La pace nel Credo dei cristiani

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Nel 1959 l’URSS donava al palazzo dell’ONU a New York un monumento con, in epigrafe, il testo del profeta Isaia, «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is. 2,4). Lo scultore, Mirko Vucetich, fondendo nel bronzo un uomo vigoroso, con un braccio alzato a brandire il martello, e l’altro con la spada che diventa una falce, nell’ammanirla, smascherava la menzogna: «Falce e martello»: pax sovietica.

Anche Tacito, mettendo in bocca a Calgaco il giudizio dei Britanni sui Romani, «Fanno il deserto e lo chiamano pace», senza volerlo, denunciava l’ipocrisia della pax romana. Putin oggi ha l’impudenza di citare il Vangelo e Netanyahu di riferirsi alla Torah e ai Profeti di Israele. Gesù. ben consapevole di quante menzogne si deturpa la figura della pace, ci ha lasciato detto: «Vi do la mia pace, non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27).

Non fosse altro che per questo, è dovere di coscienza dei cristiani prendere posizione di fronte alla radicale iniquità della guerra. Dispiace che, facendolo papa Francesco con grande passione e senza stancarsi, la voce delle Chiese, quella italiana in prima fila, non lo accompagni in maniera adeguata e che i teologi italiani, in grande maggioranza, rimangano silenziosi sul drammatico tema, come se il Vangelo nulla avesse da dire. Lo ha fatto la Conferenza Episcopale Tedesca nel febbraio scorso, pubblicando un ampio documento «Pace a questa casa». Dichiarazione dei vescovi tedeschi sulla pace (cf. Il Regno-Documenti, 9/2024).

Il «Vangelo della pace»

Chi si domandasse se la pace sia davvero parte del Credo dei cristiani, basterà che vada in libreria e sfogli il Dizionario di teologia della pace, pubblicato dalle Dehoniane nel 1979, con 74 voci, da Amore a Vita, per un totale di 1063 pagine.

Nell’AT, stracolmo di storie di violenza, pour cause la pace è la sigla della missione del futuro Messia: «Il suo nome sarà … Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine» (Is 9, 5-6). Egli «farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi» (Sal 46, 10). Il NT coronerà la lunga litania sul Messia re della pace con il saluto e l’augurio del Risorto ai discepoli: «Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!” … E i discepoli gioirono al vedere il Signore.  Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20).

Quello del Risorto, però, non fu solo un felice augurio, poiché si è risolto nel comandamento di trasmetterlo a tutti i popoli della terra: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 15, 15). I discepoli, quindi, andranno nel mondo, esercitando il «ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Affrontarono la pericolosa spedizione bene «armati», ma dentro un immaginario collettivo totalmente rovesciato. Si sentiranno protetti dalla «armatura di Dio», rivestiti della «corazza della giustizia», con in testa «l’elmo della salvezza», in una mano «lo scudo della fede» e nell’altra «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6, 13-17).

Per il suo «Vangelo della pace» (Ef 6, 15) Gesù ha predicato il dovere di superare tutti i confini. Nonostante l’annuncio messianico dei profeti, la rivelazione dell’amore di Dio per tutti i popoli, che Gesù andava predicando, risultava dirompente. La sua proposta apparve, fin dall’inizio, talmente rivoluzionaria, dall’avergli fatto correre il rischio, in una delle sue prime manifestazioni in pubblico, nella sinagoga di Nazareth, di essere linciato.

Era bastato ricordare che il profeta Eliseo aveva guarito dalla lebbra il comandante del temuto esercito della Siria, Naaman, perché «tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4, 28-29).

Riconciliazione senza confini

Il mondo, per il popolo in mezzo al quale Gesù viveva, era nettamente diviso in due: Israele, con cui Dio aveva sancito il suo patto, e i gojim, tutte le altre genti. La dura esperienza dell’oppressione e dello sfruttamento che stava subendo, lo portava all’odio per i Romani e per gli stranieri in genere, nonostante si leggessero nei profeti lieti annunzi della salvezza universale. In questo contesto Gesù sentiva la sua missione come la missione della riconciliazione universale.

Sarà un’impresa a tutto campo. Basti ricordare il colloquio di Gesù al pozzo di Giacobbe con la donna samaritana. Saranno tre i confini da lui demoliti in quell’evento. Il primo, quello fra uomini e donne, con l’essersi trattenuto in un intenso colloquio, loro due soli, con una donna. Il secondo, quello fra giusti e disonesti, con l’aver trattato amabilmente una donna di cattiva fama, ben meritata. Il terzo, quello fra i Giudei e gli odiati Samaritani, perché la donna era una samaritana.

Quando, in un mondo che non riconosce affatto come suo «prossimo» ogni persona umana, gli pongono una domanda, che in bocca a un dottore della legge assume un carattere istituzionale: «Chi è il mio prossimo?», Gesù risponde proponendo la figura emblematica dell’estraneo, anzi del nemico. Un samaritano, scorgendo sul ciglio della strada un uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gerico», un giudeo, mezzo morto per un’aggressione subita, lo «vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (Lc 10, 29-35).

Mai Gesù aveva lesinato i suoi elogi alla fede, che stranieri e pagani gli esprimevano, dalla donna cananea incontrata nei pressi di Tiro al centurione di Cafarnao, un militare di quell’impero, che stava opprimendo Israele (Mt 15,28 e 8,13).

Parallelamente, di fronte al rifiuto dei suoi di accoglierlo, non teme di proclamare che nel giorno del giudizio Tiro, Sidone e anche Sodoma, l’emblema tradizionale di tutte le malvagità del mondo, «saranno trattate meno duramente» di loro (Mt 11, 2). Come dire che per Dio nessuno è straniero e nessuno è nemico. Non solo, ma accogliere lo straniero sarà considerato da Gesù un atto di amore verso lui stesso: «Venite, benedetti del Padre mio, … ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25, 35).

La svolta più radicale

Fra quei sei «Ma io vi dico …», con i quali nel discorso della montagna egli intende «dare pieno compimento» alla legge antica, la replica, declinata per tre volte, al detto: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”» costituisce la svolta più radicale che Gesù intende imprimere alla morale corrente: «Non ucciderai; … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio … Occhio per occhio e dente per dente.  Ma io vi dico di non opporvi al malvagio … Odierai il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5, 17-48).

L’episodio più inatteso e toccante, narrato dai vangeli, del felice fruttificare del suo messaggio sarà, nel momento culminante della sua morte, quello del centurione, l’ufficiale dell’odiato esercito dei Romani, che aveva comandato la pattuglia addetta alla sua crocifissione, «che si trovava di fronte a lui» e che, «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Il primo frutto della morte di Cristo è la conversione dello straniero, del militare della potenza nemica.

Dopo Gesù, Pietro avrà ancora bisogno di esserne confermato da una visione, per osare di entrare in casa di Cornelio, anche in questo caso un centurione, un militare delle odiate armate dei Romani, dove, dopo aver annunciato il Vangelo, vide come «anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo» (At 10, 45). La Parola di Dio cadeva con forza sul terreno dal quale spunta e vigoreggia la mala erba della guerra, il mondo dei confini fra i popoli e della rivalità fra le nazioni: «Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17).

Il superamento della divisione fra giudei e greci è stata la grande passione e il tormento dell’apostolo Paolo. Scrivendo alle comunità, spesso divise al loro interno, egli inizia sempre con l’augurio della pace: «Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!» (Rm 1, 7).

Per i cristiani, farsi costruttori di pace non è un superficiale decorarsi della bellezza annunciata dal profeta, «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace» (Is 52,7), ma la condizione essenziale per sentirsi ed essere, in Cristo, figli di Dio: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

  • Pubblicato sulla rivista Studium, luglio 2024.
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