Diocesi di Roma: misericordia e complessità

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E se la misericordia fosse la traduzione teologica della categoria scientifica e filosofica della complessità?

Nella riflessione sul rapporto tra la barca di Pietro (sempre più poliedrica) e l’attuale mare della complessità che grava su società e chiese (minaccioso per alcuni, segno dei tempi per altri), auspicavo che almeno nelle grandi città si prendesse atto dell’«ambivalenza» delle «sfide» emergenti dalle «culture urbane» (EG 71-75), soprattutto in questo tempo di meditazione sull’anno (pastorale) passato e su quello che verrà. E sollecitavo, sotto forma di interrogativi, cinque “cambi di marcia” al nostro navigare insieme (vedi qui).

In tal senso si sono rivelate molto significative le recenti linee di programmazione pastorale della diocesi di Roma, alla quale appartengo e in cui lavoro e presto servizio come insegnante di religione e membro dell’équipe sinodale diocesana. Certo, non le troviamo ancora formalmente inserite in quella cornice della «complessità» che Papa Francesco aveva suggerito alla sua diocesi nel discorso del 18 settembre 2021. Ma, come in un arazzo, di tale complessità se ne percepisce l’ordito dietro la trama delle linee stesse.

Anche qui seguirei, sintetizzandolo, lo schema dei macro-temi proposti dalla fase sapienziale d cammino sinodale italiano, come d’altronde ha fatto il vicegerente della diocesi di Roma, mons. Baldo Reina, all’atto della loro presentazione nella basilica di san Giovanni (vedi qui).

Missione e prossimità

Quella di Roma è una Chiesa che ricorda l’importanza dell’ascolto profondo effettuato negli ultimi anni (e raccolto in una preziosa sintesi da non accantonare) insieme all’imprescindibilità di tale ascolto rispetto ad ogni forma di missione ed evangelizzazione. Non c’è missione evangelizzatrice se non c’è prima, durante e dopo, ascolto degli evangelizzati. Di tutti: vicini e lontani, anziani e giovani, simpatizzanti e critici.

Nei luoghi in cui vivono quotidianamente. Soprattutto, nella convinzione che sia possibile «cercare, cogliere e ricevere da chiunque anche solo un frammento della Verità», e che «i “germi” del Regno sono scoperti e annunciati dalla Chiesa dentro e fuori di sé». Come ha detto il vescovo Reina: «una Chiesa che abbraccia il mondo e che si lascia contagiare dal mondo» (1:58:35-53).

D’altronde, già nello Statuto dei Consigli pastorali parrocchiali pulsava lo spirito di apertura radicale della costituzione apostolica In Ecclesiarum Communionem (IEC): sia quando in esso si ricorda che «la voce dello Spirito Santo si manifesta anche oltre i confini dell’appartenenza ecclesiale e religiosa» e «apre nuove comprensioni del contenuto della Rivelazione» (IEC, Proemio, §5); sia quando esso richiede «attenzione all’accompagnamento, discernimento e integrazione (Amoris laetitia, §241-246; 291-312) delle “situazioni imperfette”, “complesse” o “dette “irregolari”” (Amoris laetitia, §§78-79; 247ss.; 297; 301)» relative alla famiglie attuali.

Corresponsabilità e strutture

Certo sollecitata da quanto richiesto da Papa Francesco (IEC, 24), oltre che da quanto emerso durante il cammino sinodale diocesano, italiano e universale, la Chiesa di Roma vuole testimoniare che è possibile – bello e fruttuoso – far emergere dal basso (e non far discendere dall’alto) queste linee di programmazione pastorale.

Consigli pastorali parrocchiali (CPP), assemblee di settore con i direttivi dei medesimi consigli, incontri tra direttori degli Uffici, prefetti e l’équipe sinodale diocesana, riunioni del consiglio episcopale: tutti hanno partecipato, apprezzando l’ormai consolidato metodo della conversazione nello Spirito e del discernimento comunitario.

Certo, a causa della suddetta complessità, si riconoscono difficoltà, resistenze e fatiche, oltre agli ambiti in cui c’è ancora da lavorare: gli altri livelli degli organismi di partecipazione e il coinvolgimento in essi dei giovani e dei battezzati che già sono Chiesa-in-uscita-sulla-soglia-o-sul-confine (cf. art. 10 Statuto CPP). Ma la strada sembra ben tracciata ed avviata.

Formazione e comunicazione

Può sembrare strano in un paese che (almeno in una sua metà) non legge e che sta sempre più disinvestendo in cultura, ma una delle richieste “urlate” con più forza dal popolo di Dio che è in Roma è l’urgenza di una formazione rinnovata: spirituale e culturale.

Da un lato, emerge la necessità di abbeverarsi e nutrirsi sempre di più alla fonte e alla tavola della parola di Dio presente nell’Uno e nell’Altro Testamento: via spirituale per decentrarsi dall’Io ed aprirsi all’Altro e agli altri, per farsi leggere, provocare e (per)formare da ogni esperienza di a/Alterità. Solo così si potrà, poi, far maturare la propria fede con i più svariati percorsi di catechesi, riscoperta della fede, teologia di popolo, ecc..

Dall’altro lato, si riconosce la necessità di «elaborare un linguaggio più adeguato alle sfide complesse del nostro tempo», a partire da quella posta dai giovani: in tal senso, si invitano “i sacerdoti e le sacerdotesse comuni” che già sono Chiesa sul campo ad essere «antenne ed eco dei loro bisogni e dei loro sogni, aiutandoci a comprendere sempre meglio i loro interessi e i loro linguaggi», per poter così comunicare in modo adeguato con chi è posto – usando la nota immagine di Alessandro Castegnaro – «fuori dal recinto» (o ad extra).

Tutta questa evidente tensione ecclesiale, però, non conduce ad alcuna impasse o immobilismo, ma sfocia nella bella proposta giubilare di essere segni di speranza, di comunicare speranza con le parole e con i fatti: «per i detenuti, per gli ammalati, per i diversamente abili, per gli anziani, per i migranti, per i poveri» e per chi è vittima della «povertà educativa, abitativa, alimentare, lavorativa» (attraverso doposcuola parrocchiali, housing sociale, mense ed empori, officine della opportunità, ecc).

D’altra parte, per essere segni di speranza, bisogna aver vissuto sulla propria pelle il passaggio, la pasqua di conversione dalla tristezza e disperazione alla gioia e speranza che, in seguito, si vorrebbero testimoniare. È allora un segno coraggioso la proposta che si legge al termine di queste linee: vivere, sulla scia di quanto avvenne durante il Giubileo del 2000, «momenti di conversione ecclesiale (…) riguardanti ferite provocate dai membri della Chiesa». Coraggioso, ma non sorprendente, perché in effetti è proprio laddove regna la complessità che non si può entrare se non provvisti di misericordia, imparando «a togliersi sempre i sandali davanti alla terra sacra dell’altro» (EG 169).

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