Medio Oriente: nuovo fronte in Cisgiordania

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La scoperta di un piano per realizzare un attentato contro una sinagoga di Tel Aviv ha innescato una delle più imponenti operazioni militari israeliane nel nord della Cisgiordania. Arresti, bombardamenti, battaglie, dieci morti, molti feriti.

L’obiettivo è smantellare la rete terrorista che doveva portare alla realizzazione dell’attentato – che secondo Israele avrebbe il sostegno operativo dell’Iran.  Gli esiti di ciò che sta accadendo sono imprevedibili.

Il ministro degli esteri israeliano, con il sostegno del collega dell’agricoltura, ha detto che questa è guerra come a Gaza, ed ha proposto di trasferire provvisoriamente la popolazione civile in altre zone della Cisgiordania per poter conseguire i propri obiettivi, snidare i terroristi – come accade a Gaza. Si tratta di zone densamente popolate, con diversi campi profughi.

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Gli Stati Uniti con una nota ufficiale hanno espresso comprensione per la preoccupazione di sicurezza, ma hanno chiesto il massimo sforzo per proteggere la popolazione civile. Intanto nuove sanzioni sono state varate da Washington contro i gruppi più violenti dei coloni israeliani. Il segretario generale dell’Onu ha chiesto di fermare l’azione militare e rendersi conto che solo tornare al negoziato per la creare le condizioni per l’esistenza dei due Stati, israeliano e palestinese, potrebbe fermare questa spirale di sangue, odio e violenza.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ha dovuto interrompere una visita ufficiale in Arabia Saudita per rientrare precipitosamente a Ramallah; e uno dei più importanti esponenti di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, ha detto che è l’ora di riprendere gli attentati suicidi. Molti anni fa, quando si trattò di far fallire il processo di pace tra Israele e Olp, le cose andarono proprio così.

Ma è difficile fare un paragone, visto che allora c’era un clima di speranza, oggi di guerra; ed è importante notare che le fonti di intelligence israeliane sostengono che gli aiuti iraniani ai gruppi terroristi giungano dalla Giordania, che ha un confine molto lungo con Israele assai più difficile da controllare rispetto a quello di Gaza. Così non si può non segnalare che i negoziati per raggiungere un compromesso che consenta il cessate il fuoco a Gaza proseguono, ma senza che alcuno segnali progressi.

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Come è noto il punto su cui ci si è incagliati è stata la nuova richiesta israeliana di mantenere un proprio contingente militare sul corridoio Filadelfia, una sottile striscia di terra che corre a cavallo del confine tra Gaza e Giordania. Siccome il piano di pace illustrato da Biden e condiviso dalle parti prospetta il completo ritiro israeliano da Gaza l’accordo non c’è, non solo con Hamas.

Lo stesso Egitto, uno dei tre mediatori insieme a Stati Uniti e Qatar, ha detto che questo gli pone un problema di sicurezza nazionale. Secondo alcuni siti israeliani il premier israeliano aveva pensato di riunire il suo gabinetto proprio sul corridoio Filadelfia, per convincere tutti i ministri della sua importanza. Sarebbero stati i servizi per la sicurezza interna a fermare il progetto, per l’ampiezza della mobilitazione di agenti che avrebbe richiesto.

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Le posizioni che soffiano sul fuoco in questo contesto appaiono una conseguenza di ciò che accade, ma è più probabile che sia vero il contrario, e cioè che quanto accade ne sia in buona parte conseguenza.

Per questo mi ha colpito leggere sulla prima pagina del notissimo giornale israeliano – anche in lingua inglese – Haaretz, costantemente definito giustamente di opposizione al governo in carica, un’analisi alla quale si dà molto spazio: “Cosa ha mai fatto Hezbollah per i palestinesi?”

Le sirene suonano nel nord di Israele per le azioni di Hezbollah e il governo da mesi ha dovuto trasferire provvisoriamente 100mila residenti per motivi di sicurezza. Un’emergenza che sta diventando insostenibile per il governo. Anche la popolazione del sud del Libano è dovuta fuggire, senza che Hezbollah ne parli mai. Ma i risultati di questa guerra di “sostegno” a Gaza quali sarebbero?

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Il termine “provocazione” è stato poi spesso usato per le azioni e dichiarazioni del ministro israeliano Ben Gvir, giunto proprio in questi giorni a dichiarare che lui costruirebbe una sinagoga sulla spianata delle moschee. Anche su questo è intervenuta una nota ufficiale del governo americano, per il quale Ben Gvir “semina il caos” e mette in pericolo la sicurezza di Israele.

Le sue parole sono un problema non solo per i musulmani, ma anche per gran parte dei rabbini di Israele; da molti secoli il rabbinato ortodosso proibisce di pregare lì dove sorgeva il Tempio.  Dunque le continue provocazioni su quel delicatissimo luogo sacro hanno portato molti a invocare il suo dimissionamento dall’esecutivo, anche da parte di soggetti vicini al governo. Ma Ben Gvir è in carica.

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