Un papa infallibilmente solitario?

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Ecco ora disponibile la traduzione ufficiale dall’originale inglese – pubblicata dal Dicastero per l’unità dei cristiani (divenuto, il 5 giugno 2022, Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani) – del “Documento di studio”. Diviene pubblico «con l’accordo di sua santità papa Francesco», ed è intitolato Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica “Ut unum sint.

Messo a disposizione di tutti dal card. Kurt Koch, Prefetto del Dicastero, è un testo molto ricco, che merita indugio, riflessione attenta e studio (non solo nei Centri universitari teologici, ma anche nelle parrocchie e negli Istituti religiosi). Esso intende, infatti, inserirsi nel lungo e articolato processo storico-teologico-dottrinale-giuridico, che favorisce la cosiddetta recezione dei concili da parte del popolo di Dio, in unione col Magistero.

In particolare, leggendo il Documento del Dicastero, si può alludere, in un orizzonte generale, alla specifica recezione della dichiarazione conciliare Nostra aetate (approvata dai padri del Vaticano II e promulgata da Paolo VI il 28 ottobre 1965): essa segnò una svolta irreversibile nei rapporti tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, cambiando in modo significativo l’approccio del cattolicesimo nei confronti delle religioni non cristiane.

Ma soprattutto, in un orizzonte più specifico, ci si deve riferire alla recezione del non lungo decreto conciliare sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, che si concludeva solennemente con un mai sopito, ma vivo, desiderio di tutti i padri conciliari: «Questo santo Concilio desidera vivamente che le iniziative dei figli della Chiesa cattolica procedano congiunte con quelle dei fratelli separati, senza che sia posto alcun ostacolo alle vie della Provvidenza e senza che si rechi pregiudizio ai futuri impulsi dello Spirito Santo. Inoltre, dichiara d’essere consapevole che questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane» (n. 24).

The Bishop of RomeIl Vescovo di Roma – merita, perciò, peculiare riflessione da parte di tutti coloro che si vanno preparando all’ormai imminente seconda assemblea del Sinodo dei vescovi (attesa per ottobre 2024), allorché le espressioni linguistiche sinodalità e conciliarità torneranno certamente a risuonare, in relazione al popolo di Dio, ai suoi Pastori delle Chiese particolari e, soprattutto, al Pastore della Chiesa di Roma, che, nell’amore, presiede a tutte le altre Chiese. Ciò dovrà avvenire non soltanto da parte di teologi, storici e specialisti del dialogo ecumenico, ma di ogni cristiano (anche del non credente, purché sia in ricerca della verità).

Anche l’enciclica Ut unum sint – promulgata dal papa santo Giovanni Paolo II – viene ora opportunamente ripresa da questo Documento vaticano, che si auto-qualifica come «una sintesi oggettiva dei recenti sviluppi ecumenici sul tema, riflettendo così le intuizioni ma anche i limiti degli stessi documenti di dialogo» (di cui ci viene dato, in ogni caso, un utilissimo elenco nelle Fonti, pp. 134-142).

Ecco la domanda di fondo: quale recezione a livello ecumenico ha avuto l’enciclica del 1995 di Giovanni Paolo II? La risposta ad essa può avvenire recensendo e riassumendo – come fa il documento pubblicato dal card. Koch – sia una trentina di risposte alla Ut unum sint, sia ben cinquanta documenti di dialogo ecumenico sul medesimo tema; ma altresì – come già si è fatto da parte del Dicastero – ampliando il coinvolgimento nel dibattito, non solo da parte del personale, dei membri e dei consultori del Dicastero, nonché dei molti esperti cattolici e numerosi studiosi già coinvolti.

Del resto – come leggiamo in The Bishop of Rome –, siamo ormai posti esplicitamente di fronte a «una sintesi oggettiva dei recenti sviluppi ecumenici sul tema, riflettendo così le intuizioni, ma anche i limiti, degli stessi documenti di dialogo» (dalla Prefazione). Il tutto allo scopo di suscitare «stimoli e anche ulteriori approfondimenti teologici e suggerimenti pratici».

Lo snodo di fondo è biblico-storico

Secondo il Documento di studio, quattro sono i nodi – e gli snodi – teologici fondamentali, ancora da approfondire: «i fondamenti scritturistici del ministero petrino, lo jus divinum, il primato di giurisdizione, l’infallibilità» (n. 33). Alcuni di questi vengono presentati mediante «alcuni nuovi approcci e accenti».

Da parte nostra, vorremmo, per ora, indugiare sul primo e sul quarto nodo, che hanno a che fare con la rilevanza della formulazione dogmatica dell’infallibilità pontificia: «Con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per sé stesse, e non per il consenso della Chiesa» (Pastor aeternus, 18 luglio 1870).

Domandiamoci ulteriormente, sollecitati dal Documento del card. Koch: quale ministero di unità fu configurato, secondo le attestazioni neotestamentarie, da parte dei padri del Vaticano primo, e come esso fu approfondito e aggiornato nel Vaticano secondo? Si vuole alludere, forse, a un Papa infallibilmente solitario? Cosa potrebbe implicare, in tale descritto orizzonte, la decisione odierna di papa Francesco di porre l’accento «sul titolo di “Vescovo di Roma” fin dall’inizio del suo pontificato, mentre gli altri titoli pontifici sono ora elencati come “storici” (cf. Annuario Pontificio 2020)»? Se tale decisione «contribuisce anche a una nuova immagine del ministero petrino» (n. 2), potrebbe, forse, aiutare anche a una più precisa recezione del Vaticano I e del Vaticano II che, a sua volta, resti comunque fedele alle attestazioni bibliche e non soltanto alla varietà delle interpretazioni?

A queste, e a simili domande, può aiutare a rispondere una sintesi oggettiva dei recenti sviluppi ecumenici, che viene ora redatta per riflettere sulle intuizioni originarie, ma anche sui limiti degli stessi documenti di dialogo fra la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane (quelli sottoscritti, per lo più bilaterali), in particolare nell’ultimo cinquantennio.

Se il Documento odierno, come leggiamo, «non pretende di essere una sintesi del magistero cattolico o della risposta cattolica alle riflessioni ecumeniche, né di essere uno status quaestionis dell’intero dibattito teologico, ma di rappresentare una “raccolta dei frutti” dei recenti dialoghi ecumenici» (n. 5), resta comunque vero il fatto che «una nuova comprensione del ministero papale» (n. 5) non può che essere un’opera di ritorno sul testo sacro, allo scopo del rinnovamento, dell’aggiornamento della dottrina ecclesiologica; e, con l’apporto del dialogo ecumenico, non può che essere uno studio prospettico circa eventuali nuove forme nelle quali il ministero petrino potrebbe realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri cristiani, ancorché ancora separati. Il tutto, però, senza mai dimenticare il dato biblico, così come interpretato anche dalla Tradizione cattolica, che continua a collegare in modo diretto «il ministero del Vescovo di Roma alla persona e alla missione di Pietro» (n. 34).

Di fatto, ci viene esplicitamente chiesto di «evitare una proiezione anacronistica di tutti gli sviluppi dottrinali e istituzionali riguardanti il ministero papale nei “testi petrini”, e a riscoprire una diversità di immagini, interpretazioni e modelli nel Nuovo Testamento» (n. 36); ci viene altresì domandato di comprendere cosa possa effettivamente comportare la «funzione petrina del ministero» (n. 43).

Il ritorno, orante e dottrinale sul testo sacro da parte cattolica, non può non osservare, tuttavia, che, tra le varie leadership attestate nel Nuovo Testamento, oltre a quella di Pietro emerge non solo la leadership del gruppo degli apostoli in solido (è impostazione “sinodale”, se così vogliamo definirla; ma sarebbe meglio dire, in tale specifico caso, “collegialità”), ma anche la leadership di Giacomo, il fratello del Signore, capo della comunità di Gerusalemme, nonché di Paolo di Tarso, che si presenta quasi come un secondo fondatore del cristianesimo.

Inoltre, in Gal 2, si legge testualmente che Paolo e Barnaba incontrano le “tre colonne”, Giacomo, Pietro e Giovanni, che sono, pertanto, dei punti di riferimento per tutte le comunità cristiane delle origini.

Gli stessi testi neotestamentari assegnano comunque a Pietro un ruolo di coordinamento. Gli Atti sono, da questo punto di vista, assai espliciti; il Vangelo di Giovanni, soprattutto al capitolo 21, fa lo stesso.

Comunque lo si voglia interpretare, nei testi del Nuovo Testamento Pietro eredita da Gesù la funzione di guida, che non significa di “monarca assoluto”. Non si tratta, ci sembra, di un Pietro-postpasquale, ovvero del tempo allorché Gesù non vive più con i discepoli e Pietro ne ha preso il posto, bensì del Pietro della passione e dello scandalo conseguente: i discepoli, infatti, hanno bisogno di essere confermati nella fede e ciò può avvenire nel pasto comunitario, cioè nell’eucaristia con il Maestro, il quale li prepara a ciò di cui essi faranno esperienza di lì a qualche ora, ossia all’esperienza del momento del “fallimento” che li farà “deragliare”. Fino al punto di non sapere se ritenere concluso l’esaltante percorso compiuto insieme al Maestro di Nazaret.

In quest’ottica, la funzione di Pietro, assegnatagli storicamente da Gesù, può coerentemente estendersi a tutti i responsabili delle comunità, i quali la svolgeranno lungo i secoli, senza intaccare l’unicità, la singolarità del primo degli apostoli, dal quale prende avvio il cammino che altri proseguiranno. È necessario, perciò, che ogni lettore – sacra Scriptura cum legente crescit! – si renda ben conto della strategia che i testi biblici vogliono esprimere attraverso l’insieme degli elementi lessicali, sintattici, contestuali, retorici, dai quali si evincono non soltanto le diversità ermeneutiche (variabili nel corso del tempo e delle prospettive esegetiche), ma le vere e proprie chiavi della comprensione del sistema trasmittente di tutto ciò, come anche delle sue implicazioni pragmatiche.

Ciò equivale a dire che bisogna, ancor oggi, chiedersi, sempre da capo, il motivo che ha spinto non solo Luca, ma anche gli altri autori neotestamentari, a mettere in peculiare risalto la figura di Pietro: ne hanno essi parlato soltanto per una necessità storica, ossia per riportare i fatti come fedelmente sono avvenuti, oppure anche per trasmettere, attraverso il racconto, un aspetto non secondario della rivelazione?

Se, come noi pensiamo, il progetto di tali autori non fu solo storico o redazionale, così come non sono da intendersi soltanto storicamente i tanti episodi narrati, con i quali si affrontano problemi delle comunità destinatarie degli scritti evangelici, ciò deve valere anche per il servizio specifico di Pietro: si parla di lui riferendosi alla funzione che rappresenta, nonché a coloro che, dopo di lui, la assumeranno.

Resta comunque vero il fatto che occorrerà approfondire ulteriormente la recezione patristica del tema biblico del servizio petrino, sia in Oriente sia in Occidente. Questo non limitandosi al solo primo millennio, cioè – per restare agli autori presenti nel Documento – a Tertulliano, Leone I, Clemente, Ignazio di Antiochia, al canone apostolico 34 (che fa parte di una più ampia raccolta di norme della Chiesa di Antiochia, risalente al IV secolo), a Nicea I (canone 6), al Concilio di Sardica (343), a Costantinopoli I (canone 2), al canone 28 del Concilio di Calcedonia nell’approvazione del Tomo di Leone a Flaviano, a Cirillo di Alessandria, a Ireneo di Lione, al VII Concilio Ecumenico (Nicea II, 787).

Anzi – come ci viene utilmente suggerito da The Bishop of Rome – proprio il modello del primo millennio, prima della divisione tra Oriente e Occidente (n. 89), seppur così rilevante nel dialogo ecumenico, non è mai sufficiente, pur costituendo «un criterio non solo nel dialogo con le Chiese orientali, ma anche con le Comunioni occidentali» (n. 91).

Nella logica accennata, il Documento offre alcuni paragrafi, in cui cerca soprattutto «di descrivere alcuni elementi del primo millennio che possono servire da ispirazione per l’esercizio del primato nel XXI secolo» (n. 91).

Si tratta di fattori liturgico-sacramentali (n. 92), di espressioni di comunione che non erano principalmente giuridiche (n. 93). Ma ne aggiunge altresì di ulteriori, relativi, appunto al secondo millennio, nella consapevolezza che «la consueta contrapposizione tra il primo e il secondo millennio per quanto riguarda le relazioni ecclesiali Oriente-Occidente è di per sé eccessivamente semplicistica» (n. 108).

Ovviamente, in tale prospettiva, ri-emergono tutti i temi controversi, da rileggere secondo la testualità biblica e patristica, della «struttura comunitaria, collegiale e personale della Chiesa e l’articolazione tra i livelli locale, regionale e universale» (n. 111).

Lo snodo storico dell’infallibilità

Come viene ben ricordato dal Documento, «il Vaticano I ha insegnato che il primato del Vescovo di Roma è stato istituito de iure divino e quindi appartiene alla struttura essenziale e irrevocabile della Chiesa (“ex ipsius Christi Domini institutione seu iure divino”, Pastor æternus II)» (n. 48); ovvero, esso è risalente, per la fondazione giuridica, all’«atto formale di Gesù stesso» (n. 49).

Di conseguenza, bisogna domandarsi, in modo non retorico: lo ius divinum può/non può mai essere adeguatamente distinto dallo ius humanum (cioè rimanga, insieme, teologicamente rilevante, nonché aperto all’adattamento)? Cosa implica il fatto che al diritto divino si è aggiunto un riconoscimento «per divina provvidenza» (n. 54)? Davvero «la distinzione tra “de iure divino” e “de iure humano” è stata ampiamente superata da una distinzione tra l’essenza teologica e la contingenza storica del primato» (n. 55)?

Che dire, inoltre, della «giurisdizione universale e dell’infallibilità del papa» (n. 57), temi che si sono aggiunti alla precedente dottrina del de iure divino? Cosa significherà, nel prossimo futuro, che «l’infallibilità dev’essere ulteriormente esaminata alla luce del primato del Vangelo e dell’atto salvifico di Cristo; ma è anche importante mostrare come l’infallibilità possa rendere un servizio al Popolo di Dio dando espressione a tale primato» (n. 72)? Come correlare la dottrina dell’infallibilità del papa, a determinate condizioni, con la collegialità episcopale? E, soprattutto, in prospettiva storica: cosa significherà la constatazione di «progressi promettenti nella rilettura del Vaticano I» (n. 73), da assumere evidentemente non nella chiave di un revisionismo storiografico di ritorno?

Com’è stato osservato, alla vigilia del Vaticano secondo, ancora «si proponeva che il Concilio sancisse anzitutto la natura del magistero autentico come principio prossimo e organo perpetuo voluto da Dio dell’indefettibilità della Chiesa».[1]

Era, questo, nient’altro che il perdurare di una questione antica, non solo affrontata già dalla Pastor aeternus, bensì dal “moderno” Concilio di Trento, allorquando «pochissimi tra i molti disputanti in Trento avevano il senso proprio e rigoroso della questione controversa. Raramente si avvertì la profonda differenza tra intendere per “giurisdizione di diritto divino” soltanto che l’Episcopato quale ufficio in astratto e in genere risale all’istituzione di Cristo e non all’invenzione umana, oppure anche che, in concreto e al singolo vescovo, la giurisdizione individuata sulla sua Chiesa particolare è conferita non mediante un atto proprio del papa ma immediatamente da Dio, specialmente in occasione della consacrazione episcopale».[2]

Ora, se – come leggiamo in The Bishop of Rome – «l’indagine storica è un mezzo essenziale per la “guarigione delle memorie”» (n. 56), non occorrerà ritornare sempre di nuovo, in ottica storica, alla genesi della Pastor aeternus? Non bisognerà ancora domandarsi – come fa il Documento – perché «nella Pastor æternus, il Concilio Vaticano I (1870) ha creato una nuova situazione, proclamando queste dottrine come dogmi. Queste definizioni dogmatiche si sono rivelate un ostacolo significativo per gli altri cristiani nei confronti del papato» (n. 58)?

Certamente uno degli scopi di The Bishop of Rome è quello di illustrare le «principali questioni teologiche che tradizionalmente mettono in discussione il primato papale» (n. 11).

Questo esige di tener conto che «un’ampia indagine ermeneutica sul Vaticano I è stata intrapresa finora solo dai dialoghi [ecumenici] non ufficiali» (n. 15) e, dunque, bisognerà ritornarvi anche nei testi ufficiali. In ogni caso – come ci viene ricordato nel meticoloso inventario-elenco offertoci dal cardinal Koch – «il dialogo riformato-cattolico, pur non avendo ancora affrontato direttamente la questione del ministero petrino, ha dedicato alcuni capitoli a temi correlati come la collegialità (La presenza di Cristo nella Chiesa e nel mondo, 1977, 102) e il concetto di infallibilità (Verso una comprensione comune della Chiesa, 1990, 39-42), proponendo in futuro uno studio più esteso di questo argomento» (n. 25).

Se, come leggiamo, «le parole attribuite al Patriarca Atenagora nel 1964: “I capi della Chiesa agiscono, i teologi spiegano”» (n. 32), è ora il momento, per i Pastori e teologi cattolici, di spiegare.

La scelta dichiarata di The Bishop of Rome è quella di «interpretare le affermazioni dogmatiche del Vaticano I non in modo isolato, ma alla luce del Vangelo, dell’intera tradizione e del suo contesto storico» (n. 59). Bisognerà darvi adeguato seguito.

Conclusione

La fides quae creditur e la fides qua creditur, così come riformulata nel tempo storico dal Magistero e dai Concili, ha sempre qualcosa da dire a tutti e in ogni circostanza.

L’istanza perenne nella vita della Chiesa storica è, infatti, quella di correlare il sempre con l’adesso, l’antico con le necessità nuove dei tempi, ben al di là di quel semper idem, su cui pure illustri cardinali e teologi degli anni Sessanta del XX secolo avrebbero preferito insistere.

Alla staticità e alla perennità malintese, papa Giovanni XXIII e papa Paolo VI, coi padri conciliari, obiettarono con i termini di aggiornamento e di condivisione della verità di sempre con le istanze dell’uomo contemporaneo.

La costituzione pastorale Gaudium et spes, approvata il 7 dicembre 1965, alla vigilia della chiusura del Vaticano II, fu, in qualche modo, il primo frutto di questo atteggiamento di aggiornamento e di condivisione, che si volle formalmente inaugurare per aprire davvero un nuovo corso, per cambiare metodo e prospettiva, per assumere un atteggiamento nuovo nei riguardi dei fedeli cattolici e degli “altri”.

Non fu certamente, questo indicato dal Vaticano II, un cammino facile, come possono dimostrare la storia della redazione dei documenti e le memorie di alcuni protagonisti, i quali testimoniano le incomprensioni e la fatica attraverso le quali si pervenne ad alcuni testi finali.

Nelle intenzioni di Giovanni XXIII, tuttavia, il Concilio avrebbe dovuto aiutare la Chiesa in un duplice “aggiornamento”: uno all’interno di sé stessa e l’altro nei suoi rapporti con il mondo.

Se la Gaudium et spes esprime particolarmente il rinnovamento della Chiesa nei suoi rapporti con l’esterno, altre costituzioni, decreti e dichiarazioni puntano, invece, sulla riforma interna e sul dialogo.

Da tutta quella vasta produzione provengono ancora esigenze, che oggi hanno assunto il condiviso nome di “nuova evangelizzazione”, e che implicano sempre auspici per un nuovo modo di essere del presbitero nei suoi rapporti con il laicato e la vita consacrata; per una sintesi tra ecclesiologia giuridica e – come si sarebbe successivamente detto – ecclesiologia di comunione; per una centralità della Parola di Dio in tutte le sue forme nella vita della comunità; per il rinnovamento, il decoro e la partecipazione attiva e fruttuosa alla divina liturgia; per la cooperazione pastorale del laicato all’azione dei ministri sacri e per l’impegno attivo nell’apostolato. Insomma, per tutto un nuovo modo sinodale di essere e di camminare della Chiesa e nella Chiesa.

Roma, 30 giugno 2024


[1] G. Alberigo, La Chiesa nella storia, Paideia editrice, Brescia 1988, 258–259.

[2] Ivi, 141. 145.

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4 Commenti

  1. Paolo 16 luglio 2024
  2. Salvo Coco 9 luglio 2024
    • Adelmo Li Cauzi 10 luglio 2024
  3. Tracanna Anna Rita 8 luglio 2024

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