Se è vero che la quaresima è e vuole essere vissuta all’insegna della penitenza, non è meno vero che, durante questo lungo periodo di tempo, la Chiesa ci propone di assaporare, sotto il profilo spirituale, anche alcuni momenti di gioia. «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate»: è con queste parole che la Chiesa ci invita a celebrare questa domenica.
La gioia è uno dei doni dello Spirito Santo che viene partecipato ai discepoli di Gesù nella potenza del mistero pasquale. Questa, dunque, è la domenica della gioia pasquale, che la Chiesa ci invita a pregustare in attesa di quella gioia che si sprigionerà dall’evento della risurrezione di Gesù. Da buoni discepoli del Vangelo, dovremmo imparare a discernere gioia da gioia.
1. La prima lettura è tratta dal libro di Giosuè. Sappiamo che, con questo nuovo condottiero, il popolo esperimenta una nuova fase della sua storia, passando dall’esperienza dell’esodo e del relativo cammino nel deserto alla conquista della terra promessa. In questo modo si realizza un’altra promessa fatta da Dio ad Abramo: il dono della terra (cf. Gen 15,18).
Il passaggio dalla schiavitù all’entrata nella terra promessa è sancito dalle parole del Signore a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Con l’oggi si inaugura pertanto una grande novità: la storia dei rapporti tra Dio e il suo popolo continua – deve continuare – perché Dio è fedele alla parola data e non può rinnegare se stesso.
A suggello di tutto questo viene celebrata la pasqua «al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico». Con questa celebrazione entrambi i contraenti si dichiarano pronti a mantenersi fedeli al patto di alleanza, già stipulato dai padri e ora solennemente rinnovato. La celebrazione della pasqua accompagnerà sempre l’Israele di Dio, sia l’antico sia il nuovo. La pasqua è la solennità più importante dell’anno liturgico, perché è l’evento centrale della storia della salvezza.
«Il giorno dopo la pasqua mangiarono i prodotti della terra»: con questa annotazione si vuole indicare che, ormai, il popolo non ha più bisogno di un cibo straordinario come la manna, ma d’ora in avanti vivrà con i frutti della terra che gli è stata donata. Israele sa che sia la manna sia i frutti della terra sono sempre doni di Dio: di Dio creatore e liberatore, la cui provvidenza può essere cercata e riconosciuta in svariate situazioni della nostra vita.
2. Il ritornello di questa domenica ci offre la chiave di lettura di tutto il salmo responsoriale: «Gustate e vedete com’è buono il Signore». È un’affermazione, questa, che suppone una grande fede: la fede di un popolo che, in molte circostanze della sua storia, ha avuto modo di sperimentare la vicinanza del suo Dio e che ora si sente spinto a farne memoria in un contesto liturgico.
«Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode»: si può supporre che fosse un individuo a intonare il salmo di lode e di ringraziamento, una persona profondamente legata al suo Dio e perciò spontaneamente portata a elevare preghiere. La preghiera nella vita di un credente non è tutto ma è espressione vitale della sua spiritualità.
«Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome». Il pio israelita invita alla preghiera quanti gli stanno intorno e condividono la sua fede nel Dio dell’alleanza. Di sua natura la preghiera richiede di essere condivisa.
Ma l’orante intende esprimere altre certezze che lo abitano: soprattutto che il Signore ama con amore di predilezione il povero (anaw) e, per questo suo amore, «lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce». Anche l’orante si presenta come un anawim JHWH, la cui spiritualità pervade un po’ tutti i salmi.
3. La pagina tratta dalla seconda lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto ci riporta al punto nevralgico del mistero cristiano: Dio «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo». Mentre riflette sul mistero cristiano, Paolo ci aiuta a comprendere chi è Dio; nello stesso tempo, l’apostolo si presenta nella sua profonda identità.
Dio è anzitutto il riconciliatore: egli «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo». Questa verità presuppone la situazione di peccato nella quale era caduta l’umanità; una situazione che non ha tuttavia tarpato le ali alla volontà salvifica universale di Dio. Per questa sua volontà: «Dio… riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe»; anzi «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore».
Ma Dio è anche colui che si avvale della mediazione di Paolo per portare il messaggio della riconciliazione al mondo intero, «per mezzo nostro è Dio stesso che esorta». Riconosciamo qui un’altra verità della nostra fede: la mediazione sacramentale, in forza della quale ciò che dice il ministro è Dio che lo dice, ciò che fa il ministro è Dio che lo fa (cf. Lc 10,16).
Paolo si presenta anzitutto come ministro: Dio «ha affidato a noi il ministero della parola». Ministro, cioè servitore, al quale spetta il compito di trasmettere con fedeltà il messaggio ricevuto. Paolo questo messaggio lo ha ricevuto con estrema chiarezza nella rivelazione sulla via di Damasco. Egli può dire di aver incontrato il risorto Signore: è questo l’unico fondamento del suo apostolato, e non il fatto di aver conosciuto storicamente il Signore.
In seconda battuta, Paolo si presenta come ambasciatore: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori». L’ambasciatore è colui che rappresenta colui che lo ha mandato; Paolo perciò diventa, a tutti gli effetti, rappresentante di Dio.
4. La pagina evangelica ci porta a meditare su ciò che – secondo gli esegeti – costituisce il cuore del vangelo di Luca: il capitolo 15°, che contiene le tre parabole della misericordia. Qui ci viene presentata solo la terza: la parabola del padre misericordioso (e non del figlio prodigo come – purtroppo – viene ancora spesso presentata).
Prima, però, è importante riflettere sui tre versetti che intenzionalmente Luca pone all’inizio del capitolo. Vi si parla dei farisei e degli scribi che mormorano contro Gesù perché «accoglie i peccatori e mangia con loro». Il contesto immediato ha un carattere fortemente polemico, anche se poi Gesù, nello sviluppare le tre parabole, abbandona questo tono e insiste piuttosto sulla gioia di Dio nel prendere atto della conversione dei peccatori.
Sappiamo che ogni parabola evangelica va interpretata non tanto nei singoli dettagli del racconto, quanto piuttosto a partire dalla “punta” o punto nevralgico della storia narrata. Qui la “punta” va individuata nell’espressione «bisognava far festa e rallegrarsi».
Perciò, non è la vicenda triste del figlio prodigo e tanto meno l’atteggiamento meschino del fratello maggiore ad attirare la nostra attenzione, quanto piuttosto la gioia del padre. Sotto questo profilo, il padre di quei due fratelli diventa l’icona viva e credibile di Dio stesso, che è padre misericordioso e clemente verso tutti i suoi figli, soprattutto verso i peccatori.
Nel bel mezzo del cammino quaresimale il messaggio di questa parabola torna quanto mai propizio: la Chiesa desidera che noi abbiamo ad accostarci al sacramento della penitenza non oppressi dalla tristezza per i peccati commessi, quanto piuttosto aperti e fiduciosi di ottenere il perdono di Dio, perché questo è il suo desiderio più forte e incontenibile.