Cultura cristiana, ora di religione e catechismo

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L’ampio dibattito su cattolicesimo e cultura, sviluppato lungo sei mesi sulle pagine di Avvenire e anche altrove, mi induce ad aggiungere qualche considerazione.

La situazione di chi, come me, insegna da tempo in una università statale Storia del pensiero teologico (e da alcuni anni anche Filosofia della religione) è molto felice: insegnare è già bello di per sé, particolarmente lo è quando si insegnano cose che appassionano, ancor di più lo è quando ci si accorge che questa passione è in parte contagiosa (non per merito proprio, ma delle cose stesse).

È una grande soddisfazione vedere che certi temi, certi nomi, certe pagine, certi eventi, vengono scoperti per la prima volta, come una cosa nuova mai sentita prima. In una certa misura ciò è ovvio (sarebbe ben grave se, in un corso universitario, si ripetessero solo cose già note!), in un’altra misura no, e quindi doppiamente gratificante. Certo, c’è una certa emozione nel far scoprire (puta caso) Teodoreto di Ciro o Hadewijch o Paul Tillich, ma ancora più emozionante è far scoprire (puta caso) i Vangeli o la Lettera ai Romani.

Temo però che tale emozione riveli un piccolo problema. Non dovrebbe uno studente medio universitario, indipendentemente dalle sue convinzioni personali (che peraltro io stesso raramente vengo a conoscere), conoscere con un minimo di dettaglio i Vangeli o la Lettera ai Romani?

Il catechismo e l’ora di religione

Non credo che qui porti lontano rammaricarsi dell’«atmosfera» in cui qualsiasi giovane oggi vive: certo, è vero che il sapere si trasmette anche per una sorta di osmosi, vi sono tantissime cose che conosciamo senza che sappiamo dire quando e da chi le abbiamo apprese. Ma, in questo caso, vi sono un paio di circostanze precise in cui molti giovani avrebbero potuto imparare qualcosa: l’ora di religione a scuola e il catechismo in parrocchia.

Sono moltissimi coloro che si «avvalgono» della prima, fino all’ultima classe della scuola media superiore: facendo due conti, si tratta di almeno 400 ore di lezione durante la propria vita. E sono moltissimi coloro che frequentano il catechismo per la prima comunione: qui le prassi variano, ma si possono ipotizzare almeno 60 ore distribuite su due anni (altrettante per il catechismo per la cresima, che però è notoriamente molto meno scelto).

In entrambi i casi non sarebbe giusto sottrarre dal conto come irrilevante il tempo occupato in età infantile: anzi, qualcuno potrebbe sostenere che proprio esso è il più importante (ora sto scrivendo usando anzitutto le cognizioni imparate all’età di sei anni, e ad ogni R che scrivo mi può tornare alla memoria la Rana presente nel timbro che il maestro mi stampò sul quaderno, circondata ai quattro angoli dalla R maiuscola e minuscola, corsiva e in stampatello).

Qualche tempo fa parlavo con un giovane prete e professore di liceo, che mestamente ammetteva: l’insegnamento della religione è dal punto di vista culturale un fallimento completo: tredici anni, e alla fine gli studenti non sanno niente.

Ho cercato dati in proposito, ma ne ho trovati pochissimi (per questo insegnamento non esiste nulla di paragonabile ai pur discutibili test Invalsi). Ho trovato i dati di una ricerca svolta in Lombardia nel 2010-2011, in cui risultava che gli studenti che alla fine avevano una «buona conoscenza» della religione cattolica erano tra il 20% e il 40%: un dato disastroso per chi, come me, è convinto dall’idea che, nell’insegnamento, l’obiettivo giusto è che il 90% degli studenti raggiunga un livello del 90% di padronanza.

Immagino che, a distanza di anni, la situazione non sia migliorata, e comunque il problema appare ormai di lunga data, se già alla fine degli anni Novanta Usenet poteva ospitare un’accesa polemica in merito.

Riguardo al catechismo, non esiste nessun dato comparabile: certo, la percentuale degli ammessi alla celebrazione del sacramento è il 100% (qualche eccezione approda regolarmente sui giornali come scandalosa), ma non mi risulta che tale ammissione dipenda da una verifica delle conoscenze, com’era ancora per la mia generazione.

A scanso di equivoci, non credo affatto che il problema sia negli insegnanti: ne ho conosciuti e continuo a conoscerne di coltissimi, intelligentissimi, con grande sensibilità pedagogica. Il loro percorso di formazione è esigente, molti hanno titoli superiori rispetto a quelli richiesti. Anche il loro processo di selezione è in genere rigoroso. (La mia valutazione sarebbe alquanto differenziata se, anziché degli insegnanti, si parlasse dei libri di testo: ma il discorso sarebbe lungo e preferisco non entrarvi). Per quanto riguarda i catechisti, le diocesi normalmente prevedono serie possibilità di preparazione e aggiornamento.

A scanso di ulteriori equivoci, non credo neppure che l’ora di religione sia di per sé fallimentare: il fatto che sia così ampiamente scelta testimonia, al contrario, quanto essa sia apprezzata. Poco tempo fa, avendo attraversato parecchie scuole medie superiori, sono rimasto colpito da quanto gli studenti possano amarla, fino a rispondere in coro, alla domanda su quale fosse la loro materia preferita, «religione!».

Alla scuola, che ciò piaccia o no, sono demandati oggi tanti e difficili compiti, ed evidentemente l’insegnamento della religione cattolica ne intercetta alcuni cruciali, che possono lecitamente essere ritenuti di gran lunga più importanti della conoscenza della Lettera ai Romani.

Alcuni di questi compiti, peraltro, riguardano il campo della sensibilità religiosa o spirituale in generale, altri la missione culturale della scuola (per esempio, dal punto di vista dell’interdisciplinarietà, che spesso ha proprio nell’insegnamento della religione cattolica un luogo privilegiato). Mutatis mutandis, osservazioni analoghe possono essere fatte per il catechismo.

La fede e il suo rapporto col sapere

Ciononostante, credo che qui si sfiori un punto cruciale per spiegare l’insuccesso culturale dell’ora di religione (e anche del catechismo). Certo, riconosciamo francamente che un insegnamento senza voti assume un profilo diverso agli occhi degli studenti (e riconosciamo che il catechismo non appare affatto come un insegnamento). Riconosciamo anche che la scuola ha i suoi bei problemi di efficacia non solo riguardo all’ora di religione. Ma, probabilmente, un ruolo non piccolo è giocato anche dal fatto che le questioni di fede (o di religione) non vengono oggi comunemente ritenute questioni di sapere, né questioni aventi alcun rapporto con il sapere.

In questo, una certa evoluzione del pensiero teologico cristiano del Novecento ha giocato un ruolo importante. La fede cristiana è anzitutto una forma di sapere o una forma di atteggiamento esistenziale? Molta teologia del Novecento ha preso posizione, con varie sfumature, per la seconda cosa, e questa comprensione coincide oggi in gran parte con la coscienza comune.

Un altro ridimensionamento è venuto dal versante teologico-politico: anche ammesso che nel cristianesimo vi sia una componente conoscitiva, è più importante essa o quella dell’azione? Un’importante parte della teologia del Novecento ha sostenuto un primato dell’azione: e questo, variamente interpretato, è stato anche ritenuto la sana via d’uscita nei confronti di dissensi sempre più ritenuti come puramente concettuali, o addirittura puramente verbali. Perché dare importanza alle idee che dividono, anziché al fare che accomuna, o che, perlomeno, stabilisce discrimini ben più decisivi di quelli puramente dottrinali?

Non c’è bisogno di notare quanto questa posizione, con varie sfumature, ha avuto e ha successo: e questa convinzione è certo rafforzata dal fatto che la visibilità pubblica del cattolicesimo è sempre più affidata ad istanze morali e politiche a prima vista raggiungibili da mille altre strade (per esempio l’ambiente, l’immigrazione, la pace).

Ovviamente, per ciascuno di questi punti si potrebbe fare un lungo discorso, e riconoscere che, dietro ogni ridimensionamento del sapere, si trova sempre un’esigenza giusta che (ironia della cultura!) meriterebbe di essere conosciuta, discussa, valutata.

Tuttavia (a questo volevamo arrivare) la conseguenza è che, in relazione al cristianesimo, la stragrande maggioranza delle persone non si aspetta più che vi sia qualcosa che valga la pena di essere saputo e imparato, qualunque sia il proprio atteggiamento personale nei riguardi di esso.

Il vuoto che resta

Non c’è da meravigliarsi se, in un misto di convinzione, realismo e rassegnazione, a questa non domanda corrisponda sempre più una non offerta, e che, per esempio, molti libri di testo di religione cattolica (vìolo il silenzio che mi ero imposto qualche riga fa) vengano esplicitamente presentati come un contributo al «dialogo»: non al sapere.

Un libro per adolescenti scritto sull’onda conciliare come Non di solo pane (contemporaneamente catechismo e libro di testo di religione), che, per esempio, come primi cinque autori cita Bernardo di Chiaravalle, Kant, Guardini, Camus e Dostoevskij, sembra oggi provenire da Marte. (È sicuro che un giovane o una giovane di oggi lo disprezzerebbero? Ecco una buona idea per un editore che voglia mostrare che ristampare vecchi catechismi non è necessariamente un’operazione reazionaria).

Le periodiche lamentele riguardo all’ignoranza religiosa o all’ignoranza teologica sono destinate così a cadere nel vuoto, o a sembrare addirittura cerimoniali e insincere quando formulate da chi, in effetti, qualche piccolo potere di cambiare le cose lo avrebbe sì.

Una variante sulla quale periodicamente ci si illude di ottenere maggior ascolto è quella della denuncia dell’ignoranza biblica: ma perché mai la conoscenza della Bibbia dovrebbe essere più appetibile della conoscenza della patristica, o della grande tradizione teologica (anche contemporanea), o magari della conoscenza della liturgia, o della mistica, quando ciò che appare squalificato è appunto il sapere? Non c’è da meravigliarsi che abbiano avuto effetti limitati benemerite iniziative come l’intesa tra il MIUR e l’associazione culturale laica Biblia, sottoscritta nel 2010 e poi rinnovata.

Certo, la cultura non s’identifica con un semplice sapere, e comunque vi sono cose più importanti della cultura: però è anche vero che le alternative ad essa spesso non sono affatto migliori. Come non è necessario per la propria vita leggere Giacomo Leopardi o ammirare l’opera di Michelangelo, così non è affatto indispensabile la conoscenza dei documenti fondanti del cristianesimo e dei loro criteri interpretativi, della ricchezza (e ambiguità) delle sue esperienze, dei testi e delle opere che hanno (nel bene e nel male) mediato il rapporto tra fede e civiltà.

Il problema è che il posto lasciato libero da questa conoscenza viene facilmente occupato da cose molto peggiori, o da un nulla che non è meno dannoso. Questo vale pure per i credenti: la «santa ignoranza» era un grande rischio quando Olivier Roy ne scriveva nel 2008: oggi lo è ancor più.

Da parte mia, seppure a malincuore ma generosamente, sarei pronto a rinunciare alla soddisfazione di far scoprire per la prima volta i Vangeli o la Lettera ai Romani, se questo significasse che tutti gli studenti dicessero: «Bellissimo, ma lo sappiamo già».

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