Il maggiore partito italiano, il Partito Democratico ha scelto. Di fare il congresso al più presto. Ma su questo, dopo settimane di “ammuina”, tutti erano ormai d’accordo.
Dopo una sconfitta come quella incassata sul referendum del 4 dicembre era impossibile immaginare che il comportamento più virtuoso (e conveniente) sarebbe stato quello di continuare a far finta di niente.
Il fatto stesso che, nel frattempo, si sono affacciate sulla scena alcune candidature per la segreteria alternative a Matteo Renzi (e che sia riapparsa la mormorazione scissionista) ha consigliato tutti, compreso il leader sconfitto, a ricercare, per intanto, una soluzione procedurale, del resto prevista dallo statuto e politicamente utilizzabile.
La giostra delle date
Chi, come chi scrive, ha avuto la pazienza di ascoltare la… radiocronaca della Direzione democratica non può nascondere una certa sorpresa per lo scarto tra i toni persino truculenti della vigilia e la sostanziale pacatezza del dibattito. Che, alla fine, ha rivelato come unica differenza visibile quella del congresso subito, prevalsa nel voto, e quella, non ammessa al voto, che voleva un congresso meglio preparato fino a patrocinare una apposita “conferenza programmatica”.
L’altra questione agitata prima del confronto – la data delle elezioni e la durata del governo Gentiloni – non ha avuto sviluppi significativi.
Il segretario Renzi ha fatto una dichiarazione di incompetenza (non tocca al partito decidere in materia). Il referente della più corposa minoranza, Bersani, ha posto la questione in termini politici: prenda il partito l’impegno di garantire il compimento della legislatura fino alla scadenza del 2018.
Ma la partita non s’è giocata fino in fondo e la sensazione è che, sul punto, molti abbiano tenuto le carte coperte.
Governo e alleanze
Il governo, come tale, non s’è fatto sentire ed è prevalso il buon gusto di evitare l’argomento, pure frequentato all’esterno, del ricorso ad una “sfiducia di maggioranza” come espediente “tecnico” per motivare lo scioglimento anticipato delle Camere.
Infine, il tema delle alleanze possibili – decisivo in un contesto che sembra escludere l’autosufficienza di un solo partito – non è stato affrontato dal segretario ed è stato appena sfiorato da alcuni interventi.
O per manifestare interesse verso l’aggregazione progressista promossa da Pisapia, o per dichiarare contrarietà allo schema delle larghe intese patrocinato da Berlusconi. Anche qui le decisioni operative sembrano rinviate ai risultati delle ricognizioni sul campo: quelle dei sondaggi e quelle dei messaggi raccolti nella fase congressuale.
Esito interlocutorio
Tale il bilancio “tattico” di questa Direzione del PD, che, in parte, ha tolto dall’agenda alcuni passaggi, in parte, li ha dislocati nel tempo.
Dunque un esito interlocutorio, dal quale in ogni caso può trarre vantaggio il governo Gentiloni che potrà, se ne sarà capace, utilizzare le finestre di tregua che gli offrirà il partito mentre si dedica alla preparazione del congresso. E non sono mancate voci che hanno invitato la stessa segreteria a “utilizzare” il governo nel senso di spingerlo a completare nei tempi residui il programma avviato nella gestione Renzi.
Deficit di strategia
Ma la Direzione democratica ha rivelato – attraverso diversi indicatori – l’esistenza di un deficit di strategia che attende di essere colmato con scelte ben più impegnative di quelle che riguardano le scadenze di calendario e i rimedi congiunturali.
La questione dell’identità e del ruolo del PD è stata variamente affrontata, con riferimenti a questioni generali o specifiche, dall’Europa alla scuola, al lavoro, al contrasto alla povertà, al fisco.
E per ognuna di esse è emerso un bisogno di ricentrare atteggiamenti e orientamenti in modo che siano meglio rispondenti ad una realtà che è molto mutata dal momento in cui il PD ha mosso i suoi primi passi.
Di fronte ai populisti
Distillando il succo degli interventi, si scopre che il PD, partecipe in questo di una crisi che investe l’intera area progressista, si trova spiazzato di fronte all’ondata populista che percorre l’Europa e che oggi si rafforza con l’impulso grossolano ma imponente dell’America di Trump.
Qui si rinvengono spunti di analisi che andranno ricomposti in sintesi credibili. Ma è importante rilevare, ad esempio, che l’esigenza di contenere gli effetti negativi del populismo si coniuga con la necessità di rivedere gli atteggiamenti troppo cedevoli verso l’onnipotenza dei mercati che anche la sinistra ha adottato nel recente passato.
Si avverte il rischio che le agenzie del populismo si impossessino delle istanze di sicurezza e di protezione sociale che si manifestano in mezzo al popolo come esiti di una globalizzazione adottata senza discernimento e senza regole di governo. E ci si rende conto che, per risalire la corrente (che non è solo recuperare voti ma anche intercettare e contrastare pericoli egemonici) non bastano più gli utensili del vecchio riformismo.
Il tema culturale
Così lo scenario della politica si arricchisce e si complica. Non basta più rincorrere l’ultima sgrammaticatura grillina o la penultima contumelia di Salvini.
Occorre rendersi abili ad un intervento culturale, prima ancora che politico, tale da rimettere in primo piano – in modo attualizzato – i valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale, delle libertà fondamentali come indipendenti dalle variabili di mercato.
Si arricchisce rispetto allo squallore di un confronto quotidiano che manca di respiro universale; si complica perché alimenta una domanda di una risorsa di etica civile, oltre che di sapere scientifico, materie che non abbondano nella pratica quotidiana della politica.
Il nuovo programma
Forse al soddisfacimento di tali bisogni miravano, nella direzione del PD, le richieste di una conferenza programmatica come luogo di elaborazione di un qualche nuovo “programma fondamentale”.
Non a caso ultimamente si era parlato, con riferimento alle trasformazioni della socialdemocrazia tedesca, di una nuova “Bad Godesberg”. Volta, si immagina, a recuperare le coordinate possibili di un controllo democratico sull’economia là dove, nella famosa svolta degli anni Cinquanta, si era manifestata una confidenza rivelatasi mal riposta verso gli automatismi del libero mercato.
L’orecchio allenato alle sfumature ha colto, in alcuni interventi, persino una assonanza con il magistero di papa Francesco, proposto come suggestione “alta” per una riflessione meno superficiale.
Da dove partire?
Tutto questo per sottolineare che il bisogno è reale e che il solo fatto di averlo messo in evidenza introduce nel confronto politico un fermento di autenticità. Che va sostenuto e alimentato. Altro ovviamente potrà essere il risultato, che sarà comunque del tutto negativo se non si farà neppure il tentativo di elaborare un nuovo pensiero.
A proposito del quale, e non sembri un paradosso, viene spontaneo a chi scrive di formulare un suggerimento: perché non proviamo a valutare i fatti, le tendenze, le prospettive dell’economia e della politica che tanto ci preoccupano, con il metro della nostra Costituzione e degli orientamenti che essa contiene? Tenendo conto anche del fatto che tutte o quasi le Costituzioni dei paesi europei sono state scritte o riscritte nel secondo dopoguerra alla luce di principi e valori che poi sono stati trascurati e di cui oggi si sente la mancanza?
Costituzione e cetacei
Viceversa, nelle quattro ore di dibattito, la Direzione del PD non ha mai sentito, neppure incidentalmente, citare la Costituzione come riferimento necessario e utile. Scelta o dimenticanza? La valutazione non cambia. Ma si può rimediare.
A conclusione del suo intervento, come sempre lucido, Gianni Cuperlo ha prospettato al PD un’alternativa inquietante: o immaginarsi tra le centinaia di balene spiaggiate sulle coste dei mari del Sud, o collocarsi tra quei volonterosi che si sono attivati per bagnarle in modo che potessero sopravvivere. Inquietante, ma rende l’idea.