E lascia stare i santi

di:
giochi olimpici

AP Photo/Andy Wong

Due note a margine sull’Ultima cena delle drag queen

È stata l’Ultima cena di Leonardo o il Festino degli Dèi di van Biljert ad ispirare il tableau Festivité della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Parigi? Dopo la repentina reazione e la dura condanna dei vescovi francesi, indignati per la blasfema derisione dei contenuti religiosi del dipinto di Leonardo, il regista e direttore artistico Thomas Jolly si è affrettato a precisare che non era assolutamente nelle sue intenzioni offendere i sentimenti religiosi di chicchessia ma che, anzi, la sua volontà era quella di celebrare la dimensione gioiosa della festa in forme e modi il più possibile inclusivi.

Nella scena che ha suscitato così numerose polemiche veniva evocato un banchetto olimpico – trattandosi di Olimpiadi, ha detto Jolly, gli era sembrato doveroso celebrare gli dèi dell’Olimpo, con tanto di intervento conclusivo di Dioniso, dio del teatro e dell’ebbrezza.

Se le parole del regista hanno, in qualche modo, sgonfiato il fronte degli attacchi, a margine dell’episodio resta lo spazio per almeno un paio di riflessioni.

Indignatevi!

La prima. Che la gente si indigni è una cosa buona, perché finché c’è indignazione c’è partecipazione, e non c’è indifferenza. L’indignazione è, infatti, un sentimento che, pur prendendo le mosse da una percezione soggettiva, cioè da qualcosa che sento io, chiede di non restare chiuso nel giro ristretto della singola soggettività ma di aprirsi al piano del noi, cioè ad un piano collettivo e politico.

L’indignazione motiva a prendere parola e ad agire per cercare di cambiare le cose. Chi è indignato non può tacere, ma si sente in dovere di parlare, non solo e non tanto a nome o per conto proprio, ma per il bene di tutti, in nome, cioè, di un bene che viene percepito e sentito come bene comune.

Poco più di dieci anni fa, nel 2011, aveva riscosso grande successo editoriale un piccolo pamphlet dal perentorio titolo Indignez-vous! (Indignatevi!). L’anziano autore allora novantatreenne, Stéphane Hessel, ex partigiano ed ex diplomatico francese, con quel libricino di una ventina di pagine si rivolgeva in modo particolare ai giovani, invitandoli a guardare i mali della realtà contemporanea non con distacco, rassegnazione o indifferenza, ma alimentando in sé un forte senso di responsabilità.

Dobbiamo vigilare perché la società in cui viviamo sia una società di cui poter essere fieri, scriveva Hessel, dobbiamo stare sempre all’erta e attenti a ciò che accade attorno a noi, perché troppe cose sembrano rimettere in discussione le conquiste democratiche per cui si è battuta la Resistenza. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di indignarci e non tacere, quando i valori della democrazia corrono il rischio di essere azzerati.

Hessel parlava dell’indignazione come di un sentimento vitale, capace di restituirci alla pienezza della nostra umanità: coltivare l’indignazione ci permette di vivere in modo empatico e ci aiuta a non scivolare nell’indifferenza o, peggio, nel cinismo.

L’indignazione è, dunque, un sentimento squisitamente politico e civile e, proprio per questo motivo, anche cristiano. Peccato che troppo spesso il sentimento di cristiana indignazione si attivi soltanto davanti a questioni legate, in modo diretto o indiretto, alla morale sessuale o alla blasfemia, cioè alle sfere deputate, in modo diverso ma complementare, a mantenere, conservare e tramandare l’impianto sacrale della religione, più che a farsi voce di Vangelo.

I vescovi francesi hanno redatto con encomiabile tempestività un bel comunicato per condannare le scene della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi parigine che, a loro parere, hanno deriso il cristianesimo. Mi piacerebbe vedere reattività altrettanto solerti e sollecitudini altrettanto tempestive di fronte a chi ogni giorno costruisce ricchezza, consenso e potere fabbricando e vendendo armi, potenziando politiche belliciste, sfruttando, abusando e violentando vite. Questa sì, sarebbe indignazione evangelica, capace di vera profezia.

Ridere degli dèi, ridere con gli dèi

La seconda riflessione viene dalla lettura di un interessante saggio di «umorismo teologico», dal titolo Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, firmato da Maurizio Bettini, professore di Filologia classica, Massimo Raveri, studioso di religioni e filosofie orientali, e Francesco Remotti, antropologo. In questo lavoro i tre studiosi esplorano le modalità diverse con cui le religioni monoteiste e politeiste si rapportano al fenomeno del riso e della comicità.

Mentre nelle tre religioni abramitiche – ebraismo, cristianesimo, islam – la possibilità di ridere di Dio è semplicemente impensabile, quasi vi fosse una antinomia insuperabile tra monoteismo e riso, il politeismo del mondo classico, le religioni orientali, in particolare il buddhismo zen giapponese, e le cosiddette «religioni senza nome» dell’Africa e del Nordamerica contemplano la comicità come possibile espressione del divino: gli dèi di queste religioni, che coabitano con gli uomini e vivono al loro fianco, come gli uomini e con gli uomini soffrono e ridono. E non solo gli dèi ridono e scherzano fra loro e ridono e scherzano con gli uomini, ma anche gli uomini possono ridere e scherzare dei loro dèi.

Le joking religions (religioni umoristiche) hanno con il riso un rapporto profondo, fondativo della stessa relazione con il divino. Si può ridere degli dèi e insieme agli dèi senza che venga meno il rispetto nei loro confronti e nei confronti della stessa essenza divina, perché ridere è, in primo luogo, espressione del rifiuto di assolutizzare sé stessi e di idolatrare il divino. Nemmeno del Buddha si deve fare un idolo, dicono i maestri zen. Anzi, quando incontri un Buddha, uccidilo!

Il comico ha sempre a che fare con l’umano; l’esperienza della comicità e del suo sguardo paradossale sul mondo permette di innescare una salutare opportunità di demistificazione degli eccessi che l’attribuzione di sacralità spesso porta con sé. Per questo le risate fanno paura: il riso che si prende gioco e ride della divinità rende possibile uno sguardo «altro» che desacralizza il divino aprendo a spazi impensati di libertà.

 I monoteismi non tollerano la mescolanza tra sacro e profano; l’indicazione è netta, perentoria: coi fanti si può scherzare, ma i santi bisogna lasciarli stare. Così, come una vignetta considerata blasfema può giustificare una strage – tutti ricordiamo l’attentato a Charlie Hebdo –, il sacro evocato attraverso corpi non conformi impone l’intervento repentino delle competenti autorità ecclesiali – quanto meno, non potendo altro, tramite severe e censorie reprimende.

Ma se, come scrive Raveri, la risata finale è come una conversione, e una resa all’incongruità dell’esistenza, perché non pensare che, fosse stata proprio l’Ultima cena di Leonardo ad ispirare il tableau Festivité della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Parigi, Gesù stesso, anziché indignarsi per nulla, si sarebbe fatto una bella risata?

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6 Commenti

  1. Marco M. 1 agosto 2024
  2. Marco Vergottini 1 agosto 2024
  3. Gian Piero 1 agosto 2024
  4. Marina Umbra 1 agosto 2024
  5. Andrea Noto 1 agosto 2024
  6. Ospite 1 agosto 2024

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