Netanyahu: il Medio Oriente a modo mio

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Le scadenze – questa volta – non hanno funzionato a favore di Netanyahu, profondo conoscitore, peraltro, della politica americana, ma in tempi che diremmo “normali”. Il premier israeliano è arrivato a Washington e, insolitamente, ha trovato una città in subbuglio nello sconquasso preelettorale. Forse non se lo aspettava: ad oggi, Trump non ha garanzia di elezione.

Mentre Netanyahu stava ritoccando, anche alla luce del nuovo quadro politico americano, il suo quarto discorso al Congresso – un numero maggiore di quanto sia toccato a Churcill –  i familiari degli ostaggi con doppia cittadinanza, israeliana e americana, rapiti il 7 ottobre dai terroristi di Hamas, stavano criticando la sua linea, sostenendo, con diversi gruppi di congressisti (stando a report della stampa israeliana), di non vedere alcun impegno del premier per i loro congiunti.

Tre di loro hanno incontrato 100 deputati democratici, uno dei quali ha affermato: «questi sono israeliani venuti qui non per interferire nella politica presidenziale americana o per visitare Mar-a-Lago o cose del genere. Sono qui per riportare a casa gli ostaggi, ed è per questo che siamo con loro» [venerdì 26, infatti, Netanyahu sarà ricevuto da Trump nella sua tenuta di Mar-a-lago]. Si è saputo – poi – che a questi parenti non è stato consentito di entrare in aula.

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A complicare il quadro ci hanno pensato altre notizie che arrivavano da Israele: il ministro Ben Gvir ha ritenuto di andare a pregare sulla spianata delle moschee, affermando che lo status quo dei luoghi santi di Gerusalemme è superato. Netanyahu, da Washington, lo ha immediatamente smentito, assicurando che lo status quo dei luoghi “santi” non cambia e non cambierà. Il suo ministro della difesa ha rincarato la dose dell’ansia asserendo che Ben Gvir ogni giorno vorrebbe far esplodere il Medio Oriente.

L’ex componente della coalizione di governo, il generale in pensione Benny Gantz, subito dopo, ha accusato Netanyahu di voler rinviare l’accordo con Hamas per guadagnare tempo, con l’intento di ratificarlo quando il Parlamento israeliano, la Knesset, sarà chiuso per le ferie estive. E che l’idea sia quella di prendere tempo, lo conferma la decisione di rinviare la partenza dei mediatori israeliani, attesi in Qatar, a dopo l’incontro di domani tra Netanyahu e Biden.

A complicare ulteriormente le cose ci si sono messe le assenze annunciate di Kamala Harris, Nancy Pelosi e del vice di Trump, J.D. Vance. Questi non c’erano al suo intervento: nessun boicottaggio, ovviamente, ma siamo in piena campagna elettorale. Diverso il discorso per un forte numero di deputati democratici – almeno 70 – che hanno annunciato la loro non partecipazione per dissenso politico nei confronti dell’ospite.

Per i più severi critici di Netanyahu – i giornalisti di Haaretz – è stata l’occasione per parlare di «irrilevanza» politica del premier. Vocabolo volutamente forte, che può essere mitigato se si considera il particolare momento della politica americana.  Le immagini degli attivisti ebrei americani per la pace, con magliette rosse e con la scritta not in my name hanno fatto il resto da questo punto di vista.

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L’allocuzione di Netanyahu – molto “americana” nello stile e nella forma – ha posto in primo piano la biblica rivendicazione di Israele sulla “sua” terra; il suo discorso ha naturalmente preso le mosse dal 7 ottobre e dal pogrom di Hamas, per arrivare alla sua tesi di sempre: il bene va separato nettamente dal male. Ha quindi respinto in blocco le accuse della Corte Internazionale di Giustizia, difeso le sue scelte militari e la condotta del suo esercito, che mai, secondo lui, avrebbe usato il cibo come arma o messo in pericolo la vita dei civili.

Netanyahu ha offerto un’efficace rappresentazione dei metodi dei miliziani di Hamas, i quali usano i civili come scudi umani, facendo così affiorare, però, che il male – Hamas appunto – ha i suoi nemici interni.

Non ha esitato a citare un altro nome del male assoluto: il regime dell’Iran coi suoi alleati, ossia le milizie khomeiniste. Ma questa indicazione – peraltro largamente comprovata dai fatti – mette in evidenza la realtà con cui ci si deve necessariamente confrontare – se si vuole venire a capo di qualcosa – in Medioriente.

Il popolo iraniano – quasi tutti gli iracheni e tantissimi libanesi – sono i primi nemici del regime di Tehran e delle sue milizie. Come separare le vittime del male dal male? La minaccia iraniana è evidente, ma i suoi primi contrari sono soprattutto interni, mentre l’Occidente poco o nulla si occupa di loro. Lo dimostra la ferocia repressiva in Iran contro il movimento Donna, vita, libertà, la crudeltà verso i curdi e verso le altre opposizioni irachene, o verso chi, in Libano, non si identifica con Hezbollah. Dovrebbe essere presa in ben più seria considerazione la complessità della società e dei popoli che non possono essere ridotti alla stregua di chi li tormenta.

Il premier israeliano ha quindi esposto la sua idea per il dopoguerra a Gaza, che prevede un autogoverno «deradicalizzato» palestinese e il pieno controllo israeliano, a tempo indefinito, sulla sua sicurezza. I commentatori non hanno visto in questo discorso margini per negoziati. E ciò – immagino – sarà al centro del colloquio con Biden, che non potrà che riproporre il suo piano di pace, sinora sostanzialmente snobbato.

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