I leoni dell’Atlante

di:

marocco

«No, non è un semplice gioco, è una terapia!». Ha ragione padre Modeste, giovane missionario congolese dei Padri Bianchi. Lui fa l’arbitro. Sul verde campo da calcio li vedi scorrazzare con un’energia che impressiona. Scattanti sull’erba, interattivi, quasi danzando con il pallone al piede, e poi come un lampo… gooaaal!! Un urlo di gioia che squarcia le gole. L’adrenalina, qui, vola al massimo.

Mi stropiccio gli occhi, e mi domando incredulo: ma sono gli stessi giovani? Sì, li incontrate nei giorni normali per le strade di Rabat. Malconci e malvestiti, faccia tirata, atteggiamento supplichevole, elemosinano 1 dirham. Ed è il loro unico modo di sopravvivere. Alla fine della giornata, raccoglieranno appena due o tre euro, se tutto va bene. A volte, nulla.

«L’altra sera sono andato a dormire a stomaco vuoto, non c’era niente!», vi dice amaro Ahmad, 17 anni, facendovi pietà. O perché spesso cascano in retate delle forze dell’ordine, trasportati all’istante ai confini del deserto.

Mendicare qui è proibito. Una città bella, tutta bianca, affacciata sul blu dell’oceano, Rabat, la capitale, non se lo può permettere. «Noblesse oblige».

Ma, sul terreno da calcio, dimenticano tutto. E vengono fuori tutte le loro energie dell’anima e del corpo. Dimenticano la loro immensa odissea tra deserti e frontiere. Provengono dal Senegal, dalla Guinea, insomma dai Paesi subsahariani, attraversano per mesi, anche a piedi, Mali e Algeria…

Qui dimenticano le sofferenze, le violenze, le difficoltà di ogni genere, ferite o malattie, fame e sete incontrate. E anche le tragedie viste o vissute. «È formidabilmente catartico per loro!», mi fa ancora père Modeste. Sì, purificare la memoria. Far emergere giocando l’amarezza della loro vita, ma anche la loro sorprendente vitalità. Vincere l’ansia, la solitudine e l’abbandono. Mostrare, così, un coraggio senza limiti, e la voglia di andare avanti ad ogni costo. Perfino a costo della vita. E lo sanno… Il loro sogno è l’Europa. «Hanno un coraggio che trasporta le montagne!», dice qualcuno.

Le loro famiglie li seguono da lontano, passo dopo passo: questi giovani raminghi sono la loro speranza. Finché un giorno non sentiranno più la loro voce, e allora, tutto è perduto! Resterà solo il pianto a far loro compagnia.

Un’avventura, questa, inimmaginabile per loro stessi. Sì, impensabile. Ma qui, sull’erba di un campo da calcio ritrovano un po’ di umanità. E una nuova energia interiore. «Voilà, les vrais lions de l’Atlas!» («Eccoli, i veri leoni dell’Atlante» il nome della nazionale del Marocco), esclama père Modeste per incoraggiarli.

Da poco, hanno pensato di mettere su una «cassa del calcio» per tutte le loro spese, ma è sempre vuota. Dovrebbe servire a medicinali di emergenza, al trasporto, a un pasto insieme, all’affitto orario del campo… Perché vivono in quartieri poverissimi della periferia e vengono in centro città per giocare.

A volte li vedi apparire a decine. E sono tutti musulmani. Alcuni come Aliou o Mamadou semplicemente adolescenti, ma a cui la vita dura ha dato grinta e talento. Il loro match, poi, inizia sempre con una preghiera. È vero, l’invocazione ad Allah li accompagna ad ogni istante.

La sentite spesso sulla bocca di una vita giovane, selvatica e disperata come la loro. E vi sorprende. Perché solo Dio li tiene per mano, in un mondo tutt’attorno di avversità. E così, alla fine, père Modeste sembra concludere con Bonhoeffer: «La Chiesa non è realmente Chiesa, se non quando esiste per coloro che non ne fanno parte». Ammirevole missionarietà!

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