In dialogo con la città

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città

Asheville Skyline is a painting by Gray Artus

La quarta monografia del 2024 di Presbyteri è dedicata al tema del confronto e della responsabilità del cristiano e del prete per la città degli uomini, un tema che ha attraversato le riflessioni della recente Settimana sociale di Trieste. «Le comunità cristiane, assottigliate nei numeri e sbiadite nella significanza, trovano una difficoltà sempre maggiore nel sentirsi parte e coinvolgersi nella vita della città e nelle sfide urbane di oggi. Eppure è nella storia concreta che si realizza la salvezza che Gesù Cristo è venuto a portare ed è solo abitando e coltivando l’umano di cui siamo parte che trova posto l’annuncio del Vangelo. I luoghi da abitare non devono forse essere più solo quelli del sacro a cui siamo abituati, ma quelli che le persone frequentano ogni giorno e che sono il contesto a partire dal quale mettersi in ascolto ed entrare in dialogo per vedere e promuovere tutto ciò che lo Spirito già ha seminato, per far crescere insieme vita e comunione». Riprendiamo di seguito l’editoriale.

copertina

«Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare (…) Al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione».

È un passaggio dell’articolata riflessione proposta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mercoledì 3 luglio 2024 a Trieste, in occasione dell’inizio della 50a Settimana sociale dei cattolici italiani.

Ha concluso poi il suo intervento con un altro passaggio ricco di suggestione:

«Battersi affinché non vi possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere. Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme. Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino»[1].

Partecipare non è parteggiare

Il bilancio della Settimana sociale di Trieste potrebbe essere racchiuso in una sola parola: partecipazione. Nelle assemblee plenarie e nei laboratori, nelle tavole rotonde delle «piazze della democrazia» nel centro della città e tra gli stand dei «Villaggi delle buone pratiche» quello che risaltava immediatamente erano le tante presenze, soprattutto i tanti volti giovani, che hanno voluto prendere parte in prima persona all’impegno di sentirsi al cuore dei processi di partecipazione, in un momento complesso e delicato come quello che stiamo attraversando.

L’invito a «battersi perché non ci siano analfabeti della democrazia» è stato ripreso anche da Papa Francesco, quando ha chiesto ai cattolici di avere il coraggio di pensarsi come popolo e di partecipare alla politica come bene comune, per contrastare la «cultura dello scarto».

All’ingresso del Centro congressi c’era un’opera gigantesca che ben sintetizzava il senso del «partecipare». Era una enorme tovaglia di 90 metri di lunghezza per quasi due di larghezza, che l’11 aprile scorso era stata stesa in piazza Unità d’Italia per un grande pranzo in compagnia: una originale metafora per dire che partecipare significa innanzitutto creare legami, tessere legami di storie familiari. Su questi pezzi di stoffa uniti come un patchwork ciascuno dei quasi 2.000 ragazzi delle scuole italiane e slovene ha scritto qualcosa: chi il proprio nome, chi uno slogan che riassumesse un qualche aspetto di che cosa significhi «partecipare».

Sentirsi parte viva della città. Come?

A margine del Convegno di Trieste, ho letto con interesse alcune riflessioni dell’ex Segretario generale della CISL Savino Pezzotta[2].

Quanto è avvenuto a Trieste è stato un momento particolare in cui si è percepito con chiarezza il bisogno di vicinanza e di connessione da parte della comunità cristiana alla realtà della «polis», cioè alla vita reale dei nostri paesi e delle nostre città. In un contesto in cui le chiese si svuotano e la frequenza ai sacramenti è sempre più ridotta, si è colta la necessità di andare oltre alla sensazione di un cristianesimo in difficoltà e di una Chiesa in affanno, a causa di questioni interne ed esterne come abusi, operazioni affaristiche e il sempre strisciante clericalismo.

Ci si è trovati di fronte a una realtà viva della comunità cristiana, desiderosa di contribuire al sentirsi Chiesa e a costruire una società più umana. Agire con fede in un contesto politico e sociale, sempre più attraversato dal pluralismo morale, non è semplice e non è facile. È una constatazione piuttosto sconfortante, che tutti i giorni si tocca con mano nel ministero pastorale. Vivere da credenti oggi significa essere persone libere, che sanno evitare l’isolazionismo e la creazione di colonie e lobby autoreferenziali, come capita di vedere a tanti, troppi livelli della vita sociale.

Scrive Savino Pezzotta: «Pensare e agire per una Italia intesa come una comunità ospitale, vitale e inclusiva richiede il superamento della logica patriarcale, maschilista, colonialista e clericale».

Le sfide, che provengono dal sentirsi parte viva della «città», sono immense perché ci si trova di fronte ad un mondo dominato dalla tecnologia, dagli algoritmi e dalla sempre più diffusa logica economica e finanziaria. In questo contesto la Chiesa come comunità può ancora essere una provocazione per stimolare una ricerca profonda del rispetto della dignità umana, della cura dell’uomo e del pianeta in cui viviamo? In questo si misurerebbe un reale e concreto cammino di sinodalità.

Un messaggio dimenticato

Ricordate il V Convegno della Chiesa italiana a Firenze nel 2015: «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo»? Una esperienza di riflessione e di condivisione troppo presto dimenticata!

Nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, ispirandosi al Giudizio universale dipinto nella cupola da Giorgio Vasari e Federico Zuccari, in cui due angeli mostrano il cartiglio dell’«Ecce homo», papa Francesco disse: «Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre detto “homo homini lupus” di Thomas Hobbes è l’“Ecce homo” di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva».

E aggiunse:

«Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo»[3].

Una missio da raccogliere

Ci può essere un mandato da raccogliere per noi presbiteri e per le comunità cristiane?

Per non vanificare lo sforzo fatto a Trieste e la carica motivazionale che da quelle giornate deriva, sarebbe importante, se non necessario, che a livello di base, nelle parrocchie e nei territori, si potessero attivare forum di cittadinanza aperti a tutte le persone di buona volontà.

Sono opportunità, già vissute nel primo biennio del cammino sinodale dedicato all’ascolto (2021-2023), in cui raccogliere racconti e desideri, sofferenze e risorse anche di quanti vivono ai margini della comunità cristiana, ma che comunque si sentono interpellati dal desiderio di «partecipare». Questi luoghi potrebbero favorire il dialogo, la ricerca e la partecipazione, affrontando e discutendo le decisioni delle istituzioni e proponendo progetti di intervento.

Posso esprimere meglio tutto ciò con le parole di Savino Pezzotta:

«Oggi è urgente un forte impegno per portare al centro del dibattito politico, sociale e culturale (e anche ecclesiale) due dimensioni fondamentali per il rinnovo del sistema democratico e dell’economia: l’ecologia integrale e il principio di fraternità»[4].

Attraverso questi forum, dovrebbe nascere un modo di vivere insieme lo spazio pubblico sentendolo come una dimensione meno estranea alle nostre vite di cristiani innanzitutto e di custodi della vita delle comunità cristiane.

Né Ninive né Tharsis

Qualche anno fa mi è capitato tra le mani un volumetto che ricordava la figura e l’insegnamento del teologo e parroco bergamasco don Sergio Colombo: Sergio Colombo uomo della Parola[5].

Scomparso nel 2013 all’età di 71 anni, don Sergio è stato un parroco bergamasco della parrocchia di Redona ed era sicuramente un uomo dalla visione pastorale innovativa, capace di originali intuizioni. Egli diceva che ogni battezzato «non è un cristiano di Chiesa, ma un cristiano nel mondo».

Commentando il libro di Giona, in quel racconto individuava i due archetipi fondamentali della «città» attuale: Ninive, la città secolarizzata, e Tharsis, la città-rifugio (entrambe pericolose). E sosteneva con passione che l’appartenenza religiosa non è il fine del cristiano, ma che il suo impegno essenziale è quello di «fare l’uomo». La fede non propone un modello sociale e politico definito e ciò può fare apparire debole il Cristianesimo e forti altre religioni più rassicuranti.

«La Chiesa non deve e non può rivaleggiare con le religioni della certezza (come l’Islam) né dare vita a una sua contro-società (come la città di Tharsis). Il cristianesimo è opera di un piccolo gregge, un seme, che custodisce il valore divino dell’uomo e che deve essere sparso. Il cristiano influisce sulla “città” ma anche viceversa».

Alla fine della sua vita don Sergio riassumerà la posizione maturata nella comunità di Redona: la politica è una delle responsabilità umane tanto più alte quanto minore oggi ne è la stima; la fede ha un patrimonio antropologico spendibile nei progetti storici, che richiede formazione di laici, dialogo e mediazione; la fine dell’unità politica non dispensa i cattolici dal dar ragione delle scelte davanti alla fede e dal chiarire il metodo.

Sentieri di passione e di speranza

Partecipare: è importante ripartire da questo presupposto che ci aiuta ad avere motivazioni forti e valide, in un contesto diffuso di liquidità, di passioni tristi e di spaesamento collettivo[6]. Non possiamo rassegnarci a sentirci consegnati, in maniera ineluttabile, al nihilismo e al fatalismo.

Come tornano attuali le parole del Salmo 40:

«Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude;
ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi».

Le cose vere della vita nascono sempre dal di dentro, perché solo nell’interio­rità e nel silenzio esse possono crescere e maturare senza forzature e manipolazioni. Camminare insieme sui sentieri della speranza non è solo un impegno del prossimo anno giubilare, è un modo per «partecipare» alla vita della città portando qualcosa di unico ed essenziale.

(1) La via della convinzione: la speranza diviene possibile e vivibile solo se noi stes­si, per primi, la crediamo tale. Quante persone perdono la speranza proprio perché smarriscono la via dell’interiorità del cuore. Quanti dicono sconsolati: «La mia vita è questa … Per me è sempre stato così e non posso fare nulla per cambiare il mio destino». E si arrendono. La vera vittima, nella vita, è soltanto chi si rassegna: vittima di sé stesso, della sua sfiducia, della sua non speranza.

(2) La via dell’accoglienza, che sana le ferite di chi non si è sente capito, accettato e soprattutto amato. Un grande psicoanalista e psicoterapeuta contemporaneo, Sacha Nacht, usa un’immagine che mi ha profondamente colpito: «Se qualcuno viene da te per raccontarti le sue angustie e le sue ansie, tu non clas­sificarlo subito, non giudicarlo, non imbrigliarlo dentro alle tue illuminazioni o sensazioni. Sii piuttosto per lui come… “una comoda poltrona” in cui egli possa sedersi, rilassarsi, sentirsi davvero a suo agio, accolto e ascoltato»[7].

Anche il presbitero, e con lui la comunità cristiana, sono chiamati ad essere come una «comoda poltrona». Quando si vivono momenti di sofferenza, di malinconia, di tristezza – e la vita, in questo senso, non fa sconti a nessuno – questi sono dei macigni insop­portabili se si uniscono al peso della solitudine. Chi è solo difficilmente trova in sé stesso la forza di reagire e di cercare, di rialzarsi e di ricominciare; in altre parole, la forza di sperare.

(3) La via della compagnia: non solo e non tanto perché “insieme è bello”, ma perché insieme il cuore umano trova l’energia per superare tante paure. È davvero importante trovare chi accetta di condividere il proprio lumicino di speranza per camminare insieme, sincronizzando il ritmo del passo, anche se appesantito, vacillante e incerto. Questa è la via dei cuori semplici, di coloro che hanno imparato, non certo senza fatica, a «soffrire sperando».

Guardiamoci attorno: ci sono dei testimoni preziosi e feriali di questa speranza, a cui ognuna delle nostre vite può attingere.


[1] S. Mattarella, Intervento alla cerimonia di apertura della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia, ospitata al Generali Convention Center di Trieste, 3 luglio 2024.

[2] S. Pezzotta, La settimana dei cattolici a Trieste. Riflessioni, pubblicato sul Blog «La barca e il mare. Chiesa e dintorni», 12 luglio 2024.

[3] Francesco, Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù, discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze 10 novembre 2015.

[4] Pezzotta, ibidem.

[5] M. Chiodi, Sergio Colombo uomo della Parola. Antropologia, teologia morale e pratica pastorale, EDB, Bologna 2019.

[6] Cf. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.

[7] Sacha Nacht, psicoanalista rumeno, nato a Bacau nel 1901 e morto a Parigi nel 1976, da famiglia di origine ebraica convertitasi alla religione ortodossa. Essendo ebreo, dovette allontanarsi da Parigi durante la guerra; vi fece ritorno nel 1949, anno in cui subentrò a J. Leuba nella presidenza della Société Psychanalytique di Parigi.

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