Il Vangelo sconfigge il clericalismo

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Nel Vangelo Gesù dice a Simone, da lui soprannominato Pietro: «A te darò le chiavi del Regno dei cieli» (Mt 16,19) […]. Quelle chiavi rappresentano il ministero di autorità che Gesù gli ha affidato a servizio di tutta la Chiesa. Perché l’autorità è un servizio, e un’autorità che non è servizio è dittatura. Stiamo attenti, però, a intendere bene il senso di questo. Le chiavi di Pietro, infatti, sono le chiavi di un Regno, che Gesù non descrive come una cassaforte o una camera blindata, ma con altre immagini: un piccolo seme, una perla preziosa, un tesoro nascosto, una manciata di lievito (cf. Mt 13,1-33), cioè come qualcosa di prezioso e di ricco, sì, ma, al tempo stesso, di piccolo e di non appariscente. Per raggiungerlo, perciò, non serve azionare meccanismi e serrature di sicurezza, ma coltivare virtù come la pazienza, l’attenzione, la costanza, l’umiltà, il servizio (Papa Francesco, Angelus del 29 giugno 2024, solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo).

Portare alla luce i numerosi passi del Nuovo Testamento che, se tradotti in coraggiose scelte operative e in innovative prassi pastorali, potrebbero assestare un duro colpo al clericalismo, «uno dei mali più seri nella Chiesa» (Francesco, discorso del 17 giugno 2016 ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i laici). È l’obiettivo che si propone di raggiungere Yves-Marie Blanchard – presbitero di Poitiers, già docente di esegesi biblica all’Istituto cattolico di Parigi, autore di numerose pubblicazioni di carattere biblico-teologico soprattutto riguardanti l’opera giovannea – con il libro Contre le cléricalisme retour à l’Évangile» (Éditions Salvator, Paris 2023). Un saggio, dall’autore considerato «modesto» (p. 124), di facile lettura, ma altamente stimolante, che in Francia ha ricevuto il «premio 2023 dei lettori» della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones.

Il titolo dell’opera ne fa sostanzialmente intuire i contenuti. Se – come afferma papa Francesco (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa greco-cattolica slovacca) – il clericalismo è «un modo non evangelico di intendere il proprio ruolo ecclesiale» da parte dei ministri ordinati come dei laici e delle laiche, è con le «armi» del Vangelo che esso può e deve essere combattuto in modo efficace.

È da ritenere, infatti, che sia giunto il momento di mettere in luce la radicale incompatibilità tra Vangelo e clericalismo (p. 10), definibile come «ogni forma di governo fondata sulla concentrazione dell’autorità nelle mani di una minoranza ed esercitata senza un vero dialogo e senza ricerca del consenso, emarginando, sotto il profilo sia teorico che pratico, persone e associazioni considerate insignificanti, dannose e non in grado di prendere parte al dibattito» (p. 10, nota).

Finalità e struttura del libro

Il libro non vuole essere un ennesimo atto d’accusa per gli abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un impressionante numero di chierici e persone consacrate: abusi che sono diretta conseguenza di una cultura e di uno stile di vita clericale.

Esso vuole, piuttosto, offrire un contributo costruttivo e decisivo per una testimonianza cristiana che sia il più possibile conforme al messaggio di Cristo.

E lo fa, segnalando passi dei Vangeli, delle lettere di Paolo e di altri scritti neotestamentari che, ancorché noti, richiedono di essere presi più sul serio nel riferirli a problematiche di grande attualità – tutte aventi a che fare direttamente o indirettamente con il clericalismo – come l’esercizio dell’autorità nella Chiesa, lo stile fraterno e sororale richiesto a chi si mette alla sequela del Signore Gesù, l’articolazione nella Chiesa tra uomini e donne, la concezione dei ministeri, il clima di comunione e di corresponsabilità differenziata che dovrebbe sempre caratterizzare la vita delle comunità cristiane.

Il saggio è strutturato in sette agili capitoli, ognuno dei quali offre una meticolosa esegesi di un versetto o di un brano del Nuovo Testamento che, più che di approfondimenti teorici, ha bisogno di essere attuato:

  • «non chiamate padre nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9) per il primo capitolo;
  • «Paolo […] a quanti sono in Colosse santi e fratelli credenti in Cristo» (Col 1,2) per il secondo capitolo;
  • «Chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» (Lc 6,13) per il terzo capitolo;
  • «Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschile e femminile, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) per il quarto capitolo;
  • «Chi è più piccolo fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9,48) per il quinto capitolo;
  • «Conduci al pascolo il mio gregge formato da agnelli e pecore madri» (Gv 21,16-18) per il sesto capitolo.
Il contenuto in forma sintetica

Nel capitolo settimo. dedicato, a mo’ di conclusione, alla sinodalità quale «rimedio alle malattie che colpiscono il corpo ecclesiale, tra cui in primo luogo i misfatti del clericalismo» (p. 114), è riassunto il contenuto del libro:

  • Non più padri, ma solo fratelli;
  • Non solo fratelli, ma anche sorelle;
  • Non solo i Dodici, ma una pluralità di apostoli;
  • Non solo uomini, ma anche donne, senza contrapposizione tra maschile e femminile;
  • Non più i grandi alla maniera del mondo, ma prima di tutto i piccoli, gli umili e i poveri;
  • Non più leader, con ambizioni manageriali, ma pastori semplici e vicini alla gente che, alla maniera di Gesù, si prendono cura di ogni persona (p. 113).

Al biblista Yves-Marie Blanchard sta a cuore dimostrare come le Scritture siano non un insieme di storie folcloristiche che lasciano il tempo che trovano, ma, per chi crede che in esse sia presente una Parola di Dio, una singolare provocazione ad acquisire, anche in termini di organizzazione della comunità ecclesiale, quella saggezza che è l’arte di condurre la propria vita nella sequela di Gesù di Nazaret e nell’impegno al servizio della sua missione, imitando il saggio del Vangelo che, diventato discepolo del Regno dei cieli, si comporta – come leggiamo in Mt 13,52 – «alla stregua del padrone di casa che sa estrarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (p. 124).

Di padre ce n’è uno solo, quello celeste

Un noto passo del Vangelo di Matteo (23,9-11) ci invita a non chiamare nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre nostro, quello celeste; a non chiamare nessuno con il nome di maestro perché uno solo è il nostro Maestro e noi siamo tutti fratelli e sorelle; e non chiamare nessuno guida, perché uno solo è la nostra Guida, il Cristo; e il più grande tra i noi è chi si mette a nostro servizio.

Perché, in presenza di tante forme di clericalismo derivanti da malintesi paternalismi ecclesiastici (p. 15) o da discutibili modalità di esercizio del governo della Chiesa, dovremmo ritenerci autorizzati a relativizzare o, addirittura, ignorare questa energica raccomandazione di Gesù, continuando a considerare qualcuno come padre, maestro e guida, dimenticando che tutti siamo figli e figlie del Padre celeste e, quindi, fratelli e sorelle?

Perché, allora, non sostituire con un semplice ed evangelico fratello titoli altisonanti come eminenza, eccellenza, monsignore o reverendo che significano grandezza e potere e che non hanno nulla a che vedere con la «raccomandazione energica di Gesù» (p. 16) di Mt 23,9?

Una Chiesa di fratelli e sorelle

Se c’è un elemento che caratterizza i rapporti intercorrenti tra l’apostolo Paolo e le comunità legate alla sua missione, questo è senza dubbio la fraternità (p. 38).

Con riferimento alle sole sette lettere considerate autentiche, i termini «fratello/fratelli» tornano sedici volte nella prima lettera ai Corinti, sei volte nella lettera ai Galati, sei volte nella prima lettera ai Tessalonicesi, cinque volte nella lettera ai Romani, tre volte nella lettera ai Filemone, due volte nella seconda lettera ai Corinti, una volta nella lettera ai Filippesi.

Poiché – fa notare l’autore – la lingua greca comporta che il termine «fratello» implichi anche il termine «sorella», mentre nella lingua francese (come in quella italiana) la parola «fratello» non può ricomprendere le componenti maschile e femminile dell’unica famiglia di Dio (p. 27), la fedeltà all’epoca apostolica giustificherebbe incontrovertibilmente che ci si preoccupi, nella proclamazione liturgica dei testi paolini, di rivolgerci ai fratelli e alle sorelle e non, come si è soliti fare, solo ai fratelli (p. 41). Questo sarebbe innegabilmente un progresso nello sforzo di declericalizzare anche il linguaggio liturgico, a beneficio di comunità caratterizzate da pieno e mutuo riconoscimento di tutti i membri riuniti a prescindere da ogni differenza di genere (p. 42).

L’invito a riconoscerci come fratelli e sorelle, proponendolo come vero e proprio stile di vita, significa contribuire a che la Chiesa non si burocratizzi ma diventi essenzialmente casa e famiglia di Dio (pp. 24 e 27).

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I discepoli, i Dodici e gli apostoli

Illuminante il capitolo intitolato «Dodici, che egli chiamò anche apostoli» (Lc 6,13).

Per il nostro autore, infatti, il clericalismo sembra avere le sue radici anche nella confusione che spesso si fa tra i discepoli, i Dodici e gli apostoli.

La confusione tra i Dodici e gli apostoli, ad esempio, determina una forma di clericalizzazione dei ministri ordinati, vescovi e presbiteri, considerati in primo luogo i successori dei Dodici, con diritti e prerogative proprie, come l’esclusività del genere maschile che induce a ritenere unici detentori di un certo numero di poteri solo i maschi (p. 43).

Stando al dato neotestamentario, si possono distinguere al riguardo tre livelli: dapprima un significativo numero di discepoli radunati da Gesù; in secondo luogo, i Dodici istituiti da Gesù per accompagnarlo nel suo ministero itinerante; infine, un rilevante numero di apostoli, di cui sicuramente fanno parte i Dodici, destinati alla missione in tutto il mondo. Si può dire che i Dodici facciano da cerniera tra i discepoli, di cui fanno parte, e gli apostoli, di cui sono i primi ma non i soli (p. 49).

Un’attenta analisi dei testi scritturistici dovrebbe indurci ad essere maggiormente prudenti nel fare riferimento ai Dodici quando si tratta di definire la natura e le modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa. Troppo spesso, infatti, la figura dei Dodici è ritenuta paradigmatica della struttura gerarchica della Chiesa cattolica, con la conseguenza di considerare impossibile l’accesso delle donne al ministero ordinato, stante il fatto che Gesù e i Dodici erano degli uomini, nel senso di persone di genere maschile (p. 54).

Se è vero che la Chiesa è apostolica in quanto fondata sugli apostoli, va preso atto che non poche testimonianze neotestamentarie dicono che nella Chiesa dei primi secoli vi erano anche donne apostole: basti citare Maria di Magdala, giustamente considerata dalla tradizione apostola apostolorum (p. 66) o l’apostola Giunia o ancora la diacona Febe con compiti dirigenziali: nominate, queste ultime due, nel capitolo 16 della lettera di Paolo ai Romani (p. 55).

Dare un riconoscimento pieno ai carismi, alla vocazione e al ruolo delle donne in tutti gli ambiti della vita della Chiesa significherebbe mettere in discussione un modello ecclesiale ancora troppo spesso venato di clericalismo (p. 56).

Nessuna contrapposizione tra maschile e femminile

A consolidare e a rafforzare oggi il clericalismo nella Chiesa cattolica sono certamente le evidenti discriminazioni operate nei confronti delle donne (p. 57).

Al riguardo, l’autore invita a confrontarsi con la sensazionale dichiarazione di Paolo contenuta nella lettera ai Galati: «Tutti voi siete figli di Dio a causa delle fede in Cristo Gesù. Dal momento che voi tutti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschile e femminile» (Gal 3,26-28).

Quanto alla diade maschile-femminile, si tratta ovviamente non di negare la differenza tra uomo e donna, ma di rifiutare ogni forma di contrapposizione, rivalità o conflitto tra il genere maschile e il genere femminile. Vivere all’interno della Chiesa una reale e dinamica reciprocità relazionale tra uomini e donne significherebbe consolidare sensibilmente una prassi non clericale (p. 62).

Numerose, d’altra parte, risultano essere le testimonianze neotestamentarie comprovanti che le donne prendono parte normalmente al ministero di Gesù come discepole e sono molto attive nell’ambito delle comunità paoline (p. 65), fino ad esercitare il ministero della preghiera e della profezia, come ci viene attestato da Paolo in 1Cor 11,4-5 (p. 67). Il che, quanto meno, induce a ritenere che oggi la questione di una più ampia partecipazione delle donne non solo ai processi di discernimento ecclesiale e a tutte le fasi dei processi decisionali, ma anche all’azione liturgica, lungi dall’essere secondaria o aneddotica, merita di essere considerata un elemento essenziale per contrastare il clericalismo (p. 65).

I veri «grandi» sono i piccoli e gli umili

A sconfiggere il clericalismo sarà soprattutto il popolo delle Beatitudini, a partire dal semplice fedele fino ad arrivare a chi ricopre ruoli di autorità nella Chiesa (p. 76).

Così come agli antipodi del clericalismo non può non collocarsi chi, assumendo la logica del Regno di Dio, ritiene che i veri grandi siano i piccoli e gli umili, in quanto persone più vicine a Gesù (p. 79). Principio da applicare anche quando si tratta di affidare a qualcuno delle responsabilità in ordine del governo della Chiesa (p. 79).

Nessun diritto a dominare, se si vuol entrare nel Regno di Dio. L’unico potere è la capacità di metterci a servizio degli altri, senza la pretesa di essere considerati e chiamati benefattori, ma accontentandoci di essere solo ed esclusivamente servi di tutti.

Mt 20,26-27 potrebbe essere tradotto così: «Chi vuol essere grande si comporti da diacono. E chi vuol essere primo faccia sua la condizione sociale simile a quella dello schiavo». Una regola di governo assolutamente originale e rivoluzionaria.

È “grande” non chi esercita un potere e fa pesare la sua autorità sulle persone che governa, ma chi si mette umilmente a loro servizio, fugando in tal modo ogni autoritarismo, abuso di potere e disprezzo dei più deboli (p. 92). A immagine di Gesù Cristo che – come si legge nella lettera di Paolo ai Filippesi (2,6-7) – «spogliò sé stesso e prese la condizione di schiavo» (p. 93), indossando un grembiule per lavare i piedi ai suoi discepoli e chiedendo loro di fare altrettanto gli uni nei confronti degli altri (p. 88).

Pastori che si prendono cura del gregge

Bello quanto l’autore scrive commentando il capito 10 del Vangelo di Giovanni nel quale Gesù è presentato come pastore e porta attraverso la quale passa il gregge da lui custodito: capitolo ricco di insegnamenti per chi nella Chiesa deve governare (p. 105).

Il pastore guida il gregge senza essere costretto a far valere la sua autorità e senza ricorrere a forme di minaccia o violenza. La sua autorevolezza si fonda certamente sulla sua competenza, ma soprattutto sulla qualità dei legami che intrattiene con ogni singola pecora (p. 100).

Il pastore è disponibile a prendersi cura anche di pecore che non fanno parte del suo ovile, uscendo dai recinti da lui solitamente frequentati (p. 107).

Altra caratteristica del vero pastore – proprietario di 100 pecore – rinvenibile nei Vangeli di Matteo (18,12-14) e Luca (15,4-6): prendersi particolarmente cura delle pecore più deboli ed essere pronto a lasciare temporaneamente incustodite le 99 per mettersi alla ricerca dell’unica dispersa e, trovatala, riportarsela a casa sulle spalle invitando amici e vicini a festeggiarne con lui il ritrovamento (p. 109).

Come dire che contrastare il clericalismo significa anche cercare di intercettare i molti assenti, di relazionarsi con i non credenti e i non praticanti, di promuovere spazi di dialogo con i critici e i perplessi, di confrontarsi con gli agnostici e gli indifferenti, di accogliere chi, per ragioni diverse, fatica a trovare all’interno della comunità ecclesiale un pieno riconoscimento della sua dignità, di tornare a percorrere tratti di strada con chi sta sulla soglia della comunità cristiana o l’ha abbandonata in punta di piedi, di ascoltare il grido dei poveri e di solidarizzare con chi non conta nulla sulla scena sociale.

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