Medio Oriente: negoziati in bilico

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Dopo la strategia dell’ottimismo, gli americani voltano pagina e criticano tutti, cercando di tenere in piedi un negoziato per il cessate il fuoco che viene definito a rischio fallimento.

Esito incerto

I fatti più rilevanti delle ultime ore sono questi: una fonte ufficiale anonima al seguito del Segretario di Stato Antony Blinken ha criticato Hamas per il suo persistente no alla nuova proposta che cerca di risolvere i problemi posti dalle richieste sulla sicurezza poste dagli israeliani. Un’altra fonte anonima al seguito di Blinken però ha criticato il premier israeliano Netanyahu, accusandolo di affermazioni estremiste che allontanano l’accordo. Ma il fatto più importante sembra un altro.

Blinken dopo aver visitato Israele ed Egitto è arrivato in Qatar dove avrebbe dovuto incontrare l’emiro. Invece è stato ricevuto solo da un ministro di secondo piano, sebbene poi abbia avuto un colloquio telefonico con il primo ministro qatarino. Il Qatar è uno dei tre mediatori, con Stati Uniti ed Egitto. E così proprio prima di lasciare il Qatar Blinken in persona ha affermato che gli Stati Uniti non sostengono alcuna occupazione permanente israeliana di Gaza e che questo è molto chiaro.

Il nodo dunque è sempre la nuova richiesta israeliana di mantenere propri soldati nel corridoio Filadelfia, la sottile striscia di terra a cavallo del confine tra Gaza ed Egitto e all’incrocio di Netazarim, nel cuore di Gaza. Per Israele sono indispensabili per impedire l’ingresso di armi nella Striscia e per impedire che, dopo il loro ritiro, tra i palestinesi di Gaza che dal Sud torneranno al Nord ci siano anche armi.

Su questo anche Blinken ha detto che era stato trovato un accordo con Netanyahu ma ora non risulta chiaro cosa questo accordo preveda. In particolare per il corridoio Filadelfia la questione riguarda anche l’Egitto visto che il trattato di pace di pace di Camp David tra Egitto e Israele lo definisce un territorio smilitarizzato. E dopo la visita di Blinken fonti ufficiali egiziane hanno detto che la questione pone loro un problema di sicurezza nazionale.

La debolezza dei leader «forti»

Il fallimento della tappa qatarina dice dunque che tra i mediatori c’è quanto meno maretta. Le parole pronunciate ieri sera da Netanyahu, che ha ribadito con forza le sue richieste, sarebbero state criticate da fonti anonime israeliane, che confermano però che un’intesa sui punti scottanti ci sarebbero. Tra le preoccupazioni che il team americano ha fatto filtrare c’è la possibilità che il fallimento ci riporti al rischio dell’azione militare iraniana e di Hezbollah.

Tutto questo ai miei occhi conferma che non ci si può basare solo sulla forza per costruire una prospettiva di pace. È la tesi che trovo, inusualmente, nell’editoriale scritto per Arab News, giornale di proprietà saudita, dal direttore del più importante media panarabo, cioè diffuso in tutto il mondo arabo, Asharq al Awsat.

È un contributo di assoluto rilievo perché centra un punto importante per l’audience alla quale si rivolge: il mito del leader forte. I leader forti che Ghassan Charbel cita sono tanti, il primo della lista è Putin, poi cita un dittatore, come il nord coreano Kim Jong Un, un terrorista, come il capo di Hamas, Sinwar, un leader democratico, come l’israeliano Netanyahu. L’autore vi afferma che in realtà questi leader, diversi, non sanno garantire né la sicurezza né il benessere, perché la forza non basta a dare una visione.

Il mito della forza dunque per l’autore è debole, e tante guerre lo stanno mettendo in crisi. Questo aiuta anche a capire la grande valenza culturale per il mondo arabo della notizia dell’invito vaticano, per il 26 agosto prossimo, di una delegazione dei parenti delle vittime dell’esplosione del porto di Beirut, avvenuta il 4 agosto 2020.

Diplomazia vaticana per il Libano

La delegazione dei parenti delle vittime incontrerà anche il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, prima della messa privata che sarà celebrata nella cappella Paolina e presieduta dallo stesso papa Francesco. Accompagnata dal nunzio apostolico, comprende figure impegnate da allora nella rappresentazione delle richieste dei familiari delle vittime: Nazih el-Adem, padre Krystel el-Adam, William Noun, il fratello del pompiere morto nel tentativo di contenere le fiamme, Joe Noun, l’avvocata Cecile Roukoz.

Il passo è importantissimo per il Libano, ma l’importanza della decisione vaticana sta nel messaggio culturale che trasmette. Tutti attribuiscono a Hezbollah la paternità dell’esplosione che ha distrutto il porto di Beirut, un quasi fungo atomico che ha messo in ginocchio tutto il Paese, privato della sua principale infrastruttura. La forza ostentata – in modo così provocatorio e arrogante – ha ridotto il Libano in una povertà che nessuno sa più curare, ha incrinato le relazioni comunitarie.

La sola medicina per i sopravvissuti, oltre alla necessaria giustizia oggi negata, è sostituire la forza imposta con l’unità plurale. È l’unità plurale di quella come di tante altre società del Levante, non la forza miliziana, la strada che consente la rinascita e che rafforzerebbe la stessa economia. Ciò che probabilmente sta a cuore alla maggioranza dei libanesi sciiti, sunniti, drusi, cristiani, ridotti quasi tutti in miseria galoppante dalla corruzione di tutti e dalla prepotenza armata di uno.

Il disastro di Beirut in questi giorni parla a tutto il Medio Oriente e il Vaticano ha il grande merito di riportarlo, come è giusto, all’attenzione del mondo. E io vedo una traccia di paura nel fatto che proprio in coincidenza con la pubblicazione di questa notizia Hezbollah abbia fatto pubblicare da un giornale amico un’inchiesta che riduce la presenza dei cristiani in Libano al 15%.

Che siano diminuiti, vista la crisi devastante, è probabile. Così tanto però sembra proprio irrealistico. La reazione non è diretta, sembra nascondersi dietro un semplice articolo giornalistico, ma è una reazione scomposta, nervosa, pericolosa, ma a mio avviso rivelatrice di irata debolezza.

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Un commento

  1. Aldo Ciaralli 28 agosto 2024

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