Joe Biden potrebbe uscire di scena. Vedremo. È comunque importante domandarsi chi sia. Di certo è il Presidente degli Stati Uniti, che – attuando peraltro gli accordi stipulati dal suo predecessore Donald Trump – ha ordinato il più avvilente ritiro della storia americana, quello da Kabul. Benché proprio di un ritiro si sia trattato, quelli che a Washington interessava portare a casa hanno potuto lasciare l’Afghanistan in tutta sicurezza. E gli afghani? Nessuno aveva pensato a loro, né Trump né Biden. Dunque, ritiro riuscito, sebbene deprimente per chi ancora recita, come il dollaro americano, «In God We Trust».
Biden – è vero – si è trovato sul tavolo un accordo già fatto. Poteva farlo saltare, ma non lo ha fatto. Si può ritenere quindi che non sia stata tutta farina del suo sacco. Ci sono le attenuanti. Mentre è tutta farina del suo sacco – ora – la vicenda del molo di Gaza: i suoi uomini fanno sapere che lo stanno smantellando; è il molo che con tanto ardimento Biden aveva fatto costruire dal suo genio militare per far arrivare a Gaza gli agognati aiuti umanitari.
Il fatto sorprende non poco. Ricordo un predecessore di Biden – Truman – che organizzò il ponte aereo per Berlino, ai tempi in cui i sovietici bloccarono Berlino Ovest da tutti i confini terrestri. L’operazione cominciò il 25 giugno 1948 e si protrasse per 462 giorni. In totale si trattò di 278.228 voli, che trasportarono a Berlino 2.326.406 tonnellate di cibo, un milione e mezzo di tonnellate di carbone e altro.
Mentre Joe Biden ha fatto costruire un molo per Gaza che non mi risulta sia stato operativo per un solo giorno. Gli Usa hanno detto che la forza delle onde del mare lo ha prima danneggiato, poi messo ko. Non mi sembra una bella pagina per la prima superpotenza mondiale che, nelle stesse ore dell’abbandono del progetto del molo, celebrava, a Washington, sé stessa e i 75 anni della NATO. Dov’è finita la potenza americana?
Se, dunque, devo trovare un valido motivo per l’uscita di scena di Biden trovo questo, non le sue gaffes. Ma il suo addio andrebbe accompagnato da quello del suo predecessore – e candidato a succedergli – Donald Trump, l’ideatore del “capolavoro” di Kabul, d’intesa con i talebani, con i quali proprio Trump negoziò. Ma ciò non accadrà.
Sottolineo questo ricordo, perché mi sembra che le pene – di questo o di quello – stiano diventando, nei nostri racconti, “ideologiche”: ognuno si schiera a difesa di chi vuole, ma dando l’idea che esista una sola verità: quella israeliana, quella palestinese, quella ucraina, quella russa.
Se la verità è una e qualcuno ce l’ha tutta, le vittime servono solo a confermare la nostra ideologia, la nostra scelta apriori su chi abbia ragione e chi torto. Le vittime, in questo modo, diventano strumentali ad urlare la nostra rabbia con più forza, nella sostanziale incuranza del dolore umano: come se gli opposti estremismi invitassero i loro beniamini a patire ancora di più, in maniera da consentirci di urlare ancora di più. Ho letto in queste ore che nessuno di noi è una bambina ucraina, o un bambino palestinese. Condivido! Stiamo realizzando una sorta di delega della sofferenza, per conto nostro e del nostro campo ideologico.
Ho capito, leggendo un importante articolo, che – detta in modo un po’ spiccio – la legittima difesa non sarebbe più legittima, perché oggi ci sono altri modi per far valere le proprie ragioni. Davvero?
In Sudan c’è un assedio ai danni di un milione di persone, nel Darfur. Quale modo hanno le vittime per far valere le proprie ragioni? E in Siria? Assad sta diventando una stella mondiale mentre è accertato che ha compiuto crimini contro l’umanità. Non so quali modi abbiano le vittime per far valere le proprie ragioni. Vogliamo piuttosto parlare della Turchia? O vogliamo fare uno zoom sull’opposizione iraniana? Conta poco, ma sono molto perplesso su questo.
Tra pochi giorni ricorrerà la più importante festa religiosa sciita, il giorno che ricorda l’assassinio del capostipite degli sciiti, l’Imam Hussein. Il khomeinismo ha trasformato questo giorno nell’esaltazione del martirio, sostenendo che Hussein era partito per combattere i nemici, cioè i musulmani sunniti. Il teorico della rivoluzione iraniana, Ali Shariati, ne diede una versione opposta. Hussein era partito sì, ma disarmato, solo con le donne, i parenti e i bambini. Il suo obiettivo era dare testimonianza dell’Islam, non uccidere. È una teologia che fa pensare al Cristo che, peraltro, Shariati conosceva bene essendo stato allievo di Massignon, teologia che incantò milioni di iraniani, tutti suoi seguaci. Poi Khomeini ha capovolto la storia.
A giorni lo vedremo, soprattutto per le strade di Beirut. Lo sciismo è anima costitutiva del Libano plurale, quello che negli anni Sessanta – quando non c’era Hezbollah – aveva le banche più importanti dell’Asia che prestavano soldi in lire libanesi all’India e c’era la quarta compagnia aerea del mondo. Sarebbe meglio, per tutti, ripassare la storia. O è forse meglio la distruzione del proprio Paese, il Libano?
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