Salvezza, singolare plurale

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© James Maher Photography

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Il recente Instrumentum laboris per la seconda sessione del Sinodo fa un’affermazione importante per quanto concerne il senso della Chiesa cattolica rispetto alla salvezza desiderata da Dio: «Attraverso la sua Chiesa, guidata dal suo Spirito, il Signore vuole riaccendere la speranza nel cuore dell’umanità, restituire la gioia e salvare tutti (…). Il rinnovamento del popolo di Dio trova espressione in una Chiesa che, radunata dallo Spirito mediante la Parola e il Sacramento, annuncia la salvezza che continuamente sperimenta a un mondo affamato di senso e assetato di comunione e solidarietà» (IL, Introduzione).

In primo luogo vengono messe in risalto le condizioni teologiche che creano il nesso fra le pratiche della comunità cristiana e l’universale destinazione all’intimità escatologica con il Dio di Gesù. Nella Chiesa, il potere di guida e di convocazione sono sottratti alla sua configurazione istituzionale e posti ben saldi nelle mani affidabili dello Spirito. Nella misura in cui essa è soggetta alla guida dello Spirito e si realizza come comunità da lui convocata, allora emerge la sua funzione teologica: quella di annunciare una salvezza di cui nella Chiesa si fa (dovrebbe fare) esperienza. Le note visibili di questa esperienza sono la speranza e la gioia – è su di esse che si può valutare l’effettiva corrispondenza della Chiesa cattolica alla destinazione voluta per lei dal Signore.

Il documento mostra qui una certezza che, però, avrebbe dovuto essere circondata da maggiore cautela: se il nucleo incandescente della salvezza cristiana è quello di essere un’esperienza, non un discorso metafisico o una ontologia, è chiaro che essa non può essere pensata come se fosse un ex opere operato. Perché il desiderio cristiano di Dio è che la salvezza, di tutti e di tutte, possa venir sentita, apprezzata, goduta – da ciascuno e ciascuna, in ogni luogo e in ogni tempo. Per un’ontologia sacramentale e istituzionale della salvezza non c’era bisogno di investire in essa gli affetti più alti e intimi di Dio – fino a far coincidervi la sua originaria forza generativa. La giuntura fra salvezza ed esperienza, per riferimento alla Chiesa, rimane comunque importante e da non sottovalutare.

Perché è proprio essa che consente un allargamento contestuale delle forme in cui l’esperienza salvifica del Dio di Gesù può essere fatta dagli uomini e dalle donne del nostro tempo. Introducendo alla III parte, l’IL afferma che «la vita sinodale missionaria della Chiesa, le relazioni di cui è intessuta e i percorsi che ne assicurano lo sviluppo, non possono mai prescindere dalla concretezza di un “luogo”, cioè di un contesto e una cultura».

Detta altrimenti, la salvezza come esperienza è possibile solo come forma concreta del vivere umano – nella varietà dei linguaggi e delle condensazioni culturali che lo caratterizzano. Il singolare della salvezza è, quindi, costitutivamente plurale: «il radicamento in un luogo e una cultura» valorizza la «concretezza in cui, nello spazio e nel tempo, prende forma un’esperienza condivisa di adesione alla manifestazione di Dio che salva» (IL, n. 80).

L’esperienza della salvezza è tale solo se è condivisa; e la sua forma comune è capace del plurale dei luoghi in cui avviene l’incontro tra l’Evangelo che salva e la moltitudine dei vissuti umani: «Questo messaggio assume una forma plurale, espressa nella diversità di popoli, culture, tradizioni e lingue. Prendere sul serio questa pluralità di forme scongiura pretese egemoniche e il rischio di ridurre il messaggio salvifico a un’unica comprensione della vita ecclesiale e delle espressioni liturgiche, pastorali o morali» (IL, n. 81). Proprio perché esperienza, la forma della salvezza non può essere egemonica – si dà anche al di fuori del logos greco e dello ius romano.

La privatizzazione della salvezza

Non possiamo però dimenticare che il tema della salvezza si trova ancora sotto l’egemonia del pensiero teologico occidentale e del suo contributo alla genesi della modernità. È tra XIII e XIV secolo che possiamo situare la privatizzazione dogmatica della salvezza cristiana. L’episodio in cui essa si condensa è la diatriba fra papa Giovanni XXII e papa Benedetto XII intorno alla cosiddetta retribuzione immediata essenziale. Recuperando una tradizione del cristianesimo orientale, Giovanni XXII cerca di ricongiungere salvezza e storia ponendo nella risurrezione (del corpo) l’accesso alla visione e al godimento beato di Dio.

Di contro, nella bolla Benedictus Deus del 1336, Benedetto XII (riprendendo la sistematizzazione di Gregorio Magno) afferma l’immediata retribuzione essenziale per l’anima separata dal corpo: accolta subito in cielo o scesa subito all’inferno. Davanti a questo stato delle cose, Moioli si chiede: «Come si può concepire che la morte individuale prima della fine/parousia faccia accedere alla situazione escatologica piena, senza cadere in una escatologia non cristianamente non accettabile della pura immortalità o della risurrezione dell’anima? Qual è il rapporto tra la singola persona, la sua morte, il suo destino, e la storia nella sua dimensione escatologica» – ossia, la salvezza come destinazione (condivisa) comune di tutti e tutte? La dottrina della immediata retribuzione essenziale non rende ragione del fatto che, anche per i singoli, «la fine della storia ha luogo negli ultimi tempi con la risurrezione/parousia» (Moioli).

Staccata dalla destinazione della storia comunemente umana, la salvezza viene così privatizzata e dematerializzata – perde spessore concreto: la retribuzione essenziale immediata (dell’anima) fa apparire la risurrezione (del corpo) un puro ornamento accidentale che nulla significa per la condizione escatologica (definitiva). L’idea di soggetto che ne scaturisce farà da base al percorso del soggetto moderno, rappresentando l’incipit teologico di quello che sarà l’ego cartesiano nella sua dualità di res cogitans e rex extensa.

Un’ulteriore conseguenza è quella del depotenziamento teologico del senso della storia umana, che si ritrova senza una destinazione desiderata da Dio per essa. Quello che abbiamo di fronte è un soggetto della salvezza essenzialmente a-sociale, a cui corrisponde una in-destinazione della vicenda umana comune a tutte e tutti.

Oggi è necessario ricominciare a pensare la salvezza in termini di soggetto collettivo e di reinvestire la storia comunemente umana di una portata teologica che non sia la semplice sommatoria degli innumerevoli percorsi individuali – recuperando la risurrezione del corpo come indice imprescindibile per la salvezza cristiana, con tutta la sua materialità e tutto l’ambiente in cui esso vive, si muove e respira.

Tutti sulla stessa barca

Per un attimo, la pandemia ha sospeso il mondo degli atomi individuali (ponendoli paradossalmente a distanza tra di loro) sufficienti a sé stessi e destinati in forma privata alla lieta comunione con Dio – mettendo a nudo la potenza (ambivalente) della comune destinazione di tutti. Nello scenario surreale, ma sorprendentemente caloroso, di una Piazza San Pietro deserta, papa Francesco si assumeva, il 27 marzo 2020, la responsabilità globale di dire una parola ai popoli di una terra smarrita. «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci mostra come abbiamo abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità (…). Questo è il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa; di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio che nella paura hanno reagito donando la propria vita (…). È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tenute e sostenute da persone comuni (…) che hanno compreso che nessuno si salva da solo».

Per uno strano gioco di interconnessioni culturali fra il teologico e l’asse portante della modernità occidentale, sulla salvezza rimane ancora lunga l’ombra della sua privatezza individuale – esattamente perché non si riesce ad affondare il suo essere esperienza (umana) condivisa da tutti e tutte (di cui la Chiesa dovrebbe essere fenomeno tangibile). Nelle pieghe di queste interconnessioni si è sviluppato un pensiero raffinatissimo per dire che la salvezza è questione del sé solo – e della sua individuale vicenda di libertà. Nelle nostre comunità circola ancora un cristianesimo diffuso costruito intorno a un egoismo soteriologico, dove anche i gesti dell’amore sono, alla fin fine, funzioni e strumenti di una salvezza privatizzata. Non dovrebbe sorprendere più di tanto se questa salvezza non ha molto da dire alla storia delle generazioni che si affacciano alla vita nel mondo del nostro Occidente.

Se nessuno si salva da solo, se il magistero della Chiesa sancisce la fine della salvezza come proprietà privata ed esclusiva del singolo individuo, è allora necessario iniziare a pensare in chiave teologica il comune: ciò che è condiviso da tutti e dà sostentamento a ciascuno, nessuno escluso, senza generare rivalità – secondo una bella definizione di A. Bilgrami (Capital, Culture, and the Commons, Orient BlackSwan, 2022). Nel quadro delle nostre riflessioni sulla salvezza, il comune non è un tema che si aggiunge a essa, quanto piuttosto l’ambito pratico in cui essa accade e si rende possibile – ossia, è la chiave concreta che permette di leggerla e decifrarla come nostra destinazione condivisa.

Ma è anche necessario passare da rappresentazioni logico-linguistiche della salvezza, come ciò che separa gli uni dagli altri, a esperienze di salvezza che accomunano fra di loro gli esseri umani. «L’esperienza vissuta è fatta di aspetti e pratiche non discorsive: sensazioni, sofferenza, piacere, dolore, storia, memoria, cultura – tutte cose che vengono espresse, piuttosto che rappresentate» (Bilgrami).

Uscire dalla salvezza privatizzata, per aprirsi a una destinazione comune, significa anche decostruire il legame che, nel corso della modernità occidentale, si è costruito tra soggetto, proprietà e capitale. Perché il «comune», che esisteva come figura concreta politico-culturale di una comunità, è stato man mano espulso dalla nostra esperienza occidentale proprio dalla privatizzazione (delle terre). Più o meno nello stesso periodo in cui la Chiesa privatizzava la salvezza, le terre comuni o collettive subivano quelle recinzioni che vanno sotto il nome di enclosures che le sottraeva al beneficio condiviso di una collettività umana. Ed è proprio questa sottrazione che ha generato nella nostra mentalità occidentale il sospetto e l’avversione verso ciò che non ha proprietario (come la nostra tendenziale incapacità di prenderci cura di beni pubblici accessibili a tutti e usufruibili da tutti – che sono però altra cosa dal «comune»).

Sospetto e avversione che noi, oggi, abituati alla proprietà privata sentiamo come un prezzo insostenibile che il «comune» chiede di pagare a coloro che lo condividono per poter essere tale. Infatti, il guadagno del «comune» è «a lungo termine, non immediato e sempre incerto; è non è tutto per il singolo individuo, ma diffuso fra tutti coloro che ne partecipano e vi si sostengono» (Bilgrami); mentre quello privato è immediato e certo – riguardando esclusivamente il singolo (esattamente come lo è la retribuzione immediata essenziale dogmatizzata da Benedetto XII). La logica pratica del «comune» non è l’indistinzione di una giustizia come uguaglianza astratta (tipica del percorso giuridico della modernità), ma quella di una giustizia concreta come equità tra i molti che vi appartengono condividendolo tra loro senza rivalità. Giustizia, questa, che ha il suo diritto (come ci mostra l’esperienza delle terre collettive), ma che non rappresenta la forza fondante che rende possibile il «comune».

In prima battuta, seguendo Bilgrami, si potrebbe dire che questa forza è quella della fiducia pratica che circola tra tutti coloro che condividono il «comune». Certo, la fiducia (non come imperativo morale, ma come fondamentale delle relazioni condivise) gioca un ruolo importante nella configurazione del «comune»; ma non è ancora il nome giusto da dare alla sua forza fondante. Ciò che lo costituisce si palesa esattamente quando il «comune» si dissolve, quando la conclusione della privatizzazione lo fa apparire impossibile: «È solo se gli individui fossero profondamente alienati gli uni dagli altri che, allora, essi si domanderebbero con ansia e paura: “cosa succede se io mi impegno a favore del comune e altri non lo fanno?” Questo suggerisce il fatto che se il comune facesse il suo lavoro (…) l’ideale che esso esprime sarebbe quello di una mentalità non alienata» (Bilgrami).

Per liberarci da questa alienazione reciproca tra gli esseri umani, che separa gli uni dagli altri e porta a decostruire il «comune» possibile, è necessario uscire dalla logica del privato legata a un’organizzazione dell’umano come capitale. Organizzazione che non sopporta il «comune» indeterminato e senza proprietà specifica nella giustizia della sua equità, né tantomeno sopporta il rigoroso limite che esso pone al guadagno individuale del singolo (anche della salvezza eterna).

Costituzione ed edificazione della communitas

Quando Luca, in Atti, immagina il fondamentale della comunità che verrà fa perno esattamente sul «comune» (cf. At 4, 32-36). Questo passo, troppo spesso idealizzato e quindi svalutato nell’ingiunzione che esso rappresenta per la Chiesa di ogni tempo, gioca invece un ruolo chiave nell’organizzazione dell’intrigo letterario della seconda tavola lucana. È l’agire dello Spirito che dà forma alla comunità, che appare come il soggetto portante della narrazione – soggetto che è fatto esattamente dal suo essere comune. Il «comune» costituisce dunque l’assemblea dei credenti, la fa essere tale – i quali lo esprimono attraverso gesti di una equa condivisione di ciò che sostenta la vita umana.

Non è la condivisione dei beni che fa la communitas cristiana, ma il fatto che la convocazione dello Spirito si realizza esattamente come essere-comune; è questo fondamento pratico che accende la possibilità di quel modo di essere della Chiesa portato all’espressione nella giustizia evangelica di un’equa condivisione – per cui non si è astrattamente tutti uguali, ma, al contrario, concretamente tutti diversi. La forza del «comune» è quella di onorare questa diversità senza che essa debba essere sentita con risentimento.

L’espressione del sacramento della condivisione, reso possibile dall’essere-comune a cui fa accedere lo Spirito, avviene nel gesto che depone ai piedi degli apostoli il guadagno del «comune». È dunque a quest’ultimo che essi devono la loro autorità, che si accende all’interno della comunità (per la prima volta) nella forma passiva del riconoscimento (e non in quella attiva dell’esercizio). Se viene meno la forza costituente del «comune», questa autorità si ritrova senza fondamento – appoggia letteralmente sul nulla; se si pensa a un primato dell’esercizio, che rende ornamentale il riconoscimento, l’autorità apostolica si trova senza legittimazione – potrà essere giuridicamente valida finché si vuole, ma esce da quella dinamica costituente che la fa essere tale. Pensare il riconoscimento come strategia di governo (della Chiesa), come tende a fare l’Instrumentum laboris del Sinodo per rendere digeribile la sinodalità ai vescovi, vuol dire non capire che è esattamente il riconoscimento che fa l’autorità di alcuni all’interno della comunità – in assenza di esso, e della sua anteriorità, nelle mani apostoliche non rimane che un potere impositivo e coercitivo. Alienante, appunto – perché dispensa alcuni dal prezzo che il «comune» chiede a tutti di pagare per essere come deve essere.

Che nell’evidenza del riconoscimento sorga l’autorità apostolica nella Chiesa dice, ancora una volta, la capacità di differenza e differenziazione propria al «comune». L’equitas non rende tutti uguali in maniera amorfa, ma al contrario vuole che ognuno riceva secondo il suo bisogno – e questo è possibile solo se tutti si rimane nel «comune», dove le aspirazioni delle potenze mondane sono disattivate dal suo essere forza costituente che non può essere sigillata all’interno di un quadro istituzionale definito.

Il ruolo strategico del «comune», principio organizzatore dell’edificazione della comunità cristiana, appare nuovamente nella ripetizione della scena della deposizione che vede come protagonista Barnaba. L’enfasi concessa supera obiettivamente la materialità del suo gesto, ed è quindi indice di altro – non certo della sua generosità maggiore rispetto ad altri, anche perché la giustizia dell’equità interdice ogni meccanismo di comparazione. Piuttosto, la scena dice che anche Barnaba, come il resto della communitas, è mosso dalla forza indisponibile, ma esprimibile, del «comune». Ed è questo che lo legittima all’interno della comunità di Gerusalemme. La legittimazione dell’essere-comune non è mai a proprio vantaggio, ma a favore del soggetto collettivo che esso rende possibile. Con Barnaba questo diventa evidente: l’autorevolezza che l’essere-comune gli dà di fronte alla comunità di Gerusalemme è a servizio della comunione con il cristianesimo delle genti di Paolo. Perché quest’ultimo, accanto a Barnaba, entra egli stesso nella luce di quel «comune» che aveva pur sempre cercato di annientare nella sua espressione.

Nesso, questo, che proprio il «comune» lucano mette in risalto: per parlare del e al giudeo-cristianesimo Luca parla il linguaggio politico ellenistico – e così facendo rivolge la parola a entrambi i lati del cristianesimo che ascoltano la sua narrazione cercando di riconoscersi in essa. Il «comune» dunque non è uno spazio delimitato, né un luogo individuabile, quanto piuttosto una logica operativa che muove gli attori del soggetto collettivo che in esso trovano il loro senso.

Il giorno che verrà

L’escatologico cristiano si annuncia, nella visione che di esso ha Gesù, come la dischiusura dell’appoggio che il «comune», che fa il suo lavoro senza giungere alla consapevolezza di chi è mosso dalla sua forza, rappresenta per la felice destinazione dell’umano – così si può intendere il «lo avete fatto a me» di gesti che toccano esistenze comunemente umane, segnate dallo scacco che la vita può rappresentare per molti. Non ci si salva mai da soli e, di certo, non ci si salva mai senza l’altro del tutto inaspettato (e apparentemente insignificante rispetto alla giustificazione religiosa della nostra personale destinazione) – anzi, è proprio il suo esserci, il suo essere-comune, che diventa ragione della salvezza delle nostre esistenze.

Così si può iniziare a pensare una santità che anziché essere imperniata sull’accumulo di meriti, secondo la logica della privatizzazione della salvezza, si gioca tutta nella loro dispersione, secondo l’operativa equità del «comune». Ad esso i nostri morti e i nostri santi rimangono tenacemente legati, senza sapere come e quando quello che hanno deposto sosterrà il bisogno di ciascuno – ma certi che tutti e tutte, da qui all’ultimo giorno, potranno attingervi senza merito alcuno.

  • Relazione tenuta nel corso della Settimana teologica di Camaldoli.
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2 Commenti

  1. Giuliana Babini 17 settembre 2024
  2. Fabio Cittadini 9 settembre 2024

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