Medio Oriente: la speranza di Doha

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Una ridda di voci e notizie smentite direttamente o indirettamente. Di certo si può dire che finalmente ieri sera si è saputo che il grande incontro per trovare l’accordo sul cessate il fuoco di Gaza e il rilascio degli ostaggi si farà a Doha, anche questo fino a ieri mattina non era scontato visto il desiderio egiziano di ospitare i colloqui al Cairo.

Meno rilevante appare a molti la confermata assenza di Hamas. Loro non ci saranno, ma siccome hanno dato la disponibilità a discutere subito dopo l’incontro con i mediatori eventuali novità rispetto a quanto discusso sin qui in mesi di negoziazioni indirette, e considerato che comunque non sarebbero mai stati nella stessa sala con la delegazione israeliana, i più convengono nel dire che alla fine cambi poco.

Non è chiaro fino a quando dovrebbe protrarsi l’incontro di Doha, quantomeno fino al 16 agosto, e anche questo renderebbe teoricamente possibile un incrocio di incontri tra un prima e un dopo. Un negoziato del genere non deve sorprendere che si sviluppi così. Insomma, certamente c’è la guerra dei nervi, evidente e durissima, ma anche quelle dei calcoli e dei timori.

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È in questo contesto che va letto e capito ciò che molti riferiscono ufficiosamente: la delegazione israeliana chiederebbe che i 33 ostaggi da rilasciare nella prima fase del cessate il fuoco, che durerà sei settimane, siano tutti in vita, mentre nelle precedenti negoziazioni era stato riferito, sempre da fonti ufficiose, che la proposta di Hamas, rilascio di 18 ostaggi in vita e restituzione di 15 salme, fosse stata presa in considerazione.

Per il piano Biden nella prima fase andavano liberati anziani, donne e malati. Nel corso dei mesi Hamas ha presentato questa formula, nella quale gli altri ostaggi verrebbero liberati insieme alle salme degli ostaggi defunti, nella seconda fase dell’accordo, definita dal piano Biden “fine permanente delle ostilità” – che è quello che interessa conseguire ad Hamas e che sarebbe negoziata durante le sei settimane di tregua (nel caso di ostacoli le parti continuerebbero a trattare fino a quando raggiungeranno l’accordo sempre con la mediazione di USA, Qatar e Egitto).

A ciò seguirebbe la terza fase, quella della ricostruzione. È la riprova di quanto complesso sia il negoziato. Sospetti e timori segnano una road map complicatissima. Poi c’è la feroce guerra dei nervi.

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Altrettanto complesso e denso di insidie è lo sviluppo del caso Ben Gvir, il ministro israeliano espressione dell’estrema destra, che ha portato un gruppo di suoi seguaci a pregare sulla Spianata delle moschee proprio ieri, violando così lo status quo dei luoghi santi di Gerusalemme: incendiando la diplomazia mondiale e portando cinque rabbini israeliani di grande autorevolezza, Avigdor Nebenzahl, Shmuel Betzalel, Simcha Rabinowitz e David Cohen, a biasimarlo con parole durissime e ufficiali.

I partiti degli “haredim” (i timorati), di ispirazione religiosa, sono attraversati da non poche voci che suggeriscono di uscire dalla coalizione governativa.  Forse non è un caso che proprio ieri, per la prima volta in questa legislatura, il governo sia stato battuto in Parlamento e abbia dovuto così ritirare alcuni provvedimenti che avrebbero dovuto essere votati nelle ore seguenti. E sempre la guerra dei nervi ha portato un altro ministro dell’estrema destra a pubblicare ieri i piani per la costruzione di un nuovo insediamento colonico in Cisgiordania, deciso mesi fa.

Chi ha ricordato come stanno effettivamente le cose è stato certamente l’inviato della Casa Bianca, Amos Hochstein, che è corso a Beirut dove ha detto dopo i suoi colloqui politici che l’accordo di Gaza aiuterebbe anche ad arrivare anche a una soluzione diplomatica sul fronte libanese.

Tutto si lega e sebbene tutto sia estremamente difficile, la sua missione a Beirut in queste ore indica che la Casa Bianca, consapevole delle infinite difficoltà, non dispera.

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