Giorgia regina del nulla?

di:
Giorgia Meloni

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Per una volta tutti gli osservatori concordano su un dato di fatto che appare indiscutibile: la vincitrice di queste elezioni europee, in Italia – e non solo in Italia – è Giorgia Meloni.

Ha impostato la campagna elettorale come un referendum, non tanto sul modello di Europa, quanto sulla sua persona – «scrivete Giorgia» –, e l’ha avuto: 2 milioni e mezzo di voti, un trionfo.

Voleva un referendum sul suo partito, FdI, e c’è stato: il 26% delle politiche, indicato alla vigilia come il risultato da confermare, è stato ampiamente superato da un risultato che si avvicina al 29%, il triplo dei voti degli alleati di Forza Italia (9,7%) e Lega (9,1%).

Voleva un referendum sul governo, a più di un anno e mezzo dalla sua entrata in carica, e tutti e tre i partiti che lo compongono escono rafforzati, in percentuale, rispetto alle politiche, dalla tornata elettorale.

Il successo della Meloni è reso più clamoroso se lo si colloca in un quadro europeo che ha visto tutti i partiti di governo più o meno pesantemente sconfitti e che ha consentito perciò alla nostra premier di presentarsi alla guida del G7 come l’unica «anatra saltellante» – come ha scritto Paolo Garimberti – in un consesso di «anatre zoppe».

L’astensionismo

Eppure non mancano, in questo quadro radioso, delle ombre. Per la prima volta, alle elezioni europee è andato a votare meno di un italiano su due degli aventi diritto. La partecipazione si è attestata al 49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2019, quando avevano votato il 54,5%.

È il punto più basso di sempre una linea in continua discesa. Nel 1979, prima elezione a suffragio universale dell’europarlamento, aveva votato oltre l’85% degli italiani. Da allora l’affluenza alle urne ha subito un calo continuo e inesorabile. Il più vistoso è stato quello che dall’81,07% del 1989 – ancora nel quadro della Prima Repubblica – la fece precipitare al 73,60% del 1994, quando si era da poco insediato il primo governo di Silvio Berlusconi. Per scendere poi al 71,02% del 2004, al 65,05% del 2009, al 57,02% del 2014 e al 54,05% del 2019. E ora siamo al 49,69%.

Un calo che corrisponde, del resto, a quello registrato alle politiche che, il 25 settembre 2022, hanno visto un’affluenza alle urne pari al 63,9%, anche in questo caso il dato più basso di sempre, nettamente in diminuzione anche rispetto al 2018, quando ai seggi elettorali si è recato il 72,93% degli aventi diritto al voto.

Per avere un’idea delle proporzioni del fenomeno, si pensi che, fino al 1979, la percentuale dei votanti non era mai scesa sotto il 90% e ancora nel 2001 era stata dell’81,35%. A quanto pare, la Seconda Repubblica – nata, alla fine del secolo scorso, con la «discesa in campo» di Berlusconi, sull’onda di una reazione nei confronti della Prima e della «casta» che la governava –, ha dato luogo, invece che a un rafforzamento della partecipazione democratica, a un crescente distacco della gente dalla politica.

Qualcuno obietterà che quello dell’8 e 9 giugno è il risultato di elezioni europee, tradizionalmente meno sentite dall’elettorato. Ma proprio queste ultime, come abbiamo prima notato, sono state interpretate in chiave quasi esclusivamente nazionale. Basti ricordare che il voto alla Meloni era chiesto non per farla andare al Parlamento Europeo – ovviamente impensabile, dato il suo ruolo – ma per esprimere il consenso alla sua linea politica in Italia.

Le percentuali e i numeri reali

È la riduzione di votanti causata dall’astensionismo a spiegare come mai i tre partiti che compongono la maggioranza di governo, pur mantenendo alte percentuali relative, abbiano in realtà raccolto, in questa tornata elettorale, circa 11 milioni di voti, rispetto ai 13,2 milioni delle precedenti elezioni europee del 2019 (quando non erano tutti e tre insieme al governo), perdendo ben 2,2 milioni di voti. Che non è poco. Col risultato che l’attuale coalizione di governo che, dopo le politiche rappresentava il 24,7% del corpo elettorale, ora è scesa addirittura al 22,7%.

Anche rispetto alle ultime elezioni politiche, Fratelli d’Italia ha sì accresciuto la propria quota percentuale dal 25,98% al 28,81%, ma perdendo qualcosa come 600 mila voti: da 7,3 a 6,7 milioni.

Anche la Lega, pur crescendo dall’8,79% al 9%, ha perso, rispetto alle politiche, 380 mila consensi: nonostante la valanga di 500 mila preferenze per il generale Vannacci. Unico partito nell’attuale maggioranza a rimanere quasi stabile dal punto di vista numerico è Forza Italia.

La fuga del Meridione

A questa flessione, mascherata dalle percentuali (che tengono conto non degli aventi diritto ma solo degli effettivi votanti), si aggiunge un altro motivo che dovrebbe far riflettere chi è al governo, ed è il fatto che l’astensionismo si è verificato soprattutto al Sud.

In Sardegna e in Sicilia (circoscrizione Isole), ad esempio, si è registrato un tasso di partecipazione del 37,31% mentre nel resto dell’Italia meridionale (circoscrizione Sud) non è andato oltre il 43,73%. Insomma, mentre le altre tre circoscrizioni – quella Nord Occidentale, quella Nord Orientale e quella Centrale hanno superato ampiamente il 50% dei votanti, in queste il 60% degli elettori ha disertato le urne. La gente del Meridione abbandona la politica e lo Stato, da cui non si sente rappresentata. E si capisce.

Ha commentato un noto economista, Emanuele Felice, in un articolo intitolato «Il Sud tradito si vendica delle destre. I dubbi di Meloni sull’autonomia»: «Il governo Meloni è uno dei più antimeridionali della storia d’Italia e i cittadini del Sud se ne sono accorti. Hanno ormai capito, innanzi tutto, che l’autonomia differenziata è stata un colpo mortale per il Mezzogiorno. Senza risorse aggiuntive, che non ci sono né potranno esserci, nelle regioni meridionali mancheranno presto i soldi per i servizi essenziali ai cittadini, dai diritti fondamentali al funzionamento dell’amministrazione» (Domani, 12 giugno 2024).

Proprio in questi giorni il disegno di legge sull’autonomia differenziata, che è già stato approvato al Senato, è in discussione alla Camera, tra incidenti clamorosi e perfino violenze fisiche tra maggioranza e opposizione. E passerà. Ma che cosa implica questo per il rapporto del governo con il Sud?

Due riforme che si contraddicono

Forse la domanda potrebbe essere più radicale: che cosa implica per il nostro Paese? I vescovi italiani recentemente hanno messo in guardia: «Il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica».

È paradossale che la Meloni, formata a una tradizione politica che sottolinea l’identità e l’unità della Nazione, si stia assumendo la responsabilità storica di una riforma che, a detta di molti, porterà inesorabilmente alla sua disintegrazione. I poteri assegnati alle regioni autonome sono così ampi da renderle ben poco dipendenti dal governo centrale. La nostra presidente del Consiglio insiste sulla necessità di un premierato forte – la «madre di tutte le riforme» –, ma forse dovrebbe chiedersi se questo progetto a lei così caro non sia in rotta di collisione con quello che il suo governo sta di fatto varando, sotto impulso della Lega.

La verità è che, nel programma elettorale della destra, le due spinte contraddittorie sono state entrambe accolte, allargando il campo dei consensi e portando la coalizione alla vittoria. Ma ora i nodi vengono al pettine. E ad avere la meglio sembra quella di Salvini e Calderoli, realizzando l’originario sogno leghista di un Nord finalmente sganciato dalla palla al piede del Sud e dalla dipendenza da «Roma ladrona».

Ma così la Meloni rischia di diventare la premier «forte» di un paese diviso tra un Nord che ormai, essendo autonomo, sarà poco vincolato dalle sue decisioni, e un Sud sempre più immiserito e lontano dallo Stato. Il suo sogno – una ragazza di borgata che alla fine diventa regina – potrebbe allora trasformarsi nella triste scoperta di essere la regina del nulla.

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 14 giugno 2024
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Un commento

  1. Giovanni Di Simone 17 giugno 2024

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