Porto di Beirut: 4 anni dopo, senza verità né giustizia

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© Foto di Elisa Gestri

Alle 17 e 55 di martedì 4 agosto 2020 l’ufficio di polizia del porto di Beirut segnala alla vicina caserma dei vigili del fuoco di Karantina un principio di incendio nell’hangar 12, contenente fuochi di artificio. Dieci operatori arrivano sul posto in pochi minuti, ma non fanno in tempo a rendersi conto del problema che alle 18 e 07 due terribili detonazioni ravvicinate li travolgono. Nessuno della squadra ha scampo.

Il fuoco ha coinvolto del materiale altamente esplosivo: quasi tre tonnellate di nitrato di ammonio, un fertilizzante stoccato da quasi sette anni nello stesso hangar. Una nuvola arancio, prodotta dal diossido di azoto rilasciato dalla decomposizione dei nitrati, si alza sinistramente sulla città.

L’energia liberata dalle esplosioni è paragonata dagli esperti a quella liberata da mille tonnellate di tritolo. La seconda detonazione, di gran lunga più devastante della prima, è avvertita a Cipro e in Israele, a oltre 200 km di distanza. Il raggio del cratere lasciato dalla detonazione è di circa 70 metri, e lo spostamento d’aria fa scoppiare i vetri degli edifici nel giro di tre chilometri.

Bilancio pesantissimo 

Il bilancio definitivo delle vittime sarà pesantissimo: quasi 230 persone sono rimaste uccise, oltre 700 ferite e circa 300.000 hanno perso la loro abitazione. Ci sono vittime tra le maestranze del porto: elettricisti, tecnici, ingegneri, lavoratori a giornata, forze di polizia e militari di guardia agli ingressi.

Vittime si contano tra il personale delle navi ormeggiate, tra gli automobilisti che in quel momento si trovano a passare sul viale davanti al porto, tra gli impiegati degli edifici prospicienti. Molte persone trovano la morte nelle loro abitazioni o nei locali, caffè, ristoranti, pub di cui l’area è piena: cuochi, camerieri, fattorini, inservienti e avventori.

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Manifestazione al Porto di Beirut  © Foto di Elisa Gestri

La vittima più giovane è il piccolo Isaac Oehlers, due anni, colpito da un pezzo di vetro sul seggiolone nella sua casa a 700 metri dal porto. Muoiono in maggioranza cittadini libanesi e siriani, ma ci sono vittime provenienti da decine di altri Paesi, in quanto il Libano è tradizionalmente un punto di incontro tra Oriente e Occidente ad ogni livello, politico, commerciale, culturale e religioso.

L’inchiesta giudiziaria sull’esplosione accerta che il nitrato di ammonio è giunto a Beirut nel 2013 a bordo della nave Rhosus, di proprietà russa e battente bandiera moldava, diretta in Mozambico ma costretta ad entrare in porto per problemi tecnici. Le autorità portuali beirutine, però, negano all’equipaggio il permesso di riprendere il mare, e la Rhosus e il suo carico vengono abbandonati al porto dalla proprietà.

Le indagini e le ostruzioni

Risulta dagli atti dell’inchiesta che gli ufficiali del porto hanno avvertito più volte le autorità libanesi della pericolosità del nitrato d’ammonio depositato nell’hangar senza misure di sicurezza nelle vicinanze di materiale pirotecnico facilmente infiammabile; perché tali comunicazioni non sono state prese in considerazione dalle autorità superiori?

Un documentario del 2021 avanza l’ipotesi che il nitrato d’ammonio stoccato al porto dovesse in realtà servire alla fabbricazione di esplosivi destinati all’utilizzo nella guerra civile siriana; scenario inquietante, su cui però non è stato possibile ottenere prove certe.

Paradossalmente, ma non troppo, proprio gli stessi sedici ufficiali del porto risultano essere gli unici tratti in arresto di tutta la vicenda; alcuni di essi sono stati rilasciati dopo alcuni anni di detenzione, altri sono deceduti in circostanze misteriose.

Il primo giudice a capo dell’inchiesta, Fadi Sawan, ha accusato formalmente di negligenza criminale alcuni dei ministri in carica all’epoca dei fatti: il Premier Hassan Diab, i ministri dell’interno, delle infrastrutture, dei lavori pubblici e delle finanze, che di rimando hanno dichiarato di non poter essere perseguiti in quanto protetti dall’immunità parlamentare.

Oltre a non collaborare con le autorità giudiziarie, i ministri indagati hanno presentato un’istanza contro il giudice Sawan che è costretto a dimettersi dall’incarico. Il suo sostituto, Tarek Bitar, non avrà miglior fortuna nell’accertamento delle responsabilità dell’incidente e verrà a sua volta rimosso, anche in seguito alle violenze scoppiate a Beirut nell’autunno 2021: lo scontro a fuoco tra militanti dei partiti sciiti Hezbollah ed Amal, avversi al giudice Bitar, e attivisti cristiani del partito delle Forze Libanesi lascia sul terreno 8 morti.

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© Foto di Elisa Gestri

Giustizia per le vittime

A quattro anni di distanza l’incidente resta dunque avvolto nel più fitto mistero: l’ostruzione delle istituzioni libanesi non ha permesso al potere giudiziario di fare la minima chiarezza sull’accaduto.

Mentre l’inchiesta è ferma, i familiari delle vittime continuano a chiedere giustizia per i loro cari e non si stancano di commemorarli il 4 di ogni mese al porto di Beirut. La ferita è ancora aperta e la ricostruzione dell’area interessata dall’esplosione, in gran parte riedificata grazie alle ingenti donazioni della comunità internazionale, non sopperisce all’assenza di giustizia per gli innocenti deceduti nello scoppio.

Il porto di Beirut funziona al 10% del suo standard pre esplosione, ed il Mediterraneo ha perso uno scalo importante, se non decisivo, per il traffico di merci e passeggeri. I silos contenenti frumento, semidistrutti dalla deflagrazione, restano in piedi al centro del porto a testimoniare la sofferenza dei familiari delle vittime e la loro fame di verità e giustizia per i loro cari.

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