Direzioni
In un saggio dedicato alle Città invisibili di Calvino, e intitolato Le carte visibili, Mario Lavagetto riprende la metafora degli scacchi, già iscritta in questo libro «imprendibile e misterioso»[1], per illustrare il rapporto tra il Gran Kan e Marco Polo. Ai lati opposti della scacchiera stanno seduti i due giocatori: il lettore-interprete, che con accortezza e ostinazione «cerca di inchiodare il […] testo a un disegno o una trama riconoscibile», e il narratore capace di vanificare sistematicamente lo scacco matto, il veneziano che costringe Kublai (e il lettore alle sue spalle) «a rinunciare per sempre a un ordine tassativo e rassicurante: dobbiamo comporre e ricomporre senza sosta le infinite direzioni del possibile che il testo promuove»[2].
In fondo, il problema cruciale posto dalle Città invisibili – prosegue Lavagetto – non è tanto (o soltanto) quello della scrittura, «quanto quello, ugualmente ambiguo e difficile, del testo che ogni coscienza di lettore è costretta ad affrontare: è il problema delle scelte, delle direzioni, delle strutture su cui quella coscienza è chiamata di volta in volta a decidere»[3].
Non sappiamo molto della «coscienza di lettore» di testi letterari di Dossetti, né della sua conoscenza del libro di Calvino, ma in ogni caso non è un arbitrio vedere nella metafora delle scelte e delle direzioni possibili messa in scena nelle Città invisibili una possibile chiave interpretativa di Per la vita della città, un testo del 1987 che don Giuseppe preparò in occasione del Congresso eucaristico della Diocesi di Bologna, pubblicato nuovamente da Zikkaron nel febbraio di quest’anno a cura di Fabrizio Mandreoli, con prefazione di Matteo Maria Zuppi e postfazione di Giorgio Marcello.
E ha senza dubbio ragione quest’ultimo quando, nel bel saggio che chiude il libro, La politica e la profezia, scrive che quello di Dossetti è «un testo denso, da ascoltare e meditare, più che da leggere, in cui si deposita tutta la ricchezza e l’originalità di una vicenda che ha incrociato alcuni momenti fondamentali della vita politica ed ecclesiale del secolo scorso»[4].
È impossibile, infatti, provare anche solo a riassumere il contenuto delle circa settantacinque pagine in cui si sviluppa la riflessione di Dossetti; il lettore o la lettrice dovrà assumersi la responsabilità (ma anche garantirsi il piacere) di mettersi in ascolto della voce che si libera una riga dopo l’altra, caratterizzata dal rigore e dalla radicalità consueti in don Giuseppe, ma anche dall’acume e dalla profondità di pensiero che si ritrovano nei suoi testi, compresi quelli più tecnici.
Quello che si può fare, invece, è provare a sottolineare alcuni punti nodali del discorso. È questo, peraltro, il compito che si assume Fabrizio Mandreoli nell’introduzione a Per la vita della città, articolando il proprio ragionamento in tre tempi:
«1) una collocazione del testo nel suo contesto prossimo e remoto; 2) una presentazione sintetica, mostrandone i passaggi e le idee fondamentali in modo da averne una visione d’insieme; 3) una rilettura del testo oggi, trascorsi quasi quarant’anni, nei giorni in cui il mondo – e la Chiesa – sono nel pieno di un processo di trasformazione epocale»[5].
Collocare, come fa Mandreoli, in un contesto più ampio Per la vita della città è senz’altro una mossa azzeccata, dal momento che il testo va letto «come un punto quasi conclusivo di una parabola intorno a un tema che impegna l’esperienza e il pensiero di Dossetti da almeno cinquant’anni»[6], e che può essere riassunto in una serie di domande che oggi avvertiamo ancora in tutta la loro urgenza: che cosa fare «per riconoscere e poi per rispondere alla notte delle coscienze, delle famiglie, della comunità e della politica»[7]?
È possibile un contributo attivo della comunità cristiana nella storia e nella politica? Se sì, in che modo e secondo quali forme? E soprattutto, come evitare che le dinamiche della città degli uomini, con le sue idolatrie e le sue concentrazioni di potere, con le iniquità e le marginalizzazioni e la violenza di cui è spesso protagonista, finiscano per inquinare ogni possibile iniziativa?
Scelta
A questo livello si pone un primo punto da sottolineare, in parte introdotto attraverso il saggio di Lavagetto su Calvino: quello della scelta. La prospettiva di Dossetti è molto chiara: un progetto politico cristiano è possibile, all’interno di determinate congiunture, ma in nessun caso l’insieme delle donne e degli uomini coinvolti in questo progetto deve essere sovrapposto alla comunità dei credenti.
Il popolo di Dio è altro, non è identificabile in nessuna istanza politica determinata dagli uomini. Il credente, dunque, non è chiamato a voltare le spalle alla storia; al contrario, scrive Dossetti, è «diritto e dovere del credente di esporre ciò che è proprio della sua fede, nel puro linguaggio della rivelazione, senza cercare impraticabili concordismi»[8]. La prima parte del testo di don Giuseppe (intitolata appunto “La città”) insiste molto su questo aspetto: «Il popolo di Dio […] non si identifica e non si identificherà mai con nessuna forma della socialità cristiana»[9].
Nelle forme della storia, nelle città visibili del mondo di cui Dossetti ricostruisce alcuni tratti attraverso la vicenda biblica di Israele, si può persino intravedere uno strumento della volontà di Dio, ma in nessun caso esiste una coincidenza tra queste manifestazioni e la sua piena rivelazione. Vengono in mente le parole che in tutt’altro contesto Walter Benjamin, nel suo bellissimo saggio sul narratore, dedica a Leskov e alla figura del giusto, «l’uomo che sa orientarsi sulla terra senza avere troppo a che fare con essa»[10].
Solo a partire da questa scelta (e da questo atteggiamento), frutto di una irrinunciabile presa di coscienza, e dalla libertà che ne deriva per il cristiano, secondo Dossetti è possibile un impegno nella vita della città che non comporti una coincidenza con le sue logiche di potere, ma che possa aprire orizzonti nuovi, creativi, plasmati irrinunciabilmente sul modello del Vangelo.
Fonti
Date queste premesse, qui abbozzate in modo molto parziale, Dossetti può tracciare la seconda parte dell’itinerario, intitolata “L’Eucaristia” e aperta da una presa di posizione ancora una volta inequivocabile. Il rimedio contro i grandi rischi rappresentati dalla città degli uomini esiste, ma
«a un patto: che il credente in Cristo e la comunità cristiana, in quanto tale, si proponga concretamente […] di restare sul piano o livello che le è proprio e specifico. […] Il piano del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, il piano della “storia d’amore” della Trinità Santissima»[11].
Nessun mezzo che non contempli un rinnovato ritorno alle fonti (al Vangelo e al mistero dell’Eucaristia) può costituire una risposta efficace, e anzi, rischia di diventare controproducente se non addirittura catastrofico. La risposta secondo Dossetti non sta dunque nei grandi numeri ricercati a ogni costo, né in una soluzione organizzativa particolarmente ingegnosa, ma solo nella disponibilità dei cristiani a non ricorrere
«a dei mezzi umani, che sarebbero sempre dei “mezzucci” grotteschi e disperanti», ma a vivere «l’inenarrabile avventura di essere sanati, illuminati e guidati, nelle loro persone e nella loro comunità di fede, dall’Amore trinitario»[12].
Da qui, si sviluppa un discorso davvero denso e meritevole di essere meditato riga per riga, che rimette costantemente al centro l’Eucaristia e le virtù teologali, proponendo tra l’altro una sintesi mirabile tra azione e contemplazione che non si risolve affatto in una dinamica passivizzante, ma che al contempo prende le distanze da «un attivismo spesso del tutto inefficace, perché sempre rumoroso e inquieto»[13], fondamentalmente in sintonia con le logiche del mondo e della città.
La tensione che emerge dalle parole di Dossetti è invece in concordanza profonda con la logica del Regno proposta dal Vangelo; suggerisce un orizzonte che è quello di una città invisibile e misteriosa, che rimane altra rispetto alle città visibili degli uomini, ma che può anche manifestarsi proprio quando accettiamo di compiere quel salto verso l’invisibile che Dossetti chiama in causa nell’Intermezzo del libro, dedicato ai Lineamenti di sociologia degli invisibili di Giorgio Prodi, e che agli occhi di don Giuseppe costituisce una possibile «zona della giunzione limite tra la città degli umani e il regno di Dio, da un lato, e le potenze negative, dall’altro»[14].
Quella proposta da Dossetti è una strada che, come sottolinea Mandreoli nell’introduzione, per tante ragioni non è diventata di certo quella più percorsa. Allora forse davvero questo libro costituisce una preziosa occasione, con il suo invito a meditare (e magari a raccogliere), un’idea di polis «tutta sui generis» ma più che mai attuale e preziosa, in particolare – ma non solo – per chi si riconosce nella comunità dei credenti: una forma di politicità
«che non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per quello che sono in mysterio (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibili): cioè non incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più invisibile, più pneumatico, creando e divulgando ovunque […] un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore oblativo, indipendente da ogni condizione esterna mutevole, che “non avrà mai fine”»[15].
[1] M. Lavagetto, Le carte visibili, in Id., Dovuto a Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 15.
[2] Ivi, p. 17.
[3] Ivi, p. 18.
[4] G. Marcello, La politica e la profezia, Postfazione a G. Dossetti, Per la vita della città, a cura di F. Mandreoli, prefazione di M. Zuppi, Zikkaron, Bologna 2024, p. 143.
[5] F. Mandreoli, Introduzione a Per la vita della città, p. 19.
[6] Ivi, p. 27.
[7] Ibid.
[8] G. Dossetti, Per la vita della città, cit., p. 66.
[9] Ivi, p. 88.
[10] W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2011, p. 13.
[11] Dossetti, Per la vita della città, p. 99.
[12] Ivi, p. 106.
[13] Ivi, p. 123.
[14] Ivi, p. 97.
[15] Ivi, pp. 137-138.