«… I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,8-9). La parola del Signore di questa domenica, l’ultima prima del tempo quaresimale, tocca le nostre paure e i nostri sentimenti più profondi, scuote la nostra poca fede ma, nello stesso tempo, la unge con il balsamo della custodia e della cura. Paradossale e invisibile, ma certa e rassicurante nell’intimo.
Io non ti dimenticherò mai
Nel 538 a.C., al rientro dall’esilio di Babilonia, quanti decisero di tornare trovarono una città spopolata, impoverita, abbarbicata alla pura sopravvivenza, con le case degli esuli occupate dalla poveraglia lasciata sul posto dai babilonesi come feccia inservibile, scarti umani della storia. Sion la donna, Sion la sposa alza forte il sentimento che la scuote e la fa vacillare: Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. E, nel momento del rientro, il Signore non può mentire a se stesso e la prova che ha abbracciato per primo lasciando andare la sua sposa Sion nel crogiolo infuocato dell’esilio: «Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? – dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore» (Is 54,6-8).
Il Signore è uno sposo fedele alla donna della sua giovinezza (cf. Ger 2,2) e una temporanea separazione dolorosa non significa per lui un divorzio perenne. Ha nascosto per un attimo il suo volto dagli effetti malvagi della libertà usata male dai suoi figli, dall’arroganza dei potenti, dall’“ateismo” dei suoi sacerdoti, dall’inerzia del popolo minuto. E non sentire più l’amore appassionato è esporsi al suo lato oscuro, l’amore appassionato e deluso, ferito ma ancora speranzoso, ferito perché ancora totalmente coinvolto (“l’ira”).
Le potenze del mondo hanno prevalso all’apparenza – nella logica delle cause seconde lasciate in libertà dal Signore YHWH –, ma la fedeltà dello sposo rimasta sottotraccia non ha potuto rimanere silenziosa per sempre. Il Signore dà fondo a tutto il suo vocabolario d’amore, di misericordia, di tenerezza, di fedeltà, di riscatto. Non sa più cosa dire tra le lacrime che velano suoi occhi.
Per tragedie abissali, talvolta dovute proprio ad abbandoni subiti o a maschi vigliacchi, può accadere che non solo uno sposo lasci la sposa, ma che perfino una mamma abbandoni il suo lattante, un bambino piccolissimo, ancora bisognoso di tutto. Eppure è possibile, al tempo dei salmi, ma anche nelle corsie degli ospedali di oggi, se non nei bidoni dell’immondizia. «Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto». Questo può accadere fra gli uomini. Le nostre vie non sono le vie di Dio. Euesto far gkli uonmini può acacdere. Queste sono le nostre vie il Signore non può mentire a se stesso un’altra volta: «Io invece non ti abbandonerò mai!» (Is 49,1). Questa è la promessa d’onore con cui il Signore rivela che non può contraddire se stesso: «… se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 12b-13). «Io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Il Signore rassicura Sion, la sua sposa (in ebraico il “ti” è un suffisso verbale femminile).
Abbandonare nella prova può far crescere e maturare, nel dolore evidentemente. Proprio nel crogiolo doloroso dell’esilio sono nate le pagine più importanti attestate poi definitivamente nelle sacre Scritture. Abbandonare, talvolta sì, dimenticare, mai. Il Signore non può commettere quello che per Israle è il peccato originale: “dimenticare” (šākaḥ): «Guardati dal dimenticare il Signore, tuo Dio… quando avrai mangiato e ti sarai saziato… il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore» (Dt 8,11-14). “Ricordare” (zākār) è l’imperativo primo che il Signore YHWH ha imposto a se stesso e ha chiesto al suo popolo liberato dall’Egitto (cf. zikkārôn Es 12,14).
Su questo fondo di fedeltà possiamo crescere con fiducia in noi stessi, nell’affidabilità delle altre persone, nel godimento del mondo che ci circonda. Possiamo lavorare, possiamo occuparci del “giardino” che il Signore ci ha dato da coltivare e da custodire (cf. Gen 2,15). Occuparci senza pre-occuparci, dice però Gesù nel Vangelo.
Non affannatevi; cercate anzitutto il Regno
Dopo l’insegnamento sulla preghiera e la consegna del Pater – centro del Discorso o Insegnamento della Montagna –, segue una prima serie di insegnamenti sapienziali su Dio e Mammona (Mt 6,19-24), seguita da una seconda (Mt 6,25-34), imperniate sul regno di Dio e le cose date in aggiunta.
La felicità indicata e resa possibile da Gesù a noi discepoli è, prima di tutto, quella di non adorare idoli, realtà umane, divinizzate di fatto, che promettono false certezze (’aman), il primo e più pericoloso dei quali è il denaro-certezza (Mammona). Nei suo detti sapienziali Gesù ci martella con imperativi e domande dirette sulla necessità di “non affannarsi”/ pre-occuparsi).
A prima vista, le parole di Gesù potrebbero essere intese come offensive da un esondato, da un giovane in ricerca angosciata di un lavoro decente e duraturo – possibilmente in linea con la preparazione costruita con fatica –, dai genitori che non riescono a portare a fine mese in modo decente la loro famiglia. Gesù ha sempre lavorato e guadagnato il suo pane con sudore con il papà Giuseppe a Nazaret e sa bene cosa sia il lavoro, la fatica, la soddisfazione di poter avere un mantello o un paio di sandali nuovi, con i soldi guadagnati col proprio lavoro (se non fatti in casa dai genitori…).
Eppure Gesù ci ricorda un piano di realtà più profondo. I mezzi hanno bisogno del fine, di un Fine, che dia loro senso de-finitivo, direzione, equilibrio mentale e affettivo. Occorre lavorare, certo: è il comando-benedizione genesiaco di custodire e lavorare il “giardino” donato all’uomo dal Signore YHWH (Gen 2,15). E nel “giardino” ci sono l’erba verde, i fiori di tutti i colori, vi svolazzano liberi e felici gli uccelli. Tutte realtà bellissime, ma precarie, caduche, transitorie, di un momento. «Soffio dei soffi, dice Qoèlet, soffio dei soffi: tutto è soffio» (Qo 1,1, traduzione proposta da alcuni specialisti). Niente è “vano/vacuo” e moralmente giudicabile come “vanità”. Tutto invece è caduco, provvisorio, evanescente. Eppure il Signore l’ha creato, ha permesso che venisse alla vita per rendere bello il “giardino” dell’uomo e di Dio. E tutti trovano vita, se l’uomo non rovina l’habitat.
Tutto ha un fine, perché creato da il Fine. La bellezza di un giglio, il verde dell’erba – così raro in Israele da ridursi a visione di poche settimane l’anno –, tutto è bello, gratuito, con un fine. Gesù allora dice ai suoi discepoli: lavorate e occupatevi con cura del giardino, ma non affannatevi, non pre-occupatevi come se aveste raggiunto il fondo vitale del vostro essere.
Il Fine che tiene in piedi e dà senso alla trama dei fili dei giorni è il vostro Signore, la signoria di Dio su di voi, cioè il suo amore di padre fedele e “occupato” con i suoi figli. Il Padre conosce già ciò di cui abbiamo bisogno. Conosce anche quello che ci siamo creati come esigenze necessarie e che invece sono realtà superflue, eccedenti, ingombranti il cuore e “affannanti”. E ci esorta a fare un po’ di sgombero di cose e di atteggiamenti.
Noi uomini non siamo piccoli stregoni. Non possiamo cambiare la qualità profonda del nostro essere (il colore dei capelli non è “vita nuova”), non siamo “tecnicamente immortali” come qualche medico lobotomizzato promette al suo danaroso cliente. «Cercate il Regno/la sovranità di Dio su di voi – ci dice Gesù – e la sua giustizia (“sua” in greco è aggettivo possessivo maschile e si riferisce a Dio, non al regno, che in greco è di genere femminile), e tutte le altre cose necessarie per la vita vi saranno donate in aggiunta».
Cercate anzitutto la giustizia di Dio sovrano
Cercate per prima cosa la giustizia di Dio – dice Gesù –, cioè la sua volontà benevola su di voi, la sua volontà di vedervi crescere come figli e fratelli uniti e concordi. Meglio un piatto di minestra in una famiglia unita, che vacanze alle Baleari col fegato rovinato dalle liti in famiglia… Lo dice anche il libro dei Proverbi: «È meglio un piatto di verdura con l’amore che un bue grasso con l’odio» (Pr 15,17). Cercate di rimanere in Dio, nella sua volontà, nella sua pace, nel suo progetto paterno. Imbevete anche i giorni difficili nel sangue che esce dal cuore del Figlio e allora anche il dolore si può trovare “risignificato” nel dono generoso di sé, con quel che si ha. Quando c’è il Padre che non ti dimentica, il resto procede sempre su un piano sicuro, certo, senza barriere architettoniche insormontabili.
A volte bisognerà farsi aiutare con forza dai fratelli, ma così la gioia è partecipata e vissuta da più gente. Una pastasciutta con una bella tavolata (aperta anche a chi non può “pagare” o non è “politicante corretto”) è migliore di qualunque piatto sfizioso ingoiato amaramente – seppur con “classe” – su un tavolo preparato per “il signore che è da solo”.
Chi ha con sé il Fine possiede anche il senso dei mezzi, anche di quelli che mancano e che bisogna procurare lavorando sodo. Chi ha il Fine ha, però, il senso equilibrato e sereno dell’oggi e il giusto senso anche del domani, con le sue gioie le sue pene.
Certo, Gesù non può pretendere che si viva alla giornata (anche se tanti popoli vi sono ancora costretti da altri…), senza programmazione, senza investimenti industriali e commerciali per la vita nel suo “giardino” e dei suoi figli che vi abitano. Ma è il fondo dell’essere che conta, la vita più che il cibo, il corpo più del vestito. La vita è benedetta, la vita è perfetta, anche se non è “perfetta” come la pensiamo noi. Se cerchiamo “quello che viene per primo”, il resto – poco o tanto – viene nella scaletta delle cose, giusta, umana, umanizzante, non bisognosa di ansiolitici. È questione di fede, della nostra poca fede, come sempre.
Oggi il vangelo ci offre però, oltre alle parole di Gesù, anche dei segni concreti che possono aiutarci. Dove “il giardino” è custodito e coltivato bene, si possono vedere e contemplare – nel piccolo come nel grande – i grandi segni della “provvidenza” del Padre. Se egli dà bellezza e gioia a tutte le realtà, anche alle più precarie e della durata di un soffio, quanto più darà in aggiunta di bellezza e di vita ai suoi figli che cercano il modo più bello per corrispondere alla volontà di Dio, della sua volontà sovrana apportatrice di bene (“la sua giustizia”). Siamo circondati da segni di grazia immeritata, bellissimi e variegati. La vita è benedetta, la vita è perfetta. Il Padre dà in abbondanza ai figli che lavorano sodo, ma senza affanno. Lui è lì, e ci guarda. E non ci dimentica mai. Oggi e anche domani. Tranquillo.