Itinerari misogini tra tonache e toghe

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Che le donne non siano della stessa specie degli uomini e che, di conseguenza, non abbiano anima, e che, per tanto, non possano salvarsi, era opinione diffusa fra diversi trattatisti dei secoli XVI e XVII, esponenti di punta della cosiddetta Querelle des femmes.

Iniziatore della Querelle era stato il giurista francese André Tiraqueau che, nel suo trattato De legibus connubialibus et iure maritali del 1554, aveva sostenuto che alle donne, in sede di processo penale, dovessero essere assegnate pene minori rispetto agli uomini a motivo della loro minore razionalità – discorso perfettamente in linea con l’affermazione di Tommaso «femina est mas occasionatus».

Dalla Francia il dibattito sulla natura delle relazioni tra i sessi si era esteso a tutta Europa, andando a lambire le sfere della politica, del sociale, dell’economia e della religione. Tra satire, antisatire, tirate misogine, parodie, dotte elucubrazioni, accorate apologie, la Querelle offrì un non insignificante contributo allo sviluppo della trattatistica filosofica secentesca, i cui protagonisti accreditati erano, naturalmente, tutti maschi.

Ma è proprio all’interno di questo orizzonte, rigorosamente dominato da discorsi fatti da uomini intorno alle donne, che possiamo incontrare Arcangela Tarabotti.

Una monaca veneziana

Nata a Venezia, nel sestiere popolare di Castello, nel febbraio del 1604, Elena Cassandra Tarabotti era la primogenita di una famiglia numerosa del ceto medio. Probabilmente per un difetto fisico – una zoppia ereditata dal padre -, che avrebbe limitato le sue chances sul mercato matrimoniale, a poco più di dieci anni fu costretta ad entrare prima come educanda e poi come professa nel monastero di sant’Anna in Castello, dove rimase, senza mai uscire, fino alla sua morte, avvenuta nel 1652.

Nel 1623, dopo la professione solenne, prese il nome di suor Arcangela e come suor Arcangela, rinchiusa fra le mura di quel convento in cui era entrata forzatamente e non per propria volontà, dedicò tutte le sue energie di pensiero a riflettere e a scrivere sulla condizione delle donne, sulla loro privazione del libero arbitrio e sul loro diritto all’educazione.

Le sue riflessioni confluirono in libri dai titoli eloquenti, come La tirannia paterna (o la semplicità ingannata), in cui Tarabotti dà voce alla tragica esperienza autobiografica della monacazione forzata, e L’Inferno monacale, dove tratta della vita all’interno dei conventi.

Stampati in numero limitato di copie e poi dimenticati o rimasti allo stato di manoscritto, i libri di Arcangela Tarabotti solo da qualche decennio hanno iniziato a muovere l’interesse della ricerca storica, letteraria e filosofica.

«Che le Donne siano della spetie degli Huomini»

L’ultima opera della pensatrice risale al 1651, l’anno prima della morte. Si tratta di un libricino dal titolo Che le Donne siano della spetie degli Huomini, con cui la monaca veneziana risponde in modo puntuale al trattato Che le Donne non siano della spetie degli Huomini. Discorso piacevole, tradotto da Horatio Plata Romano, pubblicato nel 1647. In questo trattato Horatio Plata, probabile pseudonimo dello scrittore veneziano Giovan Francesco Loredano, fondatore dell’Accademia degli Incogniti, si presentava come traduttore in italiano della Disputatio nova contra mulieres, qua probatur eas homines non esse, uscita in forma anonima a Francoforte nel 1595.

Arcangela Tarabotti contesta la tesi centrale di Plata e dell’anonimo autore della Disputatio nova contra mulieres, secondo cui, poiché le donne non sono della stessa specie degli uomini, non hanno l’anima, non hanno accesso alla salvezza e «Dio non s’habbi humanato e morto per loro».

L’articolato percorso argomentativo di Tarabotti prende le mosse da una fondamentale premessa: gli attacchi misogini contro le donne sono facilitati dal fatto che le donne non possono rispondere alla «inventate malvagità» degli accusatori «per mancanza di Studi». L’ignoranza cui il sesso femminile è condannato, la mancanza di istruzione delle donne, è la causa prima della loro privazione del libero arbitrio.

Tarabotti risponde alle accuse muovendosi proprio sul terreno che, per interdetto sociale, le dovrebbe essere estraneo, quello della conoscenza delle Scritture. Le sue argomentazioni, strutturate a partire da una lettura accurata dei testi biblici, con sferzante vivacità intellettuale smontano le tesi misogine di chi, servendosi di un metodo fallace nell’interpretare le Scritture, sostiene che le donne non possano essere considerate della stessa specie dell’uomo:

Cercate e ricercate meglio le Scritture, non stote in la scorza, penetrate al midollo, ché ad ogni passo trovarete l’Huomo e la Donna d’uniforme conditione.

La lunga strada dell’emancipazione

La Querelle des femmes, tematizzando l’uguaglianza tra i sessi come questione di principio, si pone come imprescindibile preludio al percorso che, con enorme fatica, tra XIX e XX secolo porterà a declinare il principio in articoli di legge: dal diritto allo studio al suffragio universale all’accesso alle cariche politiche e dirigenziali.

Strada lunga e accidentata quella dalla teoresi alla prassi, come ricorda Paola Di Nicola Travaglini nel suo libro La giudice. Una donna in magistratura. Intrecciando autobiografia e ricerca storiografica, la giudice Di Nicola Travaglini illumina, documenti alla mano, le difficili tappe che hanno portato alla promulgazione della legge 66 del 9 febbraio 1963, con cui è stata sancita l’ammissione delle donne ai pubblici uffici e alle libere professioni.

La legge 66/1963 rappresenta il punto d’arrivo di un serrato dibattito iniziato ancora nelle aule della Assemblea Costituente, quando si doveva dare forma a quello che sarebbe diventato l’articolo 51 della nostra Carta Costituzionale. Di Nicola Travaglini cita, a tal proposito, interessanti stralci di discorsi pronunciati nel corso dei lavori della Costituente. Così il magistrato democristiano Antonio Romano: 

Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte di giudicare. Questa richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche.

Fondamentale, in un contesto così fortemente viziato da atavici pregiudizi, fu la presenza in Assemblea delle ventuno madri costituenti, che ebbero un ruolo attivo nel sostenere, in ossequio al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3, la formulazione dell’articolo 51 della Costituzione nei termini che vennero poi approvati:

Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Dall’articolo 51 della Costituzione alla legge 66/1963

Molti altri ostacoli dovevano essere rimossi perché, quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si arrivasse alla promulgazione della legge 66/1963. La giudice Di Nicola fa memoria di alcuni passi del pamphlet La donna giudice ovverosia la «grazia» contro la «giustizia», dato alle stampe nel 1957 dal presidente onorario della Corte di cassazione Eutimio Ranelletti. Con il tono disteso di chi non ammette repliche, nel suo libro Ranelletti affermava che la donna

è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.

Finalmente, il 9 febbraio 1963, venne approvata e promulgata la legge n. 66, composta di due soli articoli:

Art. 1. La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge.

L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari.

Art. 2. La legge 17 luglio 1919, n. 1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n. 39 ed ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge sono abrogati.  

A seguito della promulgazione della legge, il successivo 3 maggio 1963 venne bandito il primo concorso di Magistratura aperto anche alle donne. Fu vinto da otto donne, che intrapresero la loro carriera di magistrate nell’aprile del 1965. Un passaggio epocale. Come se, scrive la giudice Paola Di Nicola Travaglini,

da un giorno all’altro, fosse consentito alle donne di vestire anziché una toga una tonaca sacerdotale e celebrare la messa interpretando, a modo nostro e con la nostra cultura ed esperienza di esclusione, le Sacre Scritture, la parola di Dio, le parabole dei vangeli, i gesti di Cristo, le sofferenze di sua madre.

Sono passati sessant’anni da quel 1963. In questi sessant’anni una silenziosa ma straordinariamente efficace rivoluzione ha fatto sì che, dei circa 9.000 magistrati presenti oggi in Italia, il 55% circa siano donne.

Sessant’anni fa, erano gli anni del Concilio Vaticano II. E intanto, i nostri uomini di Chiesa sono ancora lì a cercare di discutere di diaconato femminile.

Indicazioni bibliografiche

Arcangela Tarabotti, Che le Donne siano della spetie degli Huomini, Artetetra, Capua 2014.

Paola Di Nicola Travaglini, La giudice. Una donna in magistratura, HarperCollins, Milano 2023.

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12 Commenti

  1. Marco 21 agosto 2024
    • Gian Piero 23 agosto 2024
  2. Adelmo Li Cauzi 21 agosto 2024
    • Andrea 21 agosto 2024
      • Adelmo Li Cauzi 22 agosto 2024
        • Mattia Ferrari 22 agosto 2024
          • Adelmo Li Cauzi 22 agosto 2024
  3. Salfi 21 agosto 2024
  4. Emanuele 20 agosto 2024
  5. Elisabetta Manfredi 20 agosto 2024
  6. Laura 20 agosto 2024
  7. Una donna 20 agosto 2024

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