La storia che non c’è: Giulia Balbilla

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julia

Come la storia di Pinocchio, che racconta la vita e la morte prendendo inizio da un improbabile pezzo di legno, così anche questa storia (che non c’è) si dipana a partire da una condizione di silenzio che nessuna plausibile ragionevolezza avrebbe detto capace di generare identità.

Ma è proprio questo una storia che non c’è: una storia senza inizio e senza fine, così esile da sembrare fantastica, così labile da sfiorare la trasparenza, sospesa all’impalpabile inconsistenza di fili di fumo e ombre di sogno, eppure viva, tremendamente viva.

I colossi di Memnone

Tutto comincia dai colossi di Memnone. Anzi, meglio, tutto comincia da Amenhotep III, uno dei più grandi faraoni della storia egiziana. Siamo nel XIV secolo a.C., al tempo della splendida XVIII dinastia.

Il regno di Amenhotep III è un lungo regno di pace, di prosperità economica e di ricchezza artistica. Monumentali statue del faraone punteggiano ovunque il territorio egiziano, ma è nei pressi di Tebe, sulla sponda del Nilo rivolta ad occidente, verso il Regno dei Morti, che Amenhotep vuole lasciare di sé e del suo passaggio sulla terra il segno più significativo e duraturo: su un’area vastissima di 350.000 metri quadrati il faraone fa costruire un grandioso tempio funerario, rinchiuso tra mura imponenti, destinato ad accogliere e custodire per l’eternità le sue spoglie mortali.

All’ingresso della zona templare, due colossali statue gemelle di Amenhotep III assiso sul trono, con le mani posate sulle ginocchia e lo sguardo rivolto all’aurora e al sole nascente, accolgono i visitatori.

Ma inondazioni del Nilo, terremoti, saccheggi, e lo scorrere inesorabile del tempo, iniziarono da subito a minacciare tanta grandezza e quando, alla fine del primo secolo a.C., l’Egitto venne conquistato dai Romani, di tutto quell’antico splendore erano rimasti soltanto i due colossi, solitari e impassibili sullo sfondo dei campi assolati.

Lo stesso nome di Amenhotep, già ellenizzato in Amenofi, venne dimenticato e sostituito, per motivi di assonanza, con quello di Memnone, il mitico eroe re di Etiopia ucciso da Achille alla fine della guerra di Troia.

Uno strano fenomeno, di probabile origine fisica, dovuto allo scarto termico fra le temperature diurne e quelle notturne, faceva sì che, al sorgere del sole, dai colossi si udissero provenire degli strani suoni, che vennero ben presto interpretati come il saluto che Memnone, figlio di un uomo mortale e della dea Aurora, rivolgeva alla madre al suo apparire nel nuovo giorno.

Da guardiani del monumento funebre di Amenofi i colossi divennero, così, le statue vive e parlanti del semidio Memnone e, a partire dal primo secolo a.C., iniziarono ad essere meta di pellegrinaggi.

Il viaggio di Adriano

Pellegrini e pellegrine di ogni estrazione sociale e delle più diverse provenienze geografiche si mettevano in cammino per raggiungere la necropoli di Tebe, dove speravano di poter essere raggiunti dalla voce del dio che parlava attraverso le statue.

Del loro viaggio e delle loro preghiere lasciavano traccia incidendo i loro nomi sulle gambe dei colossi – la parte più raggiungibile di quelle altissime statue di quasi venti metri d’altezza. Umili artigiani, soldati, imperatori, donne nobili, popolane: le epigrafi ci restituiscono tutta un’umanità, con i suoi desideri, le sue speranze e le sue invocazioni.

Veniamo così a sapere che, fra i pellegrini più illustri, c’era stato anche Adriano, uno dei più grandi imperatori del II secolo d.C.

Per tenere unito l’impero, i cui confini si estendevano in ogni direzione, da nord a sud e da oriente ad occidente, Adriano si divideva fra operazioni militari e visite ufficiali, finalizzate a consolidare i legami con i propri sudditi e a rafforzare anche fra i popoli più lontani il senso di appartenenza alla missione di Roma.

Nel novembre del 130 Adriano, recatosi nei territori imperiali egiziani con la moglie Vibia Sabina e tutta la corte, non poté mancare l’appuntamento con il pellegrinaggio ai colossi di Memnone. È così che possiamo incontrare Giulia Balbilla.

Giulia Balbilla

Avrebbe potuto sparire nel nulla e andare ad aggiungersi a chissà quante altre “nullità” abrase e cancellate dalla Storia. Invece le parole che la poetessa Giulia Balbilla fece incidere sulle gambe del colosso di Memnone, a testimonianza del viaggio compiuto insieme all’imperatore e all’imperatrice Vibia Sabina, cui era legata da grande amicizia, si sono conservate nel tempo e rimangono lì – quasi una pietra di scandalo –, a testimoniare la vitalità di una voce poetica femminile che solo il caso ci ha permesso di ritrovare.

Giulia Balbilla era una donna di nobile retaggio, pienamente inserita nella vita politica, culturale e religiosa del suo tempo. Aveva ricevuto un’educazione di altissimo livello e, forte di una decisa autoconsapevolezza, scriveva versi di squisita fattura. Di tutta la sua poesia, a noi rimangono soltanto i quattro epigrammi – una quarantina di versi in tutto – custoditi dalla pietra dei colossi di Memnone. Che ne è stato del resto? Sparito senza lasciare traccia.

Una storia che non c’è, la storia della voce delle donne. Per secoli nessuno si è preso la briga o l’impegno di conservarla, studiarla, tramandarla. Senza meriti e senza demeriti. Senza passato, senza futuro. Ignorata dai libri, dai manuali scolastici, dai saggi critici. Inesistente.

Le donne non studiavano e non scrivevano, e perciò non lasciavano tracce, nulla che meritasse di oltrepassare il limite circoscritto del singolo destino coatto – questa la vulgata.

Ma la voce di Giulia Balbilla, incisa nella pietra e intrecciata all’onomastica fitta di nomi femminili delle pellegrine ai colossi di Memnone, ci fa intravedere una storia diversa, una storia in cui la trasparenza e l’inconsistenza della presenza femminile appare più come volontaria damnatio memoriae, che come testimonianza verace di ciò che è stata davvero la Storia.

Restituire volto, voce e parola alle donne, restituire alla Storia la storia che non c’è. Non è solo un dovere di memoria e di onestà intellettuale. È più che mai, oggi, un impegno necessario per pensare l’umano senza appiattirlo in quella monodimensionalità che da sempre lo svilisce e lo snatura.

Io, Balbilla, ho sentito, dalla pietra parlante,
la voce divina di Memnone o Phamenoth.
Ero giunta qui con l’amabile regina Sabina:
il sole teneva il corso della prima ora.
Nel quindicesimo anno dell’imperatore Adriano,
era il ventiquattresimo giorno di Athyr.

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2 Commenti

  1. Laura 11 luglio 2024
    • Adelmo Li Cauzi 12 luglio 2024

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