L’abito del prete

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Le vesti liturgiche fanno parte di quell’insieme complesso e sfaccettato dei segni liturgici che coinvolge diversi aspetti della ricerca antropologica e richiederebbe un approfondimento sugli aspetti psicologici e comportamentali del vestirsi, la simbologia degli abiti, la necessità di vestirsi, l’importanza attribuita al vestito indossato e tutte le implicazioni associate all’abbigliamento, alla moda e alla sensibilità dell’epoca storica.

In ogni cultura, l’abito ha sempre rappresentato un segno che riflette una realtà interiore o il ruolo che alcune persone ricoprono nei confronti degli altri. Questo è evidente dal collegamento linguistico tra il termine latino vestis e investitura, un termine usato in molte lingue europee per indicare la nomina a una posizione ufficiale. Nessun essere umano, inserito in rapporti sociali, è completamente estraneo a questo dato sociologico.

Gli abiti comunicano e lo hanno sempre fatto. Forse oggi comunicano meno, poiché la sovrabbondanza di immagini tende a sminuirne il significato. Questo accade soprattutto perché, nel flusso costante e onnipresente di immagini, gli abiti spesso mancano di significato, ridotti semplicemente a strumenti per catturare l’attenzione di un pubblico ormai insensibile, come dominato dai media e dai social.

Qualsiasi abito si scelga o si indossi per necessità, esso rivela qualcosa di noi: il modo in cui desideriamo presentarci agli altri. Questo gesto richiede particolare attenzione quando una persona, in qualità di pastore, si pone davanti alla comunità. Da qui deriva l’importanza di conoscere i codici espressivi impliciti negli abiti. Per quanto riguarda le vesti liturgiche, è fondamentale conoscerne la derivazione storica e il sistema di significati che esse evocano.

L’abito e la liturgia

In generale, possiamo dire che le vesti liturgiche hanno un’origine profana e quotidiana. Tuttavia, una volta inserite nella liturgia e influenzate da vari fattori storico-culturali (come l’Editto di Costantino) e teologici (come la logica dell’incarnazione), esse sono state soggette alle dinamiche tipiche del linguaggio: al cambiare del contesto, il significante (in questo caso le vesti liturgiche) assume un nuovo significato, trasmettendo così un messaggio diverso da quello originale.

Strabone (808-849), abate, teologo e poeta tedesco, scrive: “Primis temporibus communi indumento vestiti missas agebant, sicut et hactenus quidam orientalium facere perhibentur” (Nei primi tempi celebravano la messa vestiti con abiti comuni, come si dice facciano ancora oggi alcuni orientali)[1].

Non avendo testimonianze esplicite dei primi secoli della Chiesa, le uniche prove a nostra disposizione sono le pitture delle catacombe, dove i ministri che celebrano la santa liturgia sono raffigurati con abiti simili a quelli usati nella vita quotidiana. Questa somiglianza tra abbigliamento civile e liturgico nella Chiesa è rimasta per diversi secoli, anche dopo l’Editto di Costantino (313).

Fin dagli inizi, il cristianesimo ha ereditato alcuni dei sistemi di rappresentazione e comunicazione preesistenti, in particolare per quanto riguarda i segni dell’autorità e del potere, che possono essere espressi attraverso complessi meccanismi di interazione tra forma, immagine e funzione.

Come notano molti autori, il soggetto della liturgia è sempre l’uomo e una costante culturale è che l’uomo racconti se stesso, a sé e agli altri, adattando il suo racconto alle condizioni in cui si trova. Inoltre, l’uomo è homo symbolicus, loquens, artifex, ritualis, mythicus, religiosus, perché è convinto della sua capacità di trascendere se stesso[2].

Nei primi secoli della storia della Chiesa, il “guardaroba” del clero cristiano era del tutto simile a quello della gente comune. Questo accadeva anche perché la comunità ecclesiale si riuniva “kat’oikon”, “presso la casa” delle varie famiglie cristiane, come ricorda spesso san Paolo (cf. Rom 16,5). La tavola su cui si consumava il pranzo diventava così la mensa eucaristica. Sembra che fino al V secolo i ministri indossassero abiti comuni, anche se festivi, evitando quindi quelli feriali e le divise militari. Inoltre, sembra che si usassero semplici calici di vetro.

La separazione dell’abito

In seguito, si passò a indossare abiti modellati sulle vesti e insegne imperiali. Da quel momento iniziò il lungo, variegato percorso della “moda sacra”, che rifletteva il gusto delle diverse epoche e attribuiva a ogni paramento, anche il più piccolo, un valore simbolico. Questo avveniva anche seguendo un passo di Paolo (cf. Ef 6,11-17) nel quale l’Apostolo trasformava paradossalmente l’intero apparato militare (armatura, cinturone, corazza, calzari, scudo, frecce, elmo, spada) in metafore spirituali (verità, giustizia, pace, fede, salvezza, Spirito divino, Parola di Dio). In questo modo, si voleva proclamare la trascendenza divina, il distacco sacrale del culto dalla quotidianità e lo splendore del mistero.

Nel IV secolo, san Giovanni Crisostomo esortava i sacerdoti, in qualità di servitori di Cristo e celebratori dei misteri divini, a indossare abiti almeno superiori a quelli normali[3].

L’uso di abiti speciali, ispirati in parte ai riti dell’Antico Testamento o alle tradizioni del mondo classico, iniziò verso il III secolo e si diffuse rapidamente prima in Oriente. Lì, la vicinanza della Corte imperiale e la naturale inclinazione verso il decorativo e il simbolico portarono presto a espressioni lussuose. Successivamente, questa pratica si estese più lentamente a Roma, dove l’antica austerità latina sembrava persistere anche nella nuova fede. In questo contesto, papa Celestino I (+432) esortava i vescovi a farsi notare più per la dottrina che per gli abiti, affermando che i vescovi devono distinguersi dal popolo attraverso la loro dottrina e non attraverso l’abbigliamento[4].

Nella liturgia, l’importanza della veste è sempre stata relativa. Infatti, come già menzionato, nei primi quattro secoli della Chiesa i ministri del culto cristiano non sembrano indossare abiti speciali durante le celebrazioni, poiché erano consapevoli che l’essenziale non risiedeva nell’esteriorità, ma nel rivestirsi interiormente di Cristo.

All’epoca, si era consapevoli del comune e nuovo sacerdozio che, grazie al battesimo, unisce tutti al Corpo di Cristo, l’unico e vero “sommo sacerdote” della Nuova Alleanza (cf. Eb 4,14). Di conseguenza, non era necessario mettere in risalto le differenze di ruolo; la distinzione era già evidente attraverso il posto e il ruolo che i ministri sacri ricoprivano nell’assemblea[5].

Probabilmente, dietro queste decisioni si nascondeva un atteggiamento critico verso il sacerdozio dell’Antica Alleanza, che in Israele aveva creato una casta sacerdotale che utilizzava i segni liturgici come strumenti di potere. Non possiamo dimenticare le critiche di Gesù nei confronti dei farisei che “allargano i loro filatteri e allungano le loro frange … per essere ammirati dagli uomini” (Mt 23,5).

L’abbigliamento ecclesiastico comincerà a differenziarsi da quello civile, specialmente a partire dall’VIII secolo, anche se già nel IV secolo si affermarono le vesti liturgiche per le celebrazioni dei riti cristiani. Nel XII secolo iniziano a comparire i primi regolamenti sui colori liturgici[6], mentre nei periodi successivi le vesti acquisiranno sempre più splendore con l’uso di damaschi[7]. Successivamente, tra il XIV e il XVI secolo, si diffusero velluti, pizzi, ricami preziosi e ampi galloni sulle vesti.

Le nostre vesti liturgiche hanno origine dagli antichi abiti civili greco-romani. Gli stessi modelli di abbigliamento utilizzati nella vita quotidiana venivano impiegati anche per la celebrazione dei Sacri Misteri.

La riforma carolingia ampliò l’uso dell’abito liturgico romano, attribuendogli un significato mistico e spirituale. Successivamente, le vesti liturgiche si evolveranno ulteriormente fino a giungere alla forma che conosciamo oggi.

Le prime testimonianze dell’uso di vesti sacre risalgono agli inizi del 200, cioè all’inizio del III secolo. Clemente d’Alessandria raccomanda di indossare un abito particolare durante la preghiera.

Alla fine del IV secolo, san Girolamo si rifà all’Antico Testamento per consigliare l’utilizzo di abiti specifici durante la celebrazione dei riti sacri.

Nel corso dello stesso secolo, si diffonde in alcune zone l’abitudine di utilizzare abiti sfarzosi, affinché attraverso questi simboli sia evidente che la liturgia celebrata sulla terra è una rappresentazione di quella celeste.

Da Trento al Vaticano II

Cambiamenti, riforme e semplificazioni dell’abbigliamento liturgico ed ecclesiastico furono introdotti dopo il Concilio di Trento (1545-1563) e il Concilio Vaticano II (1962-1965).

San Carlo Borromeo, nel promuovere la riforma spirituale della Chiesa, si occupò anche della riforma liturgica. In questo ambito, egli incoraggiò una maggiore attenzione e cura nella preparazione, conservazione e utilizzo dei paramenti liturgici, ordinando di eliminare quelli non più idonei. Alcuni di questi furono quindi riutilizzati, mentre altri vennero distrutti. Di conseguenza, troviamo tessuti di epoche precedenti riadattati in paramenti di epoche successive. In alcune circostanze, i tessuti furono riutilizzati per creare abiti di nuovo stile, e quelli di epoche precedenti, considerati troppo sobri o troppo sfarzosi rispetto al gusto del periodo, vennero trasformati per nuovi utilizzi.

Il movimento liturgico del XX secolo si è principalmente impegnato a restituire alle vesti liturgiche una forma più vicina alle loro origini, ma al contempo si avvertiva la necessità di una semplificazione, come auspicato dal Concilio Ecumenico Vaticano II.

La Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum concilium, del 4 dicembre 1963, infatti, richiede che le norme canoniche favoriscano la dignità, la sicurezza e la funzionalità delle varie suppellettili. Questa riforma è stata successivamente attuata da Paolo VI con l’Istruzione Pontificales ritus del 21 marzo 1967 e con l’Institutio generalis missalis Romani[8]: “Nella Chiesa, Corpo mistico di Cristo, non tutte le membra svolgono la stessa mansione. Questa diversità di ministeri nel compimento del culto sacro, si manifesta all’esterno con la diversità delle vesti sacre, che perciò devono essere segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Conviene però che tali vesti contribuiscano anche al decoro dell’azione sacra”[9].

“Il paramento liturgico indossato dal sacerdote nella celebrazione dei Sacramenti indica la particolare missione che svolge il sacerdote nella celebrazione sacramentaria. Egli, in ogni Sacramento, agisce non semplicemente come uomo, ma come rappresentante di Cristo e come presidente dell’azione liturgica, grazie alla speciale potestà sacra di cui è investito con il Sacramento dell’Ordine. Il paramento liturgico pertanto, che il celebrante indossa, indica il peculiare servizio ministeriale del sacerdote, il quale, per la grazia sacramentale, non celebra a nome proprio o come delegato della propria comunità, bensì nella specifica, sacramentale identificazione col “sommo ed eterno Sacerdote” che è Cristo, in persona Christi capitis (in persona di Cristo Capo) e a nome della Chiesa”[10].

Le indicazioni che hanno orientato la riforma liturgica, comprese quelle relative ai paramenti sacri, non sono state sempre rispettate nella produzione di massa di questi indumenti dopo il Concilio. Di conseguenza, alcuni di essi risultano ancora carenti della ‘nobile semplicità’ menzionata nelle Praenotanda del Messale Romano.

Il corpo e l’abito

Anche se siamo consapevoli che l’abbigliamento, come tutti i segni esterni, ha un’importanza secondaria nel culto cristiano, è fondamentale riconoscere che fa parte di un insieme di segni convenzionali rilevanti che hanno radici antiche nella società umana. Nonostante il detto popolare “l’abito non fa il monaco”, è vero che il modo in cui una persona si veste può riflettere il suo pensiero e stile di vita. Questo spiega perché i membri di gruppi politici o sociali tendano a vestirsi in modo simile. In effetti, l’abbigliamento comunica sempre un messaggio e rivela qualcosa riguardo all’interiorità, al ruolo e alla missione di una persona.

Quando osserviamo un corpo umano, non vediamo solo il corpo stesso, ma anche la persona che esso rappresenta. L’abbigliamento è un’estensione del corpo, poiché ne amplifica l’espressività e la capacità di interagire con gli altri.

Se Gesù ridimensiona l’importanza delle forme esteriori e ci incoraggia a concentrarci sull’interiorità, noi, che viviamo in un mondo di segni e percepiamo le realtà come attraverso uno specchio (1Cor 13,12) — sebbene non in modo assoluto — abbiamo comunque bisogno di questi segni per esprimere un culto pienamente umano e incarnato, in grado di comunicare al meglio il significato del rito.

Alla luce di quanto detto, dobbiamo considerare le vesti liturgiche come segni di servizio piuttosto che come simboli di potere o vanità. Sfortunatamente, come accade per molte altre espressioni umane e segni liturgici, anche le vesti possono trasformarsi in segni di potere anziché di servizio. Ancora oggi esiste il rischio che le vesti liturgiche siano influenzate dalla vanità.

Le vesti, essendo essenzialmente segni, richiamano realtà soprannaturali. Tuttavia, le vesti liturgiche, come tutti gli altri segni, possono talvolta oscurare o nascondere il loro vero significato durante le celebrazioni, invece di rivelarlo come dovrebbe. Se indossate dai ministri in contesti non appropriati, la loro preziosità e la ricchezza di ricami, che evocano le culture passate, potrebbero non servire a glorificare Dio, ma a manifestare semplice vanità umana. Al contrario, sia la trascuratezza che la vanità sono dannose per ogni segno; quindi, la soluzione non è eliminare i segni, ma usarli in modo equilibrato.

Nella liturgia non c’è posto per l’ostentazione vanitosa; semplicità e chiarezza del simbolo non sono in contrasto con la bellezza e il decoro. Al contrario, questi due aspetti si uniscono armoniosamente, poiché nella liturgia “ciò che è veramente bello e dignitoso è ciò che è profondamente vero”. Le vesti liturgiche non hanno lo scopo di proteggere il corpo dal freddo, né di soddisfare la vanità umana, ma devono rappresentare una realtà interiore, una missione e un servizio.

Estremismi

Spesso si osserva la comparsa di due estremi che compromettono la liturgia: da un lato, una visione nostalgica del passato e, dall’altro, un’adozione affrettata e irrazionale delle novità future.

Nel primo caso, si osserva una vana esibizione di paramenti sontuosi che non deriva da una vera comprensione e rispetto per una tradizione liturgica secolare. Questo può portare a focalizzare l’attenzione sul ministro e sulla ricchezza delle vesti, giustificando tale ostentazione con l’affermazione dei francescani che “la povertà si ferma ai piedi dell’altare”, e rischiando così di ridurre l’importanza della presenza di Cristo nell’assemblea celebrante.

In un atteggiamento nostalgico verso un passato idealizzato e mai realmente vissuto, vedo una ricerca di un ritorno a una concezione del sacro di origine pagana: un senso di mistero che affascina e spaventa, e che media la presenza del Trascendente. Al contrario, il senso del sacro cristiano è un’esperienza viva del mistero pasquale, una partecipazione, attraverso la creazione, all’amore della Santissima Trinità, che suscita nel cuore non paura, ma stupore.

Di solito, non è il «gusto della tradizione» o il «gusto del bello» a prevalere, ma piuttosto un clericalismo retorico, oppositivo e identitario — una sottile ostilità verso l’evoluzione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II — che in fondo è post-moderno. Il problema non riguarda tanto i vestiti stessi, quanto la mentalità clericale che spesso si cela dietro di essi.

“Ma carissimi, ancora i merletti, le bonete [berrette]…, ma dove siamo? Sessant’anni dopo il Concilio! Un po’ di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella “moda” liturgica! Sì, a volte portare qualche merletto della nonna va, ma a volte. È per fare un omaggio alla nonna, no? Avete capito tutto, no?, avete capito. È bello fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, la santa madre Chiesa, e come la madre Chiesa vuole essere celebrata. E che la insularità non impedisca la vera riforma liturgica che il Concilio ha mandato avanti. E non rimanere quietisti”[11].

“È la grande sconfitta a cui ci porta il clericalismo. E questo con molto dolore e scandalo (basta andare nelle sartorie ecclesiastiche a Roma per vedere lo scandalo di giovani sacerdoti che si provano abiti talari e cappelli o camici e rocchetti con pizzi)”[12].

Nella tradizione cattolica, le decorazioni sui paramenti liturgici sono spesso eccessivamente ornate, includendo liste, galloni, frange, frappe, pizzi e merletti. È significativo che il Papa si riferisca appropriatamente a questi come “merletti della nonna”. Nella moda femminile, pizzi e merletti hanno tradizionalmente simboleggiato eleganza, femminilità e raffinatezza.

È sorprendente notare che molte vesti liturgiche somigliano ai capi femminili, nonostante le donne non ricoprano ministeri ordinati. Ci sono analogie tra i paramenti sacri e la lingerie femminile riguardo ai materiali, ai dettagli decorativi e alle funzioni simboliche.

Se dal simbolo passiamo alla realtà significata, si impone una domanda teologica: il celebrante agisce in persona Christi (identità maschile) o in persona ecclesiae (identità femminile, oppure inclusiva, al di là di ogni identità di genere)?

L’attenzione di alcuni preti ai dettagli come pizzi e merletti suggerisce un comportamento affettato e un atteggiamento ricercato. L’associazione tra antichi paramenti sacri e abbigliamento femminile potrebbe far emergere questioni di orientamento sessuale nel clero, che sono complesse e delicate. Tuttavia, l’attaccamento alle tradizioni liturgiche potrebbe anche riflettere una ricerca di struttura e stabilità. Di conseguenza, la preferenza per vesti liturgiche elaborate potrebbe essere vista come un modo per rafforzare l’identità sacerdotale.

Nel rito sacro persiste il rischio evidenziato dallo scrittore inglese William Hazlitt nel suo saggio Del carattere clericale (1818): «Coloro che fanno del vestito una parte principale di se stessi finiscono in generale per non valere più del loro abito ».

Un abito usato per dimostrare maggiore importanza o una maggiore vicinanza a Dio non rappresenta un ritorno al sacro. Al contrario, papa Francesco si riferisce al suo opposto, alla «mondanità»: si tratta di commercio, apparenza e spettacolo. In questo contesto, l’abito diventa un feticcio e uno strumento di esibizionismo[13].

Nel secondo caso, si osserva una corsa affannosa verso la novità e il sensazionale, che affida alla spontaneità del momento una celebrazione che, invece, è principalmente un dono ricevuto dalla Chiesa dal Signore e tramandato nei secoli, seguendo l’ordine dell’Ultima Cena: “fate questo in memoria di me”. Questa tendenza a spingersi oltre ignora che la liturgia non è una proprietà personale dei presbiteri, ma un tesoro di tutta la Chiesa.

Non sono le elaborate stravaganze momentanee, ma la fedeltà costante che permettono alla liturgia di essere un’azione comunitaria. Coinvolgendo tutti i cinque sensi, essa consente a tutti i cristiani di diventare figli nel Figlio.

La raffinatezza del prete

Mi chiedo: come dovrebbe essere un prete? Raffinato, ma non intendo il lusso. La raffinatezza si raggiunge spesso anche attraverso la sobrietà. Cos’è la sciatteria? È la scarsa attenzione alla forma e alla cura dei dettagli. La liturgia e il sacro non si basano solo su concetti, ma anche sui messaggi che trasmettono. Pertanto, è importante che il prete mostri una predisposizione al decoro, sia nel vestire che nella celebrazione della messa, evitando paramenti mal confezionati o sporchi, ornamenti liturgici di bassa qualità e ambienti trascurati. Un aspetto decoroso contribuisce a rendere la figura del prete e la celebrazione più rispettabili.

Cosa implica la trasandatezza? Significa mostrare indifferenza verso ciò che si celebra e verso i fedeli, dando l’impressione che il prete non creda veramente in ciò che sta facendo.

I segni liturgici dovrebbero essere sempre più simbolici nel loro senso etimologico, cioè come promotori e costruttori di quella koinonia che si realizza sia nella dimensione cultuale e di santificazione (relazione Dio-uomo) sia nella dimensione comunionale intraecclesiale (costruzione del Corpo di Cristo). Solo attraverso questa doppia dimensione, la vita stessa dei ministri e dei laici sarà trasformata in simbolo, e ognuno potrà manifestare la veste bianca che avvolgeva Cristo sul Tabor e gli angeli davanti al sepolcro vuoto.

Forse è davvero il momento di rinnovare l’abbigliamento liturgico per contribuire al rinnovamento di menti e cuori. Da tempo, però, mi chiedo se la nostra incapacità di aggiornare gli abiti, cioè di cambiare il modo di “relazionarsi, comunicare ed elaborare il pensiero” e di rapportarsi al mondo, non sia un chiaro segno delle difficoltà strutturali della nostra Chiesa ad accettare le “scelte che trasformano rapidamente il modo di vivere” che Francesco ha descritto. Quando guardiamo le fotografie del nostro passato recente, ciò che colpisce immediatamente e che ci mostra i cambiamenti realmente “epocali” sono proprio gli aspetti del costume: la lunghezza degli abiti, le acconciature dei capelli e i modelli di scarpe[14].

Gli abiti, i tessuti e i colori non sono solo una questione folkloristica, e sarebbe ingenuo limitarli a un impulso pauperistico. Anche quando vediamo in televisione i “costumi di scena” clericali, ciò conferma una crescente distanza dalla realtà della vita quotidiana. Questi abiti sono segni e allo stesso tempo indicano l’incapacità di adattarsi ai cambiamenti nel tempo, mostrando una presunzione che ciò che cambia è solo superficiale, mentre in realtà non è vero che “todo cambia” (tutto cambia). Gli apparati religiosi continuano ad essere i “guardiani della rivoluzione”!


[1] W. Strabone, De exord. et increm., ed. Knopfler, pag. 72; MGH. leg. sect. II, capit. 2, 1897 (Krause) p. 471- 516.

[2] Cf. C. Valenziano, Liturgia e antropologia, Dehoniane, Bologna 1998, p. 26. Citato in S. Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche, Àncora, Milano 2008, p. 10.

[3] Cf. GIOVANNI CRISOSTOMO, Homilia 83 in Matthaeum, 6, (PG LVIII, 754).

[4] In G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, Tipografia Emiliana, Venezia 1859, vol. XCVI, 202. Cf. Voce “Vesti liturgiche” in Enciclopedia del Cattolico, Bianchi-Giovini, Milano 1948, II, 903-904.

[5] A.G. Martimort, I Principi della Liturgia, Ed. Queriniana, Brescia 1995, vol. I, p. 211.

[6] I colori liturgici sono bianco o dorato, rosso, verde, viola e nero e variano a seconda delle diverse occasioni e solennità liturgiche.

[7] Il damasco è un tessuto che presenta per lo più disegni stilizzati o motivi floreali, nel nostro territorio soprattutto foglie di acanto, ad effetto di lucido-opaco. Di particolare importanza in Calabria era il celebre damasco catanzarese.

[8] Dopo la prima edizione del 6 aprile 1969 dell’Institutio generalis missalis Romani, si sono succeduti cinque successivi rimaneggiamenti, man mano che avanzava l’insieme della riforma liturgica. Gli articoli che riguardano le vesti sacre portano i nn.297-310, secondo il testo del 1974, con in nota l’indicazione delle varianti delle edizioni precedenti.

[9] PNRM n. 297.

[10] PNRM n. 335.

[11]  Francesco, Discorso ai Vescovi e sacerdoti delle Chiese di Sicilia, 9 giugno 2022, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/june/documents/20220609-clero-sicilia.html

[12] Francesco, Discorso alla 18ª Congregazione generale della XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 25 ottobre 2023, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/october/documents/20231025-intervento-sinodo.html

[13] Cf. https://www.settimananews.it/papa/clericalismo-sacralita-del-papato/

[14] Cf. https://ilregno.it/blog/dimmi-come-ti-vesti-marinella-perroni

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Un commento

  1. Chiara 2 settembre 2024

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