Finitudine dell’uomo e sua dignità infinita /1

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L’indicazione normativa redatta da un autorevole organismo della Chiesa cattolica si qualifica per il suo interesse nei confronti della dignità umana[1] e conferma la significativa svolta teologica e linguistica di orientamento personalistico, rispetto alle impostazioni pre e anti-moderne, che erano state opportunamente contestate per i loro tratti naturalistici e in particolare biologistici.

Dignità non è infatti una proprietà della vita fisica; dignità non comporta il dovere di prolungare il più possibile la sopravvivenza; dignità non si predica dell’organismo ma della persona; dignità sta tra l’etica (il dovere) e l’estetica (la contemplazione) e non tra la biologia e l’ontologia (come invece il termine di “organismo” attribuito ai viventi).

La dignità è della persona

Il testo in oggetto si apre con la seguente frase: “Una dignità infinita, inalienabilmente fondata sul suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi”. L’espressione “una dignità spetta” è semanticamente ricca. Può significare “va riconosciuta” e in tal caso il discorso è radicalmente ontologico (ogni persona umana è un essere di rango supremo).

Può significare “ogni persona umana merita una tutela massima e incondizionata” e il tal caso il discorso è primariamente etico, dato che si raccomanda una certa attitudine pratica, quella di prossimità e dedizione piena. Nell’uno e nell’altro caso (il testo sembra orientarsi prevalentemente alla prima delle due versioni) si apre la questione della casistica concreta, dato che la medesima attribuzione di dignità (rivolta sia a una persona libera, informata e competente a decidere, sia a una persona non in grado di esercitare facoltà superiori) può motivare condotte diverse, a seconda della situazione, delle volontà espresse in anticipo, della storia personale, della spiritualità del soggetto, delle risorse economiche disponibili.

Il nesso tra i tre piani del discorso (quello ontologico, quello etico fondamentale e quello del discernimento relazionale concreto) costituisce uno snodo delicato dell’intera dichiarazione.

I termini “degno” e “dignità” si rincorrono reciprocamente.  Degno e ciò che è ritenuto meritevole di rispetto. Ma in base a cosa? In base ai criteri (che esso soddisfa) di dignità! E che cos’è allora la dignità? E’ (circolarmente) una nobiltà morale corrispondente alla natura di colui verso il quale noi esprimiamo rispetto.  Ma che cosa di questa natura fa sì che se ne possa predicare la dignità? Il solo fatto che essa sia geneticamente umana?

Quest’ultima linea di risposta offrirebbe il fianco a diverse critiche: se è la specie quello che conta, si scivola verso un genetismo evolutivo (e la teologia consegnerebbe a una scienza la criteriologia delle sue affermazioni). Inoltre si dovrebbe interrogare da capo il significato di uomo (da cui proviene l’aggettivo “umano”), ma l’essenza dell’umano non è conoscibile direttamente, è solo interpretabile attraverso inferenze.

La fondazione metafisica di questi asserti richiederebbe più passaggi. Partiamo perciò da un’esperienza etica (non meramente teoretica). Avvertiamo un dovere di prossimità verso l’altro, il quale è così simile a noi che i nostri reciproci vissuti vengono scambiati empaticamente. Questa prospettiva parrebbe confermata anche dal greco aksiōma, matos, che sta per “assioma” e per “dignità”. La dignità è un assioma, un principio evidente e (se si considera l’etica la filosofia prima) non ulteriormente fondabile o dimostrabile, come il principio di non contraddizione in metafisica.

Le due valenze della dignità

Muoviamo dunque da un comune referto fenomenologico: si dà a noi, nell’incontro intersoggettivo, qualcosa di irriducibile, la dignità, che ci invita alla sua tutela. Il dato, pensato riflessivamente, mostra le sue due valenze. Da un lato ciò che è degno (1) reclama una validità universale. Dall’altro esso implica la considerazione delle (2) qualità individuali irripetibili di ciò/colui che è degno.

Se intendiamo utilizzare il vocabolo persona (interpretando come “persona” chi chiamiamo uomo attribuendogli dignità piena) potremmo concludere che tra le proprietà personali decisive c’è l’originale identità morale, l’irripetibile sequenza biografica del soggetto-persona e la sua peculiare apertura valoriale (la sua intrinseca visione del mondo). Si tratta di valori supremi che ogni persona sperimenta, indaga, interpreta e per cui ultimamente si decide e impegna la propria vita.

Da un lato (1) ogni persona in quanto rationalis naturae individua existentia, nella definizione di Riccardo di San Vittore, merita una tutela incondizionata. E la merita anche se di fatto, a causa di una malattia o data la precoce fase di sviluppo in cui si trova, quell’essere umano non è (non è più o non è ancora) in grado di esercitare le funzioni mentali più alte. Dall’altro (2) la doverosa tutela della dignità personale non può prescindere dalla valorizzazione delle opzioni indeducibili e insostituibili che scaturiscono-da e riguardano-il singolo soggetto nella sua costitutiva, libera, creativa relazionalità: apertura a Dio, ai fratelli e ad ogni creatura vivente. “Individua existentia” segnala appunto questo spessore di singolarità e di stile unico.

I due piani lavorano in sinergia e non devono inficiare o inibire l’uno l’espansione semantica dell’altro.

Nel corso di un importante convegno pluralistico svoltosi a Milano nel 1998 e i cui atti sono leggibili per la cura di Pocar, D’Orazio e Cattorini, tra le pubblicazioni dell’editore Zadig di Milano, 1999, si era pensato e deciso di comune accordo (tra pensatori di origine “laica” e quelli di orientamento cattolico) di scandire la discussione in due parti, la prima dedicata appunto alla dignità della vita umana e la seconda all’autonomia degli individui[2].

Ebbene proprio nella prima parte un filosofo cattolico di orientamento personalistico faceva notare a un collega (anch’egli pro-life) noto per la sua competenza in ambito metafisico, che il presupposto dell’ assolutezza (la dignità dell’uomo quale valore assoluto) – un presupposto ontologico e antropologico indiscutibile che impone di trattare l’altro e me stesso come un fine – non richiede necessariamente che sul piano normativo la nozione di dignità della vita umana (“un principio morale contenutisticamente poco determinato e tuttavia non meramente formale, che costituisce… il nucleo oggettivo di un’etica minimale”) venga considerata come norma assoluta, ossia – interpretiamo – come comando determinato a priori da cui dedurre sillogisticamente norme concrete e situazionali, aventi la medesima cogenza dei princìpi teorici che governano la ragion pura teoretica.

Ciò potrebbe indurre a diversi fraintendimenti: ritenere che tale assolutezza prevenga il formarsi di conflitti di valore o illudersi che tali conflitti possano venire immediatamente e automaticamente superati in forza di un orientamento gerarchico assiologico predefinito[3]. In tal caso – continuava il filosofo – l’autonomia dell’ambito normativo sarebbe compromessa e verrebbe misconosciuto il ruolo tipico della razionalità pratica nell’affrontare le situazioni dilemmatiche particolari.

Non est eadem veritas, sosteneva del resto già san Tommaso, tra principi e conclusioni nella ragion pratica, perché in quest’ultima “la verità o rettitudine pratica non è la medesima nelle conclusioni particolari, ma solo nei principi più universali e, anche quando è la medesima, non è a tutti ugualmente nota”. Questo accade perché, a differenza della conoscenza speculativa (che avrebbe sempre a che fare con verità necessarie), l’etica deve applicare i precetti più generali (sto citando l’affermazione di un’apprezzata filosofa neo-tomista) ai casi particolari che sono sempre più complessi dei tipi di condotta ai quali si riferiscono i precetti universali[4].

Suicidio?

Costituisce ogni volta un impegno e una sfida per il magistero cattolico intervenire su temi attuali di bioetica. Il fatto che il dibattito intra-ecclesiale sembri negli ultimi anni meno vivace, concorre forse alla difficoltà di elaborazione e ricezione dottrinale. Basterebbe portare come esempio il volume che abbiamo dedicato al suicidio. Il titolo è Suicidio? Un dibattito teologico, volume uscito per i tipi della Claudiana (editore valdese), Torino, nel 2021. In questo testo ci siamo occupati (anche) di quelle situazioni cliniche in cui pesanti sintomi siano divenuti refrattari alle terapie (inclusa la stessa sedazione palliativa terminale e l’alimentazione/nutrizione artificiale[5]) e in cui il degrado psicofisico intacchi intimamente la vita del malato.

Certo, la dignità di quel soggetto resta la medesima e resta infinita[6]. Umilianti invece e “indegne”[7] sono le condizioni in cui egli si trova: sensazione di impazzire, logoramento psico-fisico legato ai sintomi che lo assediano (dispnea, delirio, nausea, dolore), insoddisfacente concentrazione mentale, disturbi nella comunicazione con l’entourage (anche se quest’ultimo è composto da persone attente, motivate, sensibili, assistite da unità di cure palliative domiciliari), perturbazioni cognitive e affettive che ostacolano persino l’auspicato accesso ai riti sacramentali e la confidente preghiera con Dio.

In tali situazioni è eticamente comprensibile, per ciò che abbiamo vissuto professionalmente e personalmente, che il malato avverta che il proprio tempo finale sia giunto e intenda scegliere le modalità più idonee, sul piano umano e cristiano, medico e spirituale, per vivere gli ultimi istanti. Il principio di tutela della vita non risolve però ogni dilemma. Se la dignità infinita si predica della persona, non della vita fisica, non è possibile giustificare “naturalisticamente” la patologia e i sintomi di sofferenza (che il DDF indica infatti come fenomeni da combattere e alleviare), in quanto essi purtroppo concorrono a produrre le situazioni alienanti, in cui la dignità inconfutabile della persona viene come oscurata e ferita.

Inoltre rispettare la dignità infinita di ogni persona (il leitmotiv del testo del DDF) non coincide col prolungare a ogni costo e il più possibile la sopravvivenza e, per il resto, lasciar fare alla natura. Anche così ci si esporrebbe a una fallacia naturalistica. Dio non è la natura. E le leggi della natura non sono quelle della Torah né quelle dell’amore cristiano.

È la persona, non la vita fisica, che merita cura massima ed eguale. Le forme in cui tale cura si esprime “degnamente” dipendono anche (come abbiamo detto) dalla irripetibile cifra spirituale del soggetto. Il diritto di vivere, in altri termini, va esercitato responsabilmente, come ogni altro diritto. Non c’è un diritto alla morte, ma c’è il diritto di immaginare e realizzare, con l’aiuto di chi ci è caro, un tempo finale congruente al valori supremi (fra i quali non rientra la sopravvivenza in quanto tale, ma piuttosto il servizio di Dio e dei fratelli, secondo la terminologia tradizionale), per cui spendiamo la nostra esistenza.

Il dilemma specifico (se e come intervenire sui fenomeni biologici della patologia) dunque permane. Le due alternative si presentano quotidianamente con drammatica urgenza: si tratta di consentire passivamente che la natura faccia, innocente e crudele[8], il suo corso, oppure di intervenire con delicato senso di prossimità, scegliendo le modalità più consone perché il malato (infinitamente degno sino alla fine) esca degnamente da una vita terrena ormai sostenuta da trattamenti divenuti sproporzionati e invasivi (come tali “indegni”).

Non solo. Il malato sa (può capitare che sappia) che potrà essere posto, senza scadenza prevedibile, in una sorta di coma artificiale, mentre le sue membra si deterioreranno. Sa che non proverà propriamente dolore, ma egli giudica previamente (può capitare che giudichi) “indegno” tale modo “innaturale” (nel senso di indotto “artificialmente”: la sedazione palliativa terminale continua) di attendere l’arresto cardiocircolatorio.

Egli perciò domanda, quando ancora è cosciente, che a tale degrado corporeo non sia dato il tempo di rovinare la residua bellezza della propria identità e di ferire la “dignità” del proprio corpo, che egli è e ama. Può accadere pertanto che egli faccia (attualmente o previamente) richiesta d’aiuto affinchè la gestione degli ultimi istanti di vita avvenga nel modo più congruo sul piano umano e cristiano.

Il problema etico, che si sta affrontando a livello delle accademie teologiche internazionali, è se alcune decisioni, che comportino abbreviamento della vita debbano venire qualificate, sempre e sotto ogni aspetto, come suicidio (e assistenza al suicidio) nel senso in cui la dottrina cattolica tradizionale lo condanna, o se invece tale qualifica (ricalcata sul modello di “omicidio”) sia diventata imprecisa quando venga riferita a situazioni inedite e a scelte assistenziali realizzate dalla biomedicina rianimatoria, anche in forza della differenza motivazionale in questione.

Non si tratterebbe infatti di un gesto egoistico, ma di un atto guidato da una spiritualità umana e cristiana, che oggi (fortunatamente) ha imparato a distinguersi da una fatalistica rassegnazione all’estendersi e aggravarsi di un male inguaribile e resistente a ogni trattamento. Il malato non intende affatto sostituirsi presuntuosamente al Signore della vita, né trattare il corpo come mezzo per guadagnare soddisfazioni o prevenire patimenti (nell’inversione mezzo-fine che preoccupava Kant).

Ebbene ci aspettavamo che, anche in merito al nostro citato volume, intercorresse un dibattito teologico più serrato. Ma così non è stato. Questa relativa indifferenza potrebbe forse dipendere da un’incertezza teologico-morale, che impedisce di affrontare in modo pertinente situazioni che richiedono un’attenzione casistica peculiare. Che cosa manca?

L’impasse teologico-morale

Manca anzitutto (a) la capacità di interpretare in modo simbolico le norme morali tipiche della seconda tavola del decalogo. Esse valgono senza eccezione se intese come figure di una disposizione radicale di prossimità verso il sofferente, e più in generale verso ogni fratello. Intese invece in senso materialistico, private della considerazione della libera intenzione degli agenti morali coinvolti, scisse dalla comprensione del contesto simbolico (in cui chi vive esplicita un desiderio e vi àncora le scelte decisive), le norme non sfuggono al problema delle innumerevoli eccezioni che la complessità della vita eleva[9].

Manca in secondo luogo (b) una valorizzazione adeguata delle coordinate narrative di cui si alimenta il giudizio morale e di cui inevitabilmente facciamo uso quando diamo ragione delle nostre speranze. Il Sinai (il momento della consegna delle leggi) può essere inteso solo dopo avere narrato l’esperienza dell’Esodo (la vicenda grata e promettente della liberazione da Faraone). Fuori da tale storia, il decalogo e la Torah (“guida” e non “legge”, nella corretta traduzione dall’ebraico) sono fraintesi.

Allo stesso modo, il significato di un gesto può essere colto solo dentro la sequenza di fatti (di eventi ed esistenti, come dicono i narratologi), in cui esso è collocato ed entro un’intera storia personale[10]. Privati di questo stilema narrativo, sconnessi dal ritmo temporale lungo cui avanza la vita umana, siamo nell’ impossibilità di connettere il giudizio morale (su singoli atti) alla fede in storie dell’origine.

Il racconto adamitico, la storia del Figlio incarnatosi tra noi e per noi, la rivelazione offerta dalle parabole, sono questi tessuti narrativi che offrono concetti e idee guida per dar voce a una reazione emotiva e articolarla in una valutazione. Il contributo germinale che abbiamo proposto sotto il titolo di Teologia del cinema (una versione specifica della teologia narrativa, la “cenerentola” fra le prospettive giustificative in etica) va in questa direzione[11].

Non si danno con frequenza (c) luoghi di scambio tra ricercatori, filosofi e teologi in merito al significato del bene. Non basta fare una ricerca collettiva in parallelo e comporre insieme un volume, se i capitoli sono semplicemente giustapposti l’uno all’altro. Non capiamo a che serva una scansione come la seguente: un’introduzione dell’uomo di scienza, un commento teologico e infine un’analisi di filosofia; il tutto moltiplicato per una decina di temi di bioetica. E non basta neppure che le bozze, di diversa fattura, siano state lette e approvate da tutti gli autori, che (non certo per caso) risultano avere orientamenti teorici convergenti.

Questo facile, troppo facile, modulo editoriale è rapido nel produrre, ma incapace di giustificare ciò che avviene nell’ambito pluralistico in cui viviamo, un ambito per il quale sarebbe necessario uno sforzo interdisciplinare ben più impegnativo. Il teologo dovrebbe confrontarsi punto a punto con tradizioni di ricerca rivali (dentro e fuori la teologia) e il filosofo (come fece Jaspers con Bultmann) dovrebbe contestare i presupposti metodologici tipici del “sapere della fede”, quando tali presupposti appaiano non convincenti.

Al ricercatore spetterebbe poi di indicare i luoghi in cui entrambe le prospettive speculative balbettano nel portare a sintesi i recenti dati biologici (si pensi all’etica d’inizio e di fine vita), che stanno ponendo in tensione le categorie valoriali tradizionali. Senza questa intersezione, i manuali realizzati a “sandwich” (panino) diventano inquietanti “witches” (streghe). Essi non fanno che confermare, senza argomentarla, l’idea che la fides sia lo stesso binocolo, ma più potente, di quello impiegato dalla ratio. Di una disputatio vera e propria non ci sarebbe perciò bisogno (così si conclude bruscamente).

Reciprocamente il filosofo (solitamente un personalista di radice metafisica o neokantiana, che sia d’osservanza cristiana, per evitare contrasti accesi) ricambia il favore tollerando il salto teologico come un utile riempimento decorativo, mitico, immaginifico, liturgicamente espressivo, di ciò che la ratio dice da sola, anche se più sobriamente, in nome di Aristotele o Kant.

Non si vedono poi con frequenza veri allievi di Ricoeur nel portare a frutto la lezione etica insita nella psicoanalisi. L’ermeneutica del desiderio (d) è ancora poco presente nella morale teologica in area sia cattolica che riformata[12]. Ciò svuota la fede delle sue dimensioni affettive, scivolando o verso uno spiritualismo ingenuo o in un razionalismo freddo. E dall’altro lato ci si preclude di intendere il kerigma  come un’attestazione rivolta a me, alla prima persona, con i miei interessi, emozioni, speranze, paure, istinti non addomesticati.

Le inclinazioni personali, che fanno di una decisione la mia decisione, la decisione che io assumo, davanti a Dio e agli uomini, come me stesso, proprio io (ipse), come il personaggio della vicenda (la mia) di cui Cristo è mio contemporaneo, sono descritte come un inutile accumulo di materiali grezzi, che eventualmente, ma sempre dopo, in un tempo ulteriore all’elaborazione delle norme, il counseling pastorale dovrebbe rieducare e offrire in pacchetti comportamentali devozionali elegantemente confezionati.

L’impasse teologico si connota inoltre (e) per una svalutazione reiterata delle valenze estetiche del pensiero credente in ambito morale. Anche qui le eccezioni sono poche[13]. Non solo si pensa che gli affetti accechino la ragione, ma si teme che l’immaginazione la distragga. Sul piano casistico, non ho potuto rilevare una contestazione seria della mia tesi che l’etica clinica costituisca un analogo della critica d’arte[14].

Tale linea di ricerca è stata accantonata prima ancora di essere perlustrata. Eppure vengono dall’estetica vocaboli decisivi per il giudizio situazionale: un “bel” gesto, una cura “proporzionata”, un’azione “well done” come si dice per le opere post-dadaiste, che non identificano la vera bellezza con una conformistica armonia e non scambiano la cacofonia (intollerabile anche per Adorno) con le ragioni dell’autentica dissonanza. Impoveritosi il linguaggio, il pensiero non riesce a distinguere e nominare le analogie tra gesto e opera d’arte, tra azione e testo, tra opzione morale e indirizzo narrativo, con buona pace di Iser, Booth, Ricoeur. Eppure Gadamer aveva sottolineato questa verità platonica: in molte situazioni il bene è così difficile da trovare, perché si nasconde nel bello, dove è più suscettibile di essere colto sensibilmente.

L’ultima ragione dell’attuale impasse teologico (f) risiede nel non aver preso sul serio il carattere letale della morte. Sia sul piano della riflessione escatologica, che su quello della pastorale di fine vita, si cerca di evacuare la contraddizione irrisolvibile rappresentata dal male “genuino”: dolore ingiustificato, malattia infausta, morte irrimediabilmente prematura. La leale lamentazione del sofferente (così coraggiosamente e lealmente espressa nei Salmi di dolore, imprecazione e supplica) viene privata di una parola che la renda coerente e condivisibile.

L’attestazione che la morte non dovrebbe esserci (nel senso dei “novissimi”: sarà vinta e tolta per sempre) in quanto proveniente dall’invidia del diavolo ed entrata nel mondo a causa del peccato, viene anemizzata e “normalizzata” razionalisticamente. I teologi “mortalisti” e “neo-doloristi” ritengono che solo l’empio avverta lo scandalo della fine (sua e dei suoi cari) e che il trapasso del credente virtuoso dovrebbe somigliare a quello, senza grida e strepiti, che il saggio stoico raccomandava ai suoi allievi. Si dovrebbe “accettare” (un vocabolo difficile da usare dopo Auschwitz) l’irruzione del male e sostituire, quando è il caso, la resa alla resistenza (contro Bonhoeffer, che ha sempre insegnato che l’opposizione morale alla morte è il simbolo legittimo del desiderio cristiano di salvezza).

In parallelo, la proclamazione del Regno veniente di Dio è stata spinta alla periferia del kerigma[15], che ormai si focalizza quasi esclusivamente sulla “croce” e scambia la fine con il fine, confondendo la mortalità (deprecabile) con la finitudine (costitutiva della nostra natura). I “mortalisti” raccomandano pazienza: la morte sarebbe naturale e normale (così essi dicono) in quanto ingrediente intrinseco dell’essenza creaturale umana[16].

  • Paolo Marino Cattorini è counselor filosofico e studioso di Bioetica clinica, disciplina di cui è stato Professore ordinario in Università degli Studi. È stato componente del Comitato nazionale per Bioetica.

[1] Ci riferiamo a: Dicastero per la Dottrina della Fede (d’ora in avanti DDF), Dichiarazione Dignitas Infinita circa la dignità umana, 2 aprile 2024.

[2] Titolo del volume è Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana e l’autonomia degli individui, Milano, Zadig, 1999. L’intervento a cui ci siamo rifatti è quello di Antonio Da Re “La nozione di dignità della vita umana: autonomia e riconoscimento reciproco”. Da Re commenta Carmelo Vigna “Sulla dignità della vita umana in prospettiva bioetica”. Il volume ha rappresentato a nostro avviso il punto più alto in terra italiana del dibattito bioetico fra diverse famiglie morali, divise tra loro appunto per ciò che riguarda la nozione di dignità e autonomia. In riferimento alla versione del sentimentalismo di Hume in tema di dignità soggettiva raccomandiamo la lettura di Eugenio Lecaldano, ivi, “La nozione di dignità della vita umana: esposizione, critica e ricostruzione”.

[3] Sosteneva Da Re, p. 51-52.

[4] Si tratta di Sofia Vanni Rovighi, Istituzioni di filosofia, Brescia, La Scuola, 1982, p. 145.

[5] Sulla possibile gravosità, eccessiva per il paziente, di tale forma elementare di cura cfr. Medicina e Morale 2007, n. 6, p. 1276, ove si può leggere: Congregazione per Dottrina della Fede,  “Nota di commento alle Risposte a quesiti della Conferenza episcopale Usa”, 1 agosto 2007. Refrattario significa (anche) che l’eventuale vantaggio di certe cure è superato dagli svantaggi prodotti dalle medesime.

[6] Nel testo 2024 del DDF si ribadisce che la sofferenza non fa perdere al malato la dignità intrinseca e inalienabile che gli è propria e anzi può essere occasione per percepire la preziosità di ogni persona, sofferente o no, per la comunità intera. Condividiamo questa premessa.

[7] Virgolettiamo l’aggettivo “indegno” come fa il DDF parlando della miseria di certe condizioni sociali.

[8] La natura studiata dalle scienze fisiche e biologiche non ha, ovviamente, intenzioni malevole, quindi è innocente sul piano morale, ma non è innocente (poiché “nuoce”) sul piano oggettivo, poiché i suoi effetti sono vissuti e giudicati dall’essere umano come negativi, minacciosi e causa di sofferenze (crudeli dal senso latino di “crudus”), e quindi tali da meritare di venir prevenuti o combattuti.

[9] Abbiamo ripreso espressioni di G. Angelini, Teologia morale fondamentale, Milano, Glossa, 1999 e Id., in AA.VV., L’evidenza e la fede, Milano, Glossa, 1988, p. 438.

[10] P.M. Cattorini, Un buon racconto. Etica, teologia e narrazione, Bologna, EDB, 2007.

[11] P.M. Cattorini, Teologia del cinema, Bologna, EDB, 2020. Il genitivo è da intendere come soggettivo: non un’analisi religiosa dei film (i film studies di matrice Usa), ma il cinema (la pratica di fare cinema e andar al cinema) come cifra per nominare la parola creativa di Dio, anche quando un film non ha alcun contenuto espressamente religioso. Il cinema (come la narrazione in generale) pensa Dio, sempre.

[12] Rara eccezione è il bel libro di G. Angelini, Il figlio. Una benedizione e un compito, Milano, Vita e Pensiero, 1991; Id., Le ragioni della scelta, Magnano, Qiqajon, 1997. Cfr. anche i corsi di Teologia fondamentale svolti negli ultimi anni da Sergio Ubbiali presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.

[13] N. Steeves, Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia fondamentale,Brescia, Queriniana, 2018; P. Sequeri, Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica, Brescia, Queriniana, 2016.

[14] P.M. Cattorini, “Clinical Ethics as Applied Aesthetics”, J. Aesth. Education, Illinois University,  v. 48, n.2, Summer 2014, pp. 16-35.

[15] C. Böttigheimer, Il messaggio di Gesù sul regno di Dio. Il centro perduto della fede cristiana, Brescia, Queriniana, 2024.

[16] Abbiamo criticato questa tesi in Perché il male. La trascendenza di Dio, Bologna, Il Portico Editoriale, 2023. Restiamo in attesa di repliche, tutte benvenute.

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3 Commenti

  1. Angela 18 giugno 2024
  2. Luciano Salvatore Rocca 17 giugno 2024
  3. Valentina 17 giugno 2024

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