contesto di trasformazione.
Se pensiamo al modo di concepire l’episcopato (con la novità dell’obbligo di residenza), la formazione dei futuri ministri (con la fondazione dei seminari), la competenza ecclesiale sul matrimonio (che assume per la prima volta tutta l’autorità sul contratto e sul rito) e la lettura generale dei sacramenti ex opere operato (con la progressiva perdita della specificità “cooperante” di ogni singolo sacramento), possiamo considerare questo percorso come una grande “rilettura culturale” della tradizione.
Essa vive di “novità” che vengono introdotte senza esitazione nel corpo ecclesiale e che non hanno precedenti storici, solo in alcuni casi molto antichi. Dopo il Concilio di Trento, con un ulteriore passaggio, segnato dalla crisi tra fine ‘700 e inizio ‘800, l’autocomprensione della tradizione ecclesiale, di fronte alla cultura ambiente, entra nella tensione di una contrapposizione senza limiti. Cresce così l’idea che la “tradizione” possa essere autosufficiente, e che possa trovare, solo in sé, le risorse per rispondere a tutte le sfide che la storia propone.
Antimodernismo e Codice
Qui si apre, a partire dagli anni ’40 del XIX secolo, un percorso progressivo che porta a due eventi in qualche modo distinti, ma concordi: i documenti contro il “modernismo” (1907), da un lato, e il Codice di diritto canonico (1917), dall’altro, istituiscono, in un certo senso, l’“autoreferenzialità ecclesiale”, che è una cosa assolutamente nuova.
Solo a partire da allora il cattolicesimo si sente autorizzato (e per certi versi tenuto) a guardare alla cultura con gli occhiali del sospetto infilati sempre sulla punta del naso. La Chiesa diventa, in contemporanea con la cultura che giudica e quasi malgré soi, “maestra del sospetto”.
Diffida di ogni cultura diversa dalla propria, ricostruisce anche la filosofia soltanto nella misura in cui collima con una lettura statica della storia, censura ogni pensiero che voglia dialogare seriamente con la cultura. Questo approccio arriva fino agli anni ’50 del XX secolo, trova una fase di ripensamento profondo intorno al Concilio Vaticano II (tra Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), ma torna a proporre la propria soluzione a partire dagli anni ’80 del XX secolo e, per inerzia, segna la storia degli ultimi 40 anni.
La cultura e la donna
Questo modo di comprendere la tradizione, che sembra illudersi di poter “definire” i propri dati soltanto con gli strumenti di un “sapere interno” (assicurato da un ricorso alla Scrittura e alla Tradizione irrigidito sul piano fondamentalistico) sembra funzionare perfettamente per “bloccare” ogni traduzione della tradizione.
Il grande ideale, che ha aperto il Concilio Vaticano II, e secondo il quale proprio la “formulazione del rivestimento” permette di attingere la “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” appare censurata in radice. Questo vale, in un modo del tutto speciale, per la questione della donna. Qui mi pare emerga un paradosso davvero impressionante.
Si suole affermare, da almeno 50 anni, che la Chiesa ha una cultura antropologica sul maschile e sul femminile che ha imparato dal suo Signore, e perciò non può cedere alle mode del momento. La resistenza al mondo è interpretata come “resistenza alla cultura dell’eguaglianza” in nome di una differenza voluta da Dio. Si ricostruisce la questione in questo modo semplicistico: la Scrittura e la Tradizione ci danno una definizione del femminile, diverso dal maschile, e perciò dobbiamo resistere alla cultura (deviante) che pretende di equiparare maschile e femminile.
In realtà, io credo che si debba non semplicemente precisare, ma capovolgere il modello. Su chi sia la donna e che cosa competa alla sua vocazione, Scrittura e Tradizione possono essere comprese solo “dentro la cultura”. Né la Scrittura né la Tradizione possono essere utilizzate per “definire la donna”, proprio perché la donna (come l’uomo) è stata creata libera.
È la Scrittura stessa a dirci che cosa non possiamo fare: ossia non possiamo usare la Scrittura come se fosse un Codice normativo, compiuto e immediatamente operativo. Senza una profonda riconciliazione tra fede e cultura, difficilmente potremo affrontare in modo non fondamentalistico le questioni che riguardano l’identità e la vocazione della donna.
Altrimenti proietteremo, sul racconto della creazione o su un testo di Paolo, tutti i pregiudizi della nostra cultura e della nostra società, camuffando come comandamento di Dio la nostra incomprensione.
Il pregiudizio capovolto
La Chiesa cattolica ha condiviso per secoli una lettura riduttiva ed emarginante della donna. Non è colpa del cattolicesimo aver condiviso per secoli la cultura comune, ma diventa oggi sua colpa ostinarsi nel confondere questo pregiudizio con il depositum fidei.
Qui sta il punto più delicato: pensare che la “riserva maschile” appartenga non alle possibili contingenze della storia, ma alla “divina costituzione della Chiesa” è un pregiudizio che blocca la tradizione e la vita. La “moda” è la riserva maschile, mentre il suo superamento è la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio. Qui vi è un tratto drammatico, il vero “teodramma”, che può superare il miraggio sistematico di trovare, sotto le forme storiche, un “principio della gerarchia tra i sessi” che non solo autorizzerebbe, ma imporrebbe alla Chiesa la “riserva maschile”.
L’argomento che confonde la “differenza” tra uomo e donna con una “diversa autorevolezza pubblica” è una forma di sublimazione intellettuale di un attaccamento al passato, con cui si confonde il Vangelo. Si può arrivare a costruire un’intera cristologia come una foglia di fico, per coprire il proprio ostinato pregiudizio. Bisogna giustificare quello che si è sempre fatto, ad ogni costo.
Ma razionalizzare la discriminazione, traducendola addirittura nel “bene del discriminato”, è un procedimento argomentativo tipico della società dell’onore. Come Tommaso d’Aquino diceva che ci sono peccatori che perdono la dignità umana e che per questo possono essere uccisi non solo senza colpa, ma per il loro bene, oggi sentiamo teologi e intellettuali che confermano la “riserva maschile”, dicendo che solo così la donna viene garantita nella sua “differenza”, nella sua “superiorità” e nella sua estraneità al clericalismo.
Accedere al ministero, per la donna, sarebbe il suo male: chi mai vorrebbe il male delle donne? Questi argomenti rozzi a me sembrano non forme della fede ecclesiale, ma forme dell’incultura con cui l’abbiamo confusa e pretendiamo di difenderla.
La cultura della tradizione
Le elaborazioni contemporanee della “riserva maschile” sono forme vuote, maschere nude. Mostrano le mille variazioni con cui un pregiudizio può perpetrarsi, non avendo più il coraggio di dirsi apertis verbis, ma trasformandosi in figure teoriche, in pratiche, in forme apparenti del buon senso o della lungimiranza.
Si può arrivare a invocare un Dio paziente, un Dio onnipotente nella sua pazienza, pur di non toccare la riserva maschile ridotta soltanto a sentimento di ”attaccamento”. Una Chiesa non emozionata, ma solo emotivamente nostalgica, fa di tutto per tenersi i propri pregiudizi.
Ma qui è in gioco il modo stesso di comprendere la tradizione. Che è “ascolto della Parola” nell’aperto della storia, non autoconferma di sé nel chiuso delle sacrestie. Una tradizione che sappia onorare la propria storia, che sia cosciente di aver fatto ricorso nei secoli alla migliore cultura che aveva a disposizione, non risponde alle domande di vocazione ecclesiale delle donne con i pregiudizi o con gli interdetti.
Ma si dispone con parresìa a lasciarsi insegnare qualcosa di decisivo dai “segni dei tempi”. Solo così la tradizione non solo dialoga con la cultura comune, ma può diventare essa stessa contributo originale a tale comunanza culturale.
- Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.
La riflessione di Andrea Grillo è illuminante ed esaustiva. Temo che la chiesa abbia paura del cambiamento per mancanza di strumenti culturali. Gli stessi sacerdoti (unici responsabili spesso della pastorale ecclesiale sui territori) non hanno mezzi di indagine sufficienti e una formazione adeguata per affrontare la complessità del reale, che li permetta di confrontarsi con la società segnata dal pluralismo.
Il continuo atteggiamento difensivistico nei confronti della contemporaneità, la mancanza di una azione pastorale che si fondi su una morale autonoma e non più rispondente ad una fede di stampo ideologico sono le cause che segnano la stagnazione che ahimè la chiesa sta vivendo ormai da qualche decennio.
Già agli inizi del Novecento, lo storico della Chiesa Franz Overbeck, scriveva: “Non esiste storia senza tradizione, ma se tutta la storia è accompagnata dalla tradizione (ogni storia ha tradizioni), ciò non significa che quella cosa che chiamiamo tradizione resti sempre uguale a sé stessa”.
Come ho scritto e detto più volte, non è la “continuità” della tradizione a far problema. Chi è storiograficamente informato, sa che le “continuità” sono effetti di superficie, cuciture “prodotte” in base a motivazioni (scelte, valori, preoccupazioni) dettate dal PRESENTE. Il problema, invece, è la “volontà continuista”, ovvero quella disposizione/ostinazione a non voler cambiare, alla radice della quale si nascondono paure, ansie per la novità e l’incognito. Andrea Grillo ha illustrato bene questi due passaggi che guidano l’instaurazione di una tradizione: il proprio presente (es. le scelte che la Chiesa ha compiuto con il Concilio di Trento), e le paure che si annidano nei nostri discorsi ugualmente dettati dal nostro presente (l’argomentazione della differenza sessuale inscritta nel depositum fidei).
Aggiungo che già K. Rahner, in un saggio tradotto in italiano nel 1966 (Il concetto dello “jus divinum” nell’accezione cattolica) aveva intravisto il problema del storicità della tradizione e per parte sua cercò di smarcarsi mediante l’argomentazione della Chiesa apostolica e delle decisioni da essa prese, che le conferivano una normatività a cui in seguito si sarebbe dovuto dare conto (si trattava di decisioni definitive dato che rientravano ancora nel tempo della rivelazione). Rahner argomenta però da un punto di vista teologico e in base alle acquisizioni esegetiche e storiche del tempo (metà degli anni Sessanta), cercando così di creare un collegamento tra la situazione attuale della Chiesa e quella del passato. Sappiamo però che lo stesso Rahner non ha mai smesso di fare ricerca e di questionare nuovamente i suoi precedenti approdi. Probabilmente con le conoscenze di oggi, sarebbe stato molto più cauto se non addirittura contrario ad una “cristallizzazione” del concetto di Chiesa apostolica. D’altra parte, concludo, attraverso una teologia storica (e non una “asfitticamente sistematica”) è possibile già intravedere alcuni tentennamenti che Rahner presenta in questo testo.
Una storia (discontinuità) e una teologia (segni dei tempi) come “psicanalisi del presente” dovrebbero insomma aiutarci a non nasconderci dietro alcune foglie di fico.
Il Vangelo e, quindi, la Scrittura è già un’opera di inculturazione: dire con parole umane qualcosa che eccede le nostre capacità (lo dice chiaramente il CVII). Inoltre ci si dimentica che ogni Scrittura e, quindi, anche il Vangelo è la cristallizzazione di una tradizione (orale) che è stata messa per iscritto. C’è una tradizione che ha preceduto la Scrittura e di chi non non sappiamo molto. Giovanni lo dice chiaramente al termine del suo Vangelo: non tutto è stato scritto… è stato scritto solo quello – dice Gv – che serve alla nostra fede e perché noi avessimo la vita eterna. Ci sarebbe molto da riflettere!!