Giochi di guerra: una riflessione sulla «cultura»

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cultura

Non è solamente la politica a poter essere la continuazione della guerra con altri mezzi, come ha sostenuto Michel Foucault rovesciando la celebre massima clausewitziana: lo può essere anche la cultura.

D’altronde già Walter Benjamin non si peritava di affermare che, se li si guarda con giustizia, non esiste nessun documento della cultura che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie, poiché «tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei».

Reciprocamente possiamo allora dire che, nell’ottica degli oppressi, ogni documento di cultura porta in sé, piantato nel terreno della storia, il seme della sua redenzione. «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» vuol dire anche destituire quel potere della barbarie e restituire alla moltitudine dei senza nome non solo il frutto della fatica dei loro corpi ma la bellezza della loro voce.

Culture wars

In tema di guerra di cultura, per quanto attiene la modernità, non si farà tanto riferimento al pur importante Kulturkampf bismarckiano, quanto alla culture war teorizzata e praticata dai neoconservatori americani a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso e poi entrata a far parte della cosiddetta neolingua. Si ricorderà, al proposito, il discorso-manifesto di Pat Buchanan alla Convention repubblicana del 17 agosto del 1992 che programmava la guerra di cultura come una sorta di continuazione della guerra fredda all’interno degli Stati Uniti. E, rammentiamoci pure di questo, nel discorso di Buchanan: la guerra culturale era ugualmente una religious war, ovvero una «guerra per l’anima dell’America» da basarsi su valori (presuntamente) cristiani.

Facciamo attenzione ai termini utilizzati: non si trattava più di impegnarsi in un conflitto culturale, laddove i conflitti sono spesso sintomo di una certa vitalità sociale, pensiamo ad esempio a quelli della stagione degli anni ’60, ma di una guerra, il che vuol dire l’identificazione di un nemico da annichilire, la mobilitazione di una parte consistente della popolazione e quindi il dispiegamento di ogni mezzo atto al combattimento. E la guerra non è più sintomo di vitalità, ma del dilagare di una malattia mortale.

La novità dell’oggi consiste nel fatto che mentre nei Novanta, una volta crollato l’«impero del male» sovietico, si trattava di promuovere una guerra di cultura interna che purificasse la nazione da militanti sociali, femministe, ecologisti e black power, da qualche anno ormai, seguendo sia il corso della storia che la logica insita nella guerra, la culture war è praticata ovunque, sia a Ovest che a Est, in primo luogo verso l’esterno, cioè verso quello che viene designato come il radicalmente altro, l’estraneo da respingere, cancellare ed eventualmente uccidere. Una specie di guerra ai barbari 2.0, globale e multimediale. Ma è un esterno che può rivelarsi anche all’interno tramite «infiltrazione»; così ad esempio viene modellato culturalmente il tema dell’immigrazione, ovvero dell’incontro con altri, dai governanti delle nostre latitudini. Lo «scontro di civiltà» in questo modo coinvolge il dentro e il fuori: lo si pratica combattendo in altri continenti e sulle reti digitali ma anche impedendo gli sbarchi dei profughi sulle proprie spiagge, oppure «bonificando» le proprie città dai poveri ma anche legiferando su che cosa può o non può essere una vita, un amore o una morte in una civiltà neoliberale. Non è certo un caso, infatti, che la culture war si intrecci così bene con la politica delle identità cresciuta a dismisura negli ultimi decenni tanto nel campo conservatore che in quello progressista. Ogni identità che si rivendichi in quanto tale, di qualsiasi genere essa sia, viene messa a valore e quindi inserita tra i ranghi di combattimento. Se la civiltà è una cultura che ce l’ha fatta, per dirla con una battuta, lo scontro di civiltà traduce l’idea della trasformazione della cultura in una potente arma identitaria nelle mani dei signori della guerra.

Tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso, è un’ingenua semplificazione suddividere rigidamente i campi, come se davvero esistessero la politica, l’economia o la cultura come domini separati, mentre si tratta di un’unica realtà in cui una dimensione agisce continuamente nell’altra dalla quale ne è allo stesso tempo mossa. Può però accadere che una dimensione, nella congiuntura, prenda il sopravvento sulle altre e tutto le venga subordinato. E, come sappiamo bene, ciò è tanto più vero quando quella dimensione è la guerra, cioè il massimo grado della politica di potenza. Se stiamo vivendo l’ora di una «guerra mondiale a pezzi» non ci stupiremo, quindi, che un evento globale carico di senso come lo è un’Olimpiade ne possa diventare un ulteriore pezzo.

Ora, infatti, credo che il dibattito sviluppatosi attorno all’inaugurazione dei Giochi Olimpici parigini mancherebbe il senso del suo oggetto se non riuscisse a inquadrare l’immagine offerta dallo Stato francese, tramite una sontuosa rappresentazione, nella corrente culture war. Questa è una forma di combattimento funzionante come una potente articolazione della più ampia guerra in corso che, nella narrazione propostaci, opporrebbe Occidente e Oriente. Ovvero, in questo momento, buona parte del primo e la Russia, avendo come conseguenza la distruzione dell’Ucraina, così come Israele dovrebbe rappresentare l’avanguardia occidentale pronta a marciare sulle ceneri di una Palestina dipinta come un condominio di fondamentalisti islamici. Solo che nel caso della culture war invece di bombe sulle città si sganciano immagini e discorsi che tuttavia, quando superano un certo punto d’intensità, egualmente feriscono, mutilano e uccidono.

Fantasmagoria olimpica

Continuando con Walter Benjamin, diremo che l’inaugurazione dei Giochi Olimpici è stata la produzione di una fantasmagoria, così come lo furono le grandi Esposizioni universali della Belle Époque analizzate dal filosofo tedesco. La fantasmagoria moderna, secondo Benjamin, è la produzione dell’immagine che una società capitalistica vuole dare di sé stessa, un’immagine quindi che riassumerebbe monadicamente la propria «cultura», facendo però astrazione dal fatto che quella produzione di immaginario si regge materialmente sul fatto di essere frutto di un’enorme e incessante produzione di merce, con tutto ciò che comporta in termini di conflittualità economica, sociale e politica. Anche per questo, a mio avviso, è un errore di prospettiva concentrarsi su di un singolo aspetto dell’inaugurazione dei Giochi, mi riferisco evidentemente a quello della parodia dell’Ultima Cena, evitando di considerare tutta la panoplia di simboli utilizzati per significare la superiorità della cultura dell’Occidente laicista e progressista che, per quanto in crisi, è stato rappresentato complessivamente come la coraggiosa e vincente patria delle libertà che bombarda a tappeto l’oscurantismo nazional-fondamentalista dei vari Kirill e compagnia tramite grappoli di significanti incendiari.

Allo stesso tempo l’estetizzazione della memoria storica portata fino alla pacchianeria, segnatamente quella del passato rivoluzionario della Francia, come quella tramite cui si è rappresentato un multiculturalismo da spot pubblicitario o le più fantascientifiche libertà della carne, serve a neutralizzare la brutale realtà degli attuali conflitti sociali. Far cantare la Marseillaise a una cantante nera, si sarà pensato, potrebbe magari cancellare la memoria dell’assassinio di Nahel, l’ennesimo ragazzo di banlieue ucciso a sangue freddo da un poliziotto, o l’emersione dalla Senna della statua dorata di Louise Michel, l’eroina della Comune, operare una rimozione dell’enorme scontro sociale che in Francia si è avuto sulla riforma delle pensioni. In fondo, è come se si dicesse al popolo: «perdete nella realtà, ma vi facciamo vincere nello spettacolo: accontentatevi!». D’altronde le Esposizioni universali che, tra la fine del’800 e l’inizio del ‘900, a Londra o Parigi si concentravano sull’esaltazione della «bellezza» della civiltà delle macchine, lo facevano sorridendo paternalisticamente delle sanguinose avventure coloniali mentre tentavano di neutralizzare la potenza dell’immaginario suscitato dalle insorgenze operaie in casa propria.

Per giudicare l’inaugurazione dei JO 2024 in quanto azione di governamentalità culturale, ovvero come una potente narrazione che vuole mostrare al mondo che cos’è oggi l’«identità europea» nel senso di civiltà occidentale, essa va dunque vista nel suo insieme e non solo in una singola parte. Cioè, sforzandosi di avere un punto di vista che la guardi dal di fuori come una immagine, mettendo una distanza straniante tra sé e la fantasmagoria. Evitando, cioè, di farsene risucchiare.

La narrazione proposta dall’inaugurazione dei Giochi, se si adotta questo tipo di sguardo, appare allora come un puro atto di guerra culturale. Non poteva esserci nessuna tregua olimpica perché quest’operazione gli ha negato le condizioni di possibilità, visto che il senso stesso della cerimonia d’apertura era implicato nella guerra in corso. Le critiche moralistiche che gli sono state rivolte, quelle che piagnucolano sostenendo che lo spettacolo abbia occultato questo o l’altro aspetto dolente dell’attuale momento storico, non solo peccano di finta ingenuità – perché mai i potenti dovrebbero mostrare o esaltare ciò che oggi li metterebbe in cattiva luce? –  ma sono anche cieche: non comprendono che, per il regime epistemico vigente in Francia e non solo, tutto il dicibile è stato detto e tutto il visibile è stato visto. E questo tramite la fabbricazione di una immagine composta di tante microrappresentazioni che servono ognuna a catturare, dentro la fantasmagoria, le tante identità che vengono ormai prodotte in tempo reale. Perciò stesso, se non si fa attenzione, il concentrarsi esclusivamente sul singolo aspetto del banchetto queer porta inevitabilmente a entrare nel dispositivo di guerra, ovvero a schierarsi da un lato o dall’altro, ad essere prodotti come una delle mille identità in cui ci si può liberamente accomodare e che, nella rappresentazione parigina, sono state rinchiuse ciascuna nel proprio tableau vivant. Sebbene non comunicanti tra di esse, ciascuna identità lo fa direttamente con chi nel pubblico vi si riconosce. Chi nei giorni scorsi si è fatto un giro sui vari social ne ha avuto una prova evidente. Il percorso della critica dev’essere allora inverso: prima il tutto, poi le parti.

Comunque sia, ce n’è stato per tutti i gusti e così la culture war esterna è diventata anche religious war interna e viceversa. Di fatto, come si è potuto dire e vedere, la Francia, questa campionessa dei Lumi democratici, è stato il solo paese a vietare alle proprie atlete musulmane di portare il velo. È il potere in carica che decide in che termini si può avere ed esibire un’identità e così quelle religiose si sono accorte di non avere alcun posto nell’attuale narrazione della République, se non in termini parodici o di negazione. E, siccome ogni dispositivo funziona per polarizzazione, sono state benvenute tutte quelle identità che se ne sono fatto carico consentendo a quello di funzionare meglio come macchina di cattura. Forse una maniera efficace di resistere a questo tipo di potere consiste allora nel sottrarsi decisamente al richiamo dell’identità o, meglio, nel rifiutarsi all’essere ridotti a un’identità in lotta per la propria affermazione o sopravvivenza.

Tutte le azioni di guerra, si sa, sono in ogni senso molto costose e i governanti francesi non si sono certo risparmiati nell’esprimere la loro potenza di fuoco. Ma se è vero quello che il Papa ripete ogni giorno, cioè che la guerra è sempre una sconfitta, lo è perché ogni guerra si rivela alla fine consistere in una sensibile diminuzione − fisica e spirituale − sia dell’umanità che del mondo stesso, ovvero in una produzione di barbarie. Quell’atto di guerra culturale, costituito da una lunga parata semiotica in cui i segni sono stati usati come proiettili, di certo ha impoverito, anche in senso molto materiale, l’umanità approfondendo le divisioni esistenti nel mondo, mentre con altrettanta certezza ha arricchito i suoi attuali dominatori. Una ricchezza che, nei termini della guerra culturale, significa agire con la forza sulle anime, penetrare i cuori e conquistarli a uno degli eserciti in campo, rendendoli pronti a giustiziare il nemico simbolicamente per poi poterne giustificare l’eliminazione materiale. Vi è oggi chi chiama questo modo di agire sulla popolazione «psicopolitica», che non significa altro che «politica delle anime».

Che cos’è la «cultura»?

Guerra culturale, quindi, ma bisognerebbe intendersi meglio su cosa si intende con la parola cultura poiché, nonostante gli antropologi ne discutano il significato da quasi due secoli, a partire dalla definizione che nel 1871 ne diede E. B. Tylor, ovvero che per cultura bisognasse intendere «quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società», a me pare che molto spesso si continui a comprendere la cultura come qualcosa di afferente esclusivamente ai «libri» e a quei pochi altri prodotti riguardanti l’arte o l’esercizio scientifico dell’intelletto. Basta leggere i dibattiti sulla cultura che si susseguono sui giornali per rendersene conto. Invece è la capacità di inserire anche il «libro» in una rete complessa di significati, cioè veramente in una cultura, ad essere fondamentale. E mi sembra che la lettera di Francesco sul «ruolo della letteratura», pubblicata nei giorni scorsi, vada infatti in questa direzione, in quanto essa è pensata come una, pur se privilegiata, delle «vie d’accesso» alla cultura di una società. Ma nella visione del Papa essa non permette solo l’accesso, bensì anche l’«uscita» verso l’altro e l’altrove.

Oggi, per definire che cos’è la cultura, potremmo dunque utilizzare con più sobrietà e maggiore pregnanza di quella tyloriana, proprio perché indiretta, la formula coniata da Clifford Geertz, il padre dell’antropologia dialogica, che ricalca quella di Max Weber e cioè che «l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto». Il lavoro dell’antropologo consisterebbe quindi nell’interpretazione dei significati e della rete che li tiene insieme e cioè nel dargli dialogicamente un «ordine», pur se rigorosamente «locale» e sempre in movimento.

Stando a questa nozione di cultura, una culture war mira allora non solo ad eliminare il presupposto del dialogo e a distruggere la ragnatela che costituisce un’altra cultura, ma a cambiare nello stesso tempo l’ordine della propria, trasformandone e pervertendone i significati. Nel caso della Francia dei Giochi, ad esempio, la triade liberté, fraternité, égalité: la prima viene oggi declinata nel senso di un liberismo esistenziale, la seconda come legge d’iscrizione in un ordine simbolico che designerebbe la vera civiltà, la terza come minimo comune denominatore di un’estetica delle identità.

Le nostre fantastiche libertà di vivere come ci pare, non dimentichiamolo, sono l’altra faccia dell’orrore delle stragi nel Mediterraneo, delle torture nei centri di detenzione dei migranti, del fiorente commercio di armi pronte all’uso, della distruzione del creato e dello sfruttamento intensivo del lavoro. Alla nostra biopolitica delle libertà corrisponde una tanatopolitica del terrore per gli altri. La fraternità che ci è concessa da quest’ordine del mondo, per bene che vada, è quella fluttuante nelle «bolle» dei social media. L’eguaglianza è intesa solamente come fatto endogeno, cioè come patto di convivenza tra quelli che condividono la situazione di privilegio e si sottomettono a un determinato codice politico-economico-culturale, costituendosi dunque sull’esclusione dell’altro che, in quanto tale, non mi è mai eguale nei termini del «diritto ad avere diritti». È in questo modo che, mentre del nostro è permesso fare ciò che più ci piace, il corpo degli altri diventa spazzatura. Ed ecco servita, in tutto il suo scintillante squallore, la «cultura dello scarto».

Mancanza e necessità dell’altro

«Mai senza l’altro», recitava invece il titolo di un bel libro di Michel de Certeau, perché proprio quell’altro che sempre ci manca è «colui senza il quale vivere non è più vivere». Per i cristiani, di fatto, l’altro per eccellenza è proprio Gesù, il Signore, il quale ci sfida incessantemente a riconoscerlo in coloro che ci appaiono come estranei. L’Estraneo, diceva lo studioso gesuita, è Dio stesso che invita Abramo a lasciare il conosciuto per lo sconosciuto. È il samaritano che si ferma a soccorrere l’uomo riverso per strada. È lo straniero di Emmaus che mette i due discepoli davanti alla loro incapacità di comprendere il mistero della croce. E poi, che cosa può significare «perdere la vita per trovarla», se non un appello a farci estranei finanche al nostro bios, cioè alla nostra «identità»? La certezza della fede in Lui, l’Estraneo, sembrerebbe richiedere la perdita di ogni previa certezza su di sé, il presuntamente conosciuto, e il gettarsi in un’avventura sospinta da un’attrazione irresistibile verso l’Altro: «la non-identità è il modo su cui si elabora la comunione» tra di noi in analogia al mistero trinitario, ne concludeva de Certau.

Questa relazione all’alterità, implicante la sua mancanza e allo stesso tempo la sua necessità, potrebbe essere una delle possibili chiavi d’accesso allo scritto di papa Francesco sulla letteratura. Testo che arriva al suo giusto momento, nel suo kairòs, inserendosi nel mezzo del processo che vede la cultura dello scarto trasformarsi in una cultura di guerra il cui motto è, all’opposto di quello proposto da Michel de Certeau, «Sempre senza l’altro». Slogan perfettamente ateo, al di là di tutte le sfumature religiose con le quali molti promotori delle culture wars amano addobbare i loro proclami. La lettera di Francesco entra esplicitamente in urto con questa visione della cultura indicando la vera cultura delle lettere come ascolto dell’altro ed esercizio di discernimento, come possibilità di conversione di sé e di sovversione delle narrazioni dominanti.

Un paragrafo della lettera di Francesco si intitola «fede e cultura» dove la e congiunge e disgiunge, in ogni caso mi pare indicare con chiarezza che non vi è identificazione tra l’una e l’altra: la fede della Chiesa di Gesù non è riducibile a una cultura, a maggior ragione non è un’identità. Ed è proprio il fatto di non esserne una in particolare che gli permette di penetrare e farsi penetrare da ogni cultura, così come di contestare quelle culture identitarie che si reggono sull’esclusione dell’altro. È quella non-identità che, nell’incontro con l’altro, ci permette di deporre anche la nostra cultura personale per favorire lo scorrere della carità. Se possiamo riconoscere il volto di Gesù nell’altro, dunque passando anche attraverso la sua cultura, nessuna cultura o civiltà possiede Cristo. Dunque, non esiste la ma le culture cristiane e nessuna di esse può rivendicare di essere la sola e vera identità cristiana da contrapporre a quelle estranee. In realtà non abbiamo affatto bisogno di identità ma di comunione la quale, al contrario della prima, si accresce attraverso l’ascolto dell’altro e l’amore nella e della differenza.

L’idea poi che civiltà occidentale e cristianesimo siano la stessa cosa e che, dunque, con il tramonto fisiologico della prima debba finire logicamente anche il secondo, facendo posto a una miriade di «spiritualità» individuali, laddove ogni identità invoca il suo «nome» preferito, come sostiene Vito Mancuso nei suoi ultimi articoli, a mio avviso è doppiamente errata. Il cristianesimo è passato anche dall’essere una Cristianità che ormai non esiste più, questa è storia, ma in tutta evidenza esso la eccede ante e post quem. Come già avvertiva il Gesù apocalittico di Matteo 24: vi diranno «“Ecco, il Cristo è qui”, oppure: “È là”; non credeteci». Tanto meno, allora, può essere rinchiuso in una scheggia di passato. Ma Gesù ha detto anche che, sempre, «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

Infine, le inevitabili dissensioni che si presentano nella mia vita, come all’interno di una società o fra società differenti, vanno riportate alla giusta misura del conflitto il quale, scriveva sempre de Certeau, per i cristiani si configura come un’eccezionale esperienza religiosa, facendoci sperimentare nell’umiltà la vera pace, proprio perché «il conflitto ci inizia all’esistenza dell’altro». In realtà è l’altro che ci salva da noi stessi, mentre l’Altro che è Cristo ci salva tutti insieme. In fondo, come diceva padre Turoldo, è il credere stesso a significare l’entrare in conflitto tanto con sé stessi che con il «mondo». Ecco, forse la Chiesa dovrebbe in questo tempo riscoprire una sana spiritualità del conflitto. Anche perché, teniamolo bene a mente, sono le società in cui il conflitto è forcluso che spalancano le porte della guerra.

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