La Chiesa sinodale che verrà

di:

chiesa italiana

Il consultore della Segreteria generale del Sinodo e coordinatore degli esperti teologi della prima sessione del sinodo sulla sinodalità (ottobre 2023), don Dario Vitali, ha rilasciato (SettimanaNews, qui) una lunga intervista sull’Instrumentum laboris (IL) per la seconda sessione (ottobre 2024), in risposta ad alcune valutazioni critiche espresse su di esso. Alla fine della lettura ho tirato un sospiro di sollievo, potendomi considerare, se mi è concesso un pizzico di autoironia, promosso.

Chi ha letto i miei contributi sull’IL in questione (qui e qui) sa che nel valutare le cosiddette «decisioni» del processo sinodale ho sempre indicato la necessità di non chiedere all’«istituto sinodale» più di quello che, con «le sue dinamiche», può offrire. Forse, però, c’è qui un equivoco che deve essere sciolto. Chi si è “lamentato” della «mancanza di certe decisioni» immagino sappia benissimo che tali decisioni siano di competenza del vescovo di Roma.

Semplicemente, nella maggioranza dei casi, si è espressa la speranza che il processo sinodale si concluda non con un rinvio infinito, ma con delle proposte di «riforma del sistema» condivise, ossia dotate del «consenso (…) maturo» richiesto dalle procedure: in questo senso, con delle decisioni concrete (cf. Il 71) che, ovviamente, varranno come proposte da indirizzare al vescovo di Roma.

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A tal proposito, invece, è interessante notare un passaggio dell’intervista che riguarda anche una delle questioni su cui molti si aspettano una decisione. Non solo nell’IL non ci sarebbe alcun «no al diaconato femminile» (come scrive Lorenzo Prezzi), ma soprattutto, afferma Vitali, «l’istituzione delle commissioni per studiare i dieci temi che non saranno argomento di discussione alla prossima Assemblea del Sinodo (…) non è uno scippo al Sinodo che, in merito a quei temi, ha già espresso il suo consenso pieno; al contrario, esprime un’autorevolezza e una forza del consenso maturato dall’Assemblea tali da aprire un processo concreto di ripensamento di quelle materie».

Come ho già evidenziato (qui), lo stesso card. Grech si è espresso in termini analoghi durante la presentazione dell’IL, per cui possiamo chiederci veramente se due indizi autorevoli costituiscano una prova del fatto che sul diaconato femminile qualcosa si sbloccherà. D’altronde, una possibile soluzione o direzione in tal senso l’aveva di recente espressa (qui) lo stesso Dario Vitali: «che natura ha il diaconato? A che cosa serve? Nella Chiesa per che cosa è stato pensato? È evidente che se si pensa in unità strettissima con gli altri due ordini, in chiave sacerdotale e in una forma di ascesa verso il grado più alto, allora non c’è spazio per una attribuzione a soggetti che non siano uomini (…) che, però, non corrisponde alla Tradizione», la quale, invece, «pensava il ministero diaconale come forma di servizio alla comunità e nella [quale] era attestata anche una presenza di donne che svolgevano questo servizio. Proprio questa presenza femminile nella Tradizione obbliga a riflettere se non si possa restituire un diaconato anche alle donne. Una riflessione che dovrebbe permetterci di trovare un equilibrio all’interno della Chiesa nel rispetto di tutte le sensibilità esistenti» (cf. anche qui [50.00-53:00], con un argomentazione più ampia che tocca e differenzia la questione dell’ordinazione delle donne [53:00-1:03:00] ).

Resta il problema verificatosi al termine del sinodo sull’Amazzonia, implicito nelle parole di Vitali ma non affrontato nell’intervista, ossia una possibile valutazione da parte del vescovo di Roma di assenza nel «consenso ecclesiale» della «manifestazione dello Spirito e della sua azione nella Chiesa»: valutazione legittima, altrimenti sarebbe come accusare papa Francesco di «resistere allo Spirito», di «disattendere lo Spirito che parla alla Chiesa»; ma valutazione certamente da meglio definire in termini di tempi, motivazioni e pubblicità, in quanto è solo il nostro essere «ai primi passi nel ricomprendere i processi decisionali nella Chiesa nella modalità di una partecipazione differenziata» che, nel 2020, ha reso accettabile una motivazione un po’ troppo generica, pubblicata sulla rivista Civiltà cattolica un mese dopo l’uscita dell’esortazione post-sinodale.

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D’altra parte, nella precisazione relativa alla questione del rapporto tra il cosa della sinodalità «effettiva/affermata» (e non «percepita», come domandato da Lorenzo Prezzi, se non nel senso della «perceptio di Dei Verbum 8») e il come della sinodalità «in esercizio», ritrovo la necessità che ho espresso (qui) di chiarire, in premessa, cosa fondamentalmente rende una Chiesa sinodale (secondo quanto emerso dal processo in corso), per poter poi efficacemente passare al suo come esserlo concretamente nelle relazioni, nei percorsi e nei luoghi ecclesiali (sempre rispettando quanto emerso dal cammino sinodale). In altri termini, Vitali afferma giustamente che si tratta di non partire da «questa o quella singola decisione, questa o quella riforma», ossia da «tante decisioni isolate, che molti invocano su questa o quella materia», proprio per non correre il rischio di scordare, di “rimuovere” cosa rende una Chiesa (costitutivamente) sinodale e, quindi, di riproporre, di “far tornare” gli stessi stili non sinodali nei come singolarmente invocati.

Ad esempio, suggerisce Vitali (a conferma (mi sembra) di quanto ho scritto in termini di declerizzazione dall’interno del ministero ordinato e di decostruzione dall’interno del suo potere), «la ministerialità ecclesiale non si risolve nel ministero ordinato e la discussione non può ridursi a questo stretto ambito: il rischio sarebbe di trasformare la questione in una discussione sulle condizioni di accesso al sacramento dell’Ordine (in ultima analisi, sulle condizioni di accesso al potere), spostando più a valle il problema del clericalismo. Bisogna avere il coraggio di ripensare la ministerialità a partire dalla Chiesa, non dal ministero ordinato, e di collocare questo dentro l’orizzonte più vasto della ministerialità ecclesiale, perché il ministero ordinato non si appropri – come è avvenuto in passato – di ogni capacità attiva. Approfondire singoli elementi è importante e la riflessione sulla natura del diaconato indica un fronte aperto a possibili sviluppi. Ma è la Chiesa ad essere ministeriale».

In tal senso, non è un caso che Vitali ricordi tutta una serie di snodi teologici assolutamente condivisibili (come ho argomentato in modo più approfondito nel mio libro Imparare dal vento): l’intento sinodale di invertire la rotta rispetto al «deficit pneumatologico della teologia latina del II millennio» e di «porsi in ascolto dello Spirito per sapere dove e come affrontare il cammino»; il rapporto tra questo «“Spirito della verità”» (Gv 14,17), la «verità tutta intera» (LG 4) e il discernimento comunitario nello stile di 1Ts 5,19-21; la conseguente centralità nel magistero di papa Francesco dell’«imparare» reciproco tra popolo di Dio, collegio episcopale e vescovo di Roma (LG 12; 22), in quanto «tutti» egualmente sacerdoti come Cristo, dotati dello Spirito e dei cosiddetti tria munera grazie al battesimo comune (LG 10), in una «corresponsabilità differenziata» – per «funzione» e «stile di vita» – solo in vista del «servizio»; l’urgenza, quindi, di «sviluppare compiutamente» la «funzione regale», oltre a quella «profetica», del popolo di Dio con «la partecipazione attiva ai processi decisionali», considerando le «sue funzioni come prime (in ordine di tempo) e necessarie (in ordine alla verità dei processi ecclesiali) per la vita della Chiesa»; il recupero della «circolarità» organica (LG 11) tra gerarchia e popolo di Dio (LG 3; SC 26), tra Chiesa universale e Chiese locali quali «portio Populi Dei (…) che vive la fede in un determinato contesto socio-culturale» (LG 23; CD 11), tra Chiesa cattolica e gli altri cristiani attraverso «un esercizio del primato ripensato non sul versante della giurisdizione, ma del servizio alla communio» (LG 13); il ritorno ad «una Chiesa che viva alla luce del sole, e che adotti la trasparenza, la rendicontazione e la valutazione come criteri che regolano la sua vita, a tutti i livelli». Dice bene Vitali: «chi deprezza tutto questo, in realtà deprezza la partecipazione, o perché non ci crede o perché la teme».

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Addirittura, seppur in modo implicito, emerge dalle parole di Vitali l’esistenza di quel decennale conflitto intra-ecclesiale, spesso a rischio di rimozione, che ho sempre segnalato e che «rischia di bloccare di nuovo il cammino della Chiesa, come è avvenuto per tre decenni, quando si è introdotta un’ecclesiologia di comunione per troncare le discussioni senza fine su una Chiesa “dal basso” contrapposta a una Chiesa “dall’alto”». Oggi, nella convinzione di Vitali, espressa con parole severe ma pensate da tanti, sono «molti quelli che desiderano e lavorano per un ripristino dello status quo; molti quelli che giudicano la sinodalità una moda del momento, che passerà con il passare di questo pontificato», «sono in molti a (…) dire che il sistema non funziona, perché non tutti hanno partecipato. Ma c’è da chiedersi se quanti non hanno partecipato al processo sinodale, lo abbiano fatto per scelta propria, o piuttosto perché (…) troppi vescovi e troppi preti non si sono nemmeno degnati di informare il Popolo santo di Dio, giudicando inutile un Sinodo che veniva a disturbarli nell’esercizio di un ministero ormai ridotto, nella gran parte dei casi, alla custodia delle macerie»: «l’opposizione a questo papa in realtà nasconde l’opposizione non dichiarata e mai superata di alcuni ambienti all’ecclesiologia del Vaticano II. In gioco c’è l’eredità del concilio, che sarebbe ormai un patrimonio condiviso se, alle frange che lo contestano, rispondesse una Chiesa che il Vaticano II lo conosce, perché lo ha studiato, lo ha assimilato, lo vive. Esiste un’ignoranza del concilio pari alla supponenza di conoscerlo!».

Qui, forse, Vitali indulge sui motivi storico-ecclesiali di tale ignoranza, ma certamente il programma che ne consegue è vastissimo e molte delle contraddizioni e dei problemi che vengono segnalati nel cammino sinodale dipendono anche da tale vastità: «un esercizio del ministero petrino in senso sinodale è tutto da riscrivere», anche perché «se c’è una via per la quale è possibile pervenire a un esercizio del ministero petrino in chiave ecumenica, questa è la via sinodale»; «come è da riscrivere il ministero episcopale (pensiamo alla normativa relativa alle nomine, che non prevede alcuna parte del Popolo di Dio e del presbiterio; o a quella relativa alla fine mandato, consegnata oggi soltanto a un meccanismo burocratico). Ma tutta la ministerialità ecclesiale è da ripensare, e non in termini di rivendicazione… Se la Chiesa è una comunione di Chiese, ogni Chiesa dovrebbe aprirsi a questa sfida di pensare una ministerialità a misura di quella specifica portio Populi Dei».

In questo compito, conclude Vitali, sarà fondamentale l’apporto dei teologi, sempre che accolgano un ruolo di «supporto all’Assemblea», «un lavoro di squadra», «umile, nascosto, che mette conoscenze e competenze a servizio» dei padri e delle madri sinodali, spesso «componendo le tante prospettive che non di rado risultano in tensione tra loro», offrendo infine «le motivazioni a sostegno di un cammino di Chiesa che ha bisogno di ragioni convincenti per tradursi in forma e stile di Chiesa».

Ora, non possiamo né sapere né prevedere quanto di questo vasto programma si realizzerà, o la qualità spirituale della sua realizzazione, ma anche se nella Chiesa dei prossimi anni si consolidassero solo gli snodi sopra evidenziati e almeno la consapevolezza del conflitto in corso (se non la volontà di cominciare a risolverlo) – come diceva qualcuno – ce ne sarebbe d’avanzo

  • Pubblicato sul sito Vino Nuovo il 30 agosto 2024. Si ringrazia per il permesso di ripubblicazione.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 5 settembre 2024

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