Pop-theology: cultura e immaginazione

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pop21

Venerdì pomeriggio 7 giugno, è stato presentato a Cuneo il libro di Antonio Staglianò (Presidente della Pontificia Accademia di Teologia e già vescovo della diocesi di Noto), dal titolo Zibaldone della pop-theology. Teologia dell’immaginazione per comunicare la sapienza della fede (Mimesis & Santocono, Rosolini 2014). Il corposo volume, di imminente commercializzazione, raccoglie, numerosi scritti di Antonio Staglianò, inventore e convinto promotore della Pop-Theology, cioè di una teologia, non lusso per pochi ma opportunità per molti. Teologia appunto, popolare, che – come scrive papa Francesco nella prefazione di un libro del medesimo autore edito lo scorso anno, «esce da sé stessa per abitare altri luoghi; non solo l’accademia ma anche la strada; non solo la ricerca scientifica, ma anche le domande del cuore; non solo la ragione, ma anche l’immaginazione» (Antonio Stagliano, Ripensare il pensiero. Lettere sul rapporto tra fede e ragione a 25 anni dalla Fides et ratio, Marcianum Press, Venezia 2023). Teologia non estranea a ciò che Tomáš Halík scrive in Pazienza con Dio (Vita e pensiero, Milano 2020, p. 23): «Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, si sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate […]. Altre, invece, sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire ad esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella. Sabato 8 giugno, presso il monastero di San Biagio Mondovì, il presidente della Pontificia Accademia di teologia ha animato, con straordinaria efficacia, un partecipato incontro, intercalato anche da musica e canti, sul tema: «Pop-Theology della giustizia dell’amore. Come deve essere l’amore per essere come deve?». In vista dei due eventi, organizzati dalle associazioni «La Tenda dell’Incontro Giovanni Giorgis» e «Casa do menor Italia» con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fossano, Antonio Staglianò ha concesso al settimanale della diocesi di Mondovi L’Unione Monregalese una stimolante intervista pubblicata il 29 maggio e il 5 giugno che qui riportiamo integralmente.

  • Mons. Staglianò, il nostro occidente secolarizzato considera giunta al capolinea la fede cristiana in quanto tale o piuttosto una certa modalità di pensarla e di viverla?

In teologia si distingue tra secolarizzazione e secolarismo. La prima è riferita alle cosiddette «autonomie delle realtà terrestri» e sarebbe stata propiziata dal cristianesimo stesso. Il secolarismo, invece, è tutt’altra cosa: approfitterebbe della perdita di influenza della religione nella vita pubblica e privata – dovuta a processi di industrializzazione e di urbanizzazione, ma soprattutto a certo materialismo del benessere diffuso delle società dell’ipermercato – per decretare la necessaria fine della fede cristiana.

In alcuni paesi, come la Francia, si parla di “esculturazione del cristianesimo” ed è noto che l’Europa non ha voluto riconoscere le sue “radici cristiane”.

Esiste il pregiudizio illuministico che risale alle guerre di religione. Le religioni sarebbero foriere di integralismo, perché predicano una verità assoluta, quella della volontà di Dio sugli uomini (almeno per le religioni monoteiste). E però la verità cristiana su Dio parla d’amore e di dialogo, di fratellanza e di solidarietà, chiedendo testimonianza fattiva al comandamento di Gesù.

Credo che, al capolinea, ci sia ormai certa cristianità vissuta e percepita come affermazione di “potere” e di “superiorità” (vogliosa ancora di condizionare la vita politica) che asserve più che liberare. Il cristianesimo vitale però affranca dalle schiavitù individuali e collettive e aiuta l’umano che è comune a non degradare nella barbarie (e questo anche nella vita politica).

In verità, è l’Occidente che sta tramontando, perché orienta alla depressione e ad una infinita solitudine degli esseri umani. Per non parlare di quell’Occidente che si trova in parti del mondo dove la miseria domina e l’utilizzo della tecnologia porta false illusioni, oltre che una devastazione culturale più terrificante delle vecchie colonizzazioni (armate). Se questo Occidente tramonta – con il suo individualismo e con il suo sfruttamento – trascina con sé anche quegli aspetti della fede religiosa cristiana che si erano “aggiornati, accomodandosi” con la visione del mondo occidentale.

  • Oggi, le nuove generazioni (ma non solo) sono davvero lontane dal Dio di Gesù Cristo o piuttosto da false e irricevibili immagini di Dio che purtroppo sono state loro trasmesse?

I millennials sono stati considerati la «prima generazione incredula» (A. Matteo). È vero? Se si, sarebbe davvero un fenomeno mai visto prima d’ora. Per esperienza personale – sono stato vescovo a Noto per quattordici anni, ma bazzico le chiese da quando ero bambino – posso attestare che «di giovani in Chiesa non ce ne sono». Difficilmente poi, quelli che ancora circolano nelle parrocchie, fanno percorsi seri di maturazione della fede cristiana. Qualcuno si trova – è da riconoscere – nei gruppi e movimenti ecclesiali che dopo il Concilio sono stati (e in parte lo sono ancora) una grande primavera dello Spirito.

Tutti i giovani di oggi sono sulle piattaforme dei social network e dentro le braccia dell’ipermercato che coccola (ma anche istruisce) il narcisismo che ognuno di noi si porta dentro (come fosse un fantasma inconscio, per tanti). In società dove il denaro è diventato il generatore simbolico di tutti i valori e si giunge alla barbarie culturale di gente che guadagna in modo facile perché indossa un oggetto, non è difficile capire come Zygmunt Bauman avesse ragione quando sosteneva: «consumo, dunque sono».

Il sentimento di vivere, il senso dell’esistenza non è più cercato da nessuna parte. Il nichilismo è l’ospite inquietante dei giovani (Umberto Galimberti) e nichilismo vuol dire che «manca il senso e manca lo scopo».

Se Gesù Cristo dovesse essere una «risposta alla domanda di senso della vita», il giovane di oggi dice che «non si pone nemmeno la domanda». E questo non tanto per Gesù Cristo, ma per gli scandali che nella Chiesa vengono enfatizzati e fanno perdere la fiducia nel clero e nella predicazione cristiana.

La cosa è tanto più singolare quando chi predica non dice bene di Dio e, dentro certo moralismo, comunica un «Dio tappabuchi» o un Dio punitivo perché giusto e non solo misericordioso. E magari denuncia come «eretica» l’eccessiva insistenza di papa Francesco sulla misericordia e la sua «fissazione» sui poveri e gli scartati, gli emarginati, dunque sulla vita operosa della carità rivolta agli immiseriti della terra.

L’immagine del Dio violento è irricevibile. Eppure c’è chi, come il Patriarca cristiano russo Kiril, sostiene che Gesù Cristo sia dalla loro parte in questa guerra «santa» contro l’Ucraina e la sua volontà di lasciarsi demonizzare dall’Occidente con la sua «cultura liquida».

  • In particolare, in che modo la riflessione teologica può mettere in luce la sensatezza antropologica e la rilevanza culturale umanizzante della fede cristiana?

La riflessione teologica ha a che fare per «mestiere» con la «critica» e dunque anche con l’«autocritica», in nome della Verità di Dio in Gesù di Nazareth. Questa Verità è la sua stessa vita, tutta concentrata (eucaristicamente) nell’unico comandamento dell’amore: «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi».

Gesù racconta alcune parabole in cui parla della vendetta di Dio – per esempio, del padrone della vigna contro i vignaioli che uccidono il figlio – come una terrificante azione di massacro e, comunque, di destinazione all’inferno.

E però, nell’evento del Figlio di Dio ucciso sulla croce, questo non accade, anzi Gesù invoca il perdono su quelli che gli stavano donando la morte. Non è giusto! Certo che no: è del tutto ingiusto. Eppure il crocifisso mostra in atto quella «superiore giustizia di Dio» di cui Gesù aveva sempre predicato contro la cosiddetta giustizia della Legge e dei farisei.

Un Dio così, così come lo mostra Gesù, è un Dio solo e sempre amore, che non punisce (i castighi non sono mai di Dio, ma sempre degli uomini e provengono dalla «nemesi storica» per dirla con i greci antichi), non colpisce con il male, mandando alluvioni (come avrebbe fatto con il diluvio universale) o pestilenze (tipo il coronavirus, come alcuni cattolici doc hanno gridato anche attraverso le radio). Pertanto, tutto ciò che fino ad ora è stato attribuito alla «giustizia di Dio» va cercato in altre fonti.

La teologia deve poterlo spiegare criticamente, perché tutti i credenti hanno diritto al servizio dell’intelligenza critica della fede e non possono morire con false idee di Dio in testa. E questo perché le idee «su Dio» hanno riguardato soprattutto l’uomo. Perché? Se tutti gli uomini sono creati «a immagine e somiglianza di Dio», conoscere il volto vero di Dio è decisivo per capire chi siamo e cosa dobbiamo fare in questa vita. Così, si può dire con Renato Zero nella canzone «Gesù» (che invito tutti ad ascoltare), se stiamo devastando l’ambiente («fiumi ormai interdetti e discariche laggiù»), se ormai soffriamo di profonda solitudine («soli più soli di sempre, il cuore non ce la fa») è perché «Gesù, non ti somigliamo più».

Ecco, l’umanità bella e buona di Gesù è l’immagine e somiglianza in cui siamo stati creati. Più non assomigliamo a Gesù, più assomigliamo all’Anticristo: non ci sono vie di mezzo per bivaccare!

La fede cristiana è tutta concentrata sulla salvezza che l’umanità di Gesù, come «strumento congiunto» (san Tommaso) porta al mondo, perché è l’umanità identica al Figlio di Dio nella carne. Vivere questa umanità e raggiungere la sua «misura perfetta» è il vissuto della fede.

E questo ha rilevanza culturale se – come ha sostenuto Giovanni Paolo II –, la «cultura è ciò per cui l’uomo diventa più uomo». Il dono della fede cristiana è per la pienezza e la bellezza della nostra umanità.

***

  • Perché papa Francesco ha ritenuto di affidare la presidenza della prestigiosa e secolare «Pontificia Academia Theologica» a un convinto promotore della «Pop-Theology» come lei? 

Mi ha davvero sorpreso, papa Francesco, qualche anno fa, in un’Assemblea generale della CEI (ricordo che eravamo in tempi di covid), quando disse di aver letto «Pop-Theology 5. Dibattito pubblico e inculturazione (Teologia per tutti)». Un mio prete glielo aveva consegnato in una udienza generale. Credo che proprio in quel momento abbia pensato a chiamarmi a Roma per lavorare in questo settore dell’evangelizzazione.

Si! Perché il servizio teologico è fondamentale per la predicazione cristiana. Se il vangelo deve diventare «sapienza per la vita», occorre che l’intelligenza spirituale delle sue verità (esistenziali) vengano mostrate nella capacità di illuminare i passi degli umani, non solo credenti.

Oggi c’è l’urgenza di «camminare insieme» con tutti per trovare insieme le vie migliori per resistere al degrado umano in società sempre più marchiate dalla violenza, dai soprusi, dalle vendette, dai discorsi di odio. Allo scopo bisognerà valorizzare non solo le filosofie o anche i concetti delle scienze, ma piuttosto il «senso comune», dentro il quale c’è un forte sentimento di attaccamento alla realtà reale.

Invece, con la tecnologia stiamo sognando il Metaverso e realtà virtuali che rischiano di esser alienanti e di distrarci dalle relazioni fondamentali della vita che sono i nostri affetti, i sentimenti di cura e di amicizia, la nostra fratellanza e solidarietà, nelle quali siamo felici, perché riempiamo di significato i nostri tempi: passando, come dice Angelina Mango nella canzone «La Noia», dai «tempi usati» (magari a far soldi, a tutti i costi) ai «tempi più umani» perché tempi del donarsi nell’amore.

Ho avuto modo di interpretare questa canzone (su «Famiglia cristiana», per esempio, o anche a «RAI Inforadio» nella trasmissione Crossover) che – a mio avviso – esprime il genio del cristianesimo, quando dice che per cambiare davvero la festa e vincere la «noia» bisogna che «il Dress Code della festa sia la corona di spine».

La Pop-theology, essendo teologia, non si discosta dal suo tema che è il sapere della fede, cioè la rivelazione di Dio in Cristo, ma si impegna a utilizzare i registri dell’immaginazione, tutti i registri artistici, per comunicare criticamente le verità della fede cristiana. Altro che «banale strategia per attrarre i giovani» o «qualcosa di effimero», come qualche inconsapevole alto prelato ha dichiarato recentemente a Adnkronos, stupendo quanti conoscono la serietà «scientifica» della Pop-theology. Sono già tanti i libri che ne parlano e ringrazio voi per avermi invitato per primi a presentare anche in Piemonte l’ultima fatica «Zibaldone della Pop-theology. Teologia dell’immaginazione per comunicare la sapienza della fede» (Mimesis- Santocono 2024) che vi dedica più di mille fitte pagine (senza foto, per intenderci).

  • Qual è il sogno del teologo, del vescovo e del presidente della «Pontificia Academia Theologica» Antonio Staglianò?

Il mio sogno è che il cristianesimo ritorni ad essere – come all’origine – una fonte di acqua viva per quanti hanno fame e sete di verità, di giustizia e di pace in questo mondo così conflittuale e in questi tempi di grandi ingiustizie. Allo scopo, spero che la teologia venga colta sempre di più come «un servizio ecclesiale» per il bene della trasmissione della fede e per l’umanizzazione sociale della nostra convivenza civile.

Salutando la Delegazione dell’International Network of societies for catholic Theology (INSeCT), il 10 maggio 2024, papa Francesco ha detto: «La teologia è davvero un prezioso ministero ecclesiale, di cui abbiamo bisogno. Anzitutto, perché appartiene alla fede cattolica il rendere ragione della speranza a chiunque lo chieda (cf. 1Pt 3,15). E sappiamo che la speranza non è un’emozione o un sentimento, ma la persona stessa di Gesù, via verità e vita (Gv 14,5).

Poi, la teologia è preziosa nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, in società multietniche in continua mobilità, con interconnessione di popoli, lingue e culture diverse da orientare, con consapevolezza critica, verso la costruzione di una convivenza nella pace, nella solidarietà e nella fratellanza universale (cf. Fratelli tutti) e nella cura della nostra casa comune (cf. Laudato si’)».

Bello questo incoraggiamento del vescovo di Roma che conferma nella fede e dunque anche nella missione! Non si può non concordare. A una Chiesa in uscita corrisponde una teologia in uscita e la teologia che il papa sogna (e noi con Lui) è la teologia sapienziale, una teologia che sa di carne e di popolo.

  • Ha a che fare questo con la sua critica al cattolicesimo convenzionale?

Assolutamente sì! Cattolici convenzionali possiamo esserlo tutti. E lo siamo, quanti di noi, hanno a cuore più il fissismo delle dottrine che il dinamismo della grazia di Dio che scende misericordiosamente su tutti.

Approfitto per una precisazione: nei miei libri, quando sostengo che bisognerebbe dismettere l’ossessione per la dottrina, non indico di smantellare le «dottrine» (di cui abbiamo sempre bisogno). Attacco piuttosto la «tentazione persistente» di limitarsi a «praticare una fede come adesione alla dottrina da credere» senza vivere le «conseguenze esistenziali e storico-pratiche (dunque socio-politiche) che il cristianesimo comporta»!

Alcuni anni fa, ho scritto una piccola opera con la ElleDiCi dal titolo «Oltre il cattolicesimo convenzionale»: il sottotitolo è «L’umanità di Gesù, verità, senso, libertà per tutti». È tutto chiaro, allora! Si può essere cattolici e non vivere da cristiani. Non è infatti la nostra vita una continua conversione? Per essere cristiani dobbiamo stare sulla Via che è Gesù e il cristianesimo è «sequela Christi».

La teologia serve la Chiesa se ricorda (a modo suo, ovviamente, cioè in modo critico) che la fede senza carità cristiana è fede morta, cioè non è la fede (sicuramente non è quella cattolica). La fede cattolica è «fides quae per charitatem operatur» (fede che opera attraverso la carità).

Aver inventato una fede «vivibile» a prescindere dalla carità è una stranezza insopportabile.

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