Complimenti al cappellano del carcere minorile del Beccaria per aver usato l’espressione «dolore profondo ancora senza nome» per descrivere quello che, molto probabilmente, sta provando il diciassettenne reo-confesso della distruzione della sua famiglia.
Meno complimenti all’Avvenire per aver messo come titolo il fatto che avesse chiesto di confessarsi.
La giustizia faccia il suo corso, si usa dire. Tuttavia necessitano altri approfondimenti.
Non di delinquenza, cattiveria, perversione, ma di “dolore” si tratta.
Uno star male dentro, talmente “profondo” da non permettere lacrime alcune. Quando arriveranno le sue lacrime, dovrà essere aiutato per evitare che si trasformino in disperazione.
Un “ancora” inteso come tempi di attesa che dovranno essere i suoi e che andranno rispettati.
Le forzature sarebbero violenze che raddoppierebbero un dolore “senza nome”.
Potrebbe essere una forzatura anche il tentativo di trovare il nome.
Il dolore è strettamente personale. Forse sarebbe irrispettosa anche la definizione del nome.
Le scienze umane sono obbligate a categorizzare, ma il dolore profondo ha solo il nome di chi ne soffre.
I nomi e le descrizioni che le scienze umane daranno non saranno utili per condannare, ma opportunità di riflessione per tutti noi.
In quanto al titolo dell’Avvenire, vorrei ricordare quello che le scienze umane dicono. Ne approfitto per citare quello che facevo dire ad un personaggio di un mio testo teatrale scritto e presentato in occasione del giubileo della misericordia: «Il senso di colpa e la vergogna bloccano, condizionano o, comunque, rendono doloroso il vivere».
Non sono un teologo, ma non credo che la confessione vada intesa come un atto così miracolistico da raggiungere la profondità di certi dolori. Sono livelli diversi. Dio è misericordioso e perdona, ma il perdonarsi è altro.
Quando il dolore è profondo ed è molto difficile trovarci il nome, i processi di consapevolezza sono lunghi e vanno accompagnati con atteggiamenti accoglienti, empatici e con quella tenerezza che favorisce il protagonismo di colui che soffre.
Alcune volte l’affermazione di un giovane che dice di sentirsi “corpo estraneo” potrebbe farci riflettere.
Forse sono molti i giovani che si sentono corpi estranei non solo al contesto socio-politico, ma soprattutto estranei alle relazioni interdipendenti significative.
Forse vale la pena ricordare quello che scriveva il filosofo, teologo e pedagogista Martin Buber: «Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e unico. Ciascuno ha l’obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui. Se, infatti, fosse esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo».
Potrebbe essere utile anche quello che Viktor Frankl ritiene fondamentale del vivere: «Volontà di significato» come «desiderio di una vita che sia il più possibile piena di significato».
Francamente sono stat dette delle cose senza senso. Primo perché dono Federico Burgio non è più il cappellano del Beccaria. Secondo perché, per il diritto canonico – e qui l’ignoranza è sovrana – l’omicida è colpito da scomunica “latae sententiae”, per cui solo all’Ordinario del luogo è concessa di reintegrarlo nella comunione ecclesiale. Quindi non il ragazzo non si è confessato. I due avranno al massimo parlato. Terzo perché su certe vicende occorre anche rispettare le vittime, in questo caso i nonni che si trovano ad avere un nipote che ha commesso qualcos di abominevole.