Teologia traditrice: in dialogo con Dianich

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Nel suo testo, Severino Dianich ha usato una parola dura, quella del «tradimento», per dire dell’apatia della teologia (italiana) sulle cose che succedono nel mondo che tutti abitiamo. Non si tradisce su ciò che è marginale, ma quando è in gioco l’essenziale – in questo caso della fede e, quindi, della teologia.

Se di tradimento si tratta, allora le vicende del mondo e la quotidianità delle donne e degli uomini che in esso vivono fanno parte di diritto dell’impresa teologica cristiana. Se così è, non esiste più un «mondo esterno» (come ancora lo chiama Dianich) e un mondo interno alla rivelazione del Dio cristiano. Modulazione che sembra riprendere la distinzione dei loci organizzata da Cano in propri e alieni (ma, forse, nel XVI secolo il senso di questa distinzione non corrisponde a quella odierna interno/esterno).

Rimane comunque il fatto che su ciò che decide il destino del mondo la teologia cattolica sembra non essere capace di proferire parola. In merito, certo, i teologi hanno la loro responsabilità – personale e collettiva. Mi chiedo, però, se non sia la stessa teologia cattolica ad essere colpevole di tradimento.

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Certo, la teologia non esiste se non in quanto esercitata da teologi e teologhe; ma pensarla unicamente in questa forma significa relegarla a biografia intellettuale della fede di questo o quella credente. Fatto individuale e non comunitario. Di contro, la versione cattolica della teologia ha un doppio corsetto – che tanto la costringe quanto la sorregge.

Il primo è quello della propria storia bimillenaria, luogo in cui l’intelligenza della fede di uno/una si stacca dal semplice percorso biografico e diventa, letteralmente, bene comune. Il secondo è quello del magistero, che ha avocato a sé una primazia anche per ciò che concerne il sapere della fede – a prescindere dalle competenze teologiche di coloro che lo esercitano.

Ci fu un tempo, nella Chiesa, in cui questa primazia si attivava non per controllare, indirizzare, catechizzare il pensiero teologico, ma per evitare che i teologi si scannassero tra di loro, accusandosi a vicenda di eresia, a detrimento della fede comune di tutti i credenti (che né allora né oggi sono degli stupidi o degli ignoranti – e non hanno bisogno di protezione da un buon pensiero del Vangelo, per quanto questo possa essere azzardato; ma giustamente chiedono che quel pensiero abbia realmente a che fare con la fede che vive nel tempo e nella storia).

Non si potrebbe, forse, partire da questo paradossale corsetto della teologia per accorgersi che quello che Dianich chiama «mondo esterno» costituisce invece anche gli articoli più sacri della fede cattolica? Un’onesta fenomenologia della storia della teologia e dei dogmi avrebbe esattamente il compito di mostrarci questo – dai grandi concili cristologici degli albori a quelli ecclesiologici di tarda/fine modernità.

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Sempre questa fenomenologia ci mostrerebbe che le grandi parole della fede cattolica hanno mutato il loro significato, o la loro funzione, nel corso dei secoli. E questo non nella comprensione del «mondo esterno», e neanche in quella dei credenti, ma proprio nell’organizzazione del nocciolo duro della fede comunitaria nel Dio di Gesù. Il magistero che si attiva dopo il dibattito teologico non è il magistero preventivo tipico dell’epoca moderna – dietro il medesimo nome ci sono due realtà completamente diverse tra di loro, che non stanno in continuità l’una con l’altra (se non nominalmente).

E, allora, cosa vuol dire che la discontinuità attraversa da cima a fondo una figura della fede cattolica che troverebbe senso e legittimazione nell’assicurazione della continuità? A questa domanda non si può rispondere in maniera adeguata limitandosi a guardare e scandagliare le «mura di casa e le vicende domestiche» (per riprendere l’immagine usata da Dianich) – perché essa è originariamente intrisa di ciò che apparentemente, solo apparentemente, sta al di fuori di esse.

Altra domanda: perché la teologia cattolica ha deliberatamente scelto di scambiare un’apparenza per la realtà delle cose, facendo del suo discorso una finzione che sta in piedi solo attraverso l’idolatria di un atto di fede che trasforma ciò che non è in ciò che è? Questa transustanziazione dell’apparenza in dato di fatto è il grande tradimento della teologia cattolica, prima e al di là di quello dei singoli teologi (ed eventualmente teologhe, ma queste mi sembrano essere più avvedute della cosa).

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Una simile transustanziazione dell’apparenza in realtà/dato di fatto, che crea ex nihilo il dittico dentro-fuori, può diventare canone dell’intelligenza (cattolica) della fede solo a partire da un ben determinato momento storico – e da una condizione dell’umano a cui la dogmatizzazione della dottrina della transustanziazione cerca di dare risposta.

Il senso del dogma rimarrebbe inintelligibile se tale condizione contingente, e la storia in cui essa è immersa, rimanessero «esterni» alla stessa formulazione autorevole della fede (o ne fossero un semplice rivestimento linguistico – ma il linguaggio può mai essere un mero rivestimento di qualcosa che esisterebbe a prescindere da esso?).

La teologia traditrice, quella che pratichiamo tuttora, è una teologia schizofrenica che nomina altro/alieno ciò che essa è, pensando che questo ente estraneo esista veramente fuori di sé quando invece è un prodotto dei suoi deliri (e della sua patologia).

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Quale cura per la schizofrenia della teologia traditrice? Le piste potrebbero essere molteplici, tanto sul piano della logica che organizza il pensiero teologico quanto sui luoghi della sua pratica. Ciò che unisce questi due lati della domanda è il tema della cultura/delle culture (e quindi delle lingue che la teologia parla). Finché si considerano le culture come mediazioni di qualcosa che nel suo costituirsi prescinde da esse, o viene in un qualche modo immunizzato rispetto al culturale, rimarremo impantanati nella patologia dell’interno/esterno, dentro/fuori, proprio/alieno.

La cultura non è un rivestimento a posteriori di un discorso, o addirittura della stessa rivelazione del Dio cristiano, che si genererebbe indipendentemente da essa – così che il compito della teologia sarebbe quello di tradurre questa ipostasi senza spessore e senza tempo nei diversi luoghi dell’umano vivere lungo la storia. La cultura nelle sue pluralità irriducibili all’unico, fosse anche l’unicità del Dio, non è il campo di applicazione di una traduzione, quanto piuttosto la forza di una generazione della concretezza del Dio appassionatamente amato da Gesù.

Le culture, e le lingue, fondano il discorso e il concetto (ogni discorso e ogni concetto, anche quello teologico), e a monte di esse non si dà alcun evento – neanche quello della rivelazione cristiana di Dio. Soprattutto, senza questo sfondo che regge e organizza tra loro i nessi di evento, discorso e concetto non si potrebbe articolare nessun linguaggio condiviso (neanche quello dell’evento del logos figliale di Dio), da un lato, e nessun codice normativo riconosciuto perché riconoscibile da tutti coloro che vi appartengono, dall’altro.

Solo se le culture, nell’approccio teologico, passano dall’essere funzioni strumentali a principio organizzativo dell’esperienza e del sapere sarà allora possibile iniziare a gettare le basi per una teologia non traditrice. Ed è solo la pratica di questo ambiente teologico, capace di onorare le culture come sfondo e fondamento del logos, che genererà teologi e teologhe in grado di non tradire la destinazione del loro servizio a favore della del Dio espresso da Gesù con tutto se stesso.

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